Il valore strategico del mare

CAGLIARI-STAMPA-300x224
di Gianfranco Sabattini
Lo sviluppo dei traffici è strumentale alla crescita economica, e quest’ultima lo è all’aumento della crescita della potenza militare. E’ inutile dire che, con l’enorme sviluppo dei traffici commerciale, avutosi con l’allargamento del processo di globalizzazione, la condizione per conservare, sia la capacità di crescita economica, sia la primazia della potenza militare a supporto della prima, richiede il controllo dei mari. E’ ancora inutile dire che, tale controllo deve essere finalizzato principalmente a garantire l’ordinato svolgersi del sistema dei traffici commerciali, pena l’insorgere di difficoltà nel conservare le condizioni necessarie per la stabile crescita economica interna. [segue]
Al tema del controllo dei mari è dedicato per intero il n. 7/2019 del mensile “Limes”; la quasi totalità degli articoli, tratta infatti il problema della concorrenza tra le grandi potenze globali (principalmente Stati Uniti, Cina e Russia) che attualmente si confrontano per conservare, contrastare ed estendere l’egemonia marittima. Il mare – secondo l’Editoriale del mensile – “non è piatto. Esiste una gerarchia delle onde. Senza prevalere sulle acque non si può ambire all’egemonia sulle terre. Nessuna potenza è solida se trascura la dimensione liquida”. Se è impensabile il controllo totale dell’”Oceano mondo” (che copre il 70% della superficie terrestre), egemone è quella potenza che riesca, direttamente o tramite coalizioni con partner di rango inferiore, a controllare gli “snodi strategici” o “choke points” (punti di strangolamento”; in pratica, gli stretti marittimi.
Infatti, come “le valvole regolano il flusso dei gas – si afferma nell’Editoriale -, così i canali naturali o artificiali ritmano il giro delle merci che viaggiano lungo le rotte marittime – i nove decimi circa del valore totale”. Chi controlla gli stretti, quindi, può guardare “il mondo dall’alto”; ciò perché, sul piano tattico, può decidere “di chiudere o aprire le arterie dell’economia globale”. Oltre a rivestire un’importanza economica primaria, gli stretti hanno, quindi, rilevanza anche in campo militare, per colpire qualsiasi potenziale nemico, o chiunque attenti al normale svolgersi dei traffici marittimi; ma il controllo degli stretti ha anche una funzione strategica, perché consente di utilizzare il dominio sui “punti di strangolamento” delle arterie marittime, come deterrenza e dissuasione nei confronti del concorrenti.
Chi ha teorizzato l’importanza del potere marittimo (seapower), fondato sul controllo degli stretti naturali e artificiali, è stato, nel secolo scorso, un ufficiale della marina degli Stati Uniti, l’ammiraglio Alfred Thayer Mahan, autore nel 1890 di uno studio (“L’influenza del potere marittimo sulla storia”) che, dalla sua pubblicazione, non ha cessato di influenzare l’elaborazione della strategia marittima dei Paesi con interessi proiettati oltre i loro confini.
Il pensiero che Mahan ha avuto modo di sviluppare e approfondire con lo studio e l’insegnamento presso il War College (nel quale egli è stato impegnato dopo il ritiro dal servizio attivo), è consistito nell’affermare che vi fosse una contrapposizione significativa tra le potenze continentali e quelle marittime, sostenendo che queste ultime fossero per loro natura più forti e in grado di affermarsi sulle altre.
Mahan ha costantemente sottolineato come il mare potesse influire sul corso della storia, in quanto esso consentiva il trasporto più veloce ed economico delle merci attraverso la creazione di rotte commerciali. Partendo dal presupposto che lo sviluppo del commercio era essenziale per l’aumento della potenza militare, egli concludeva che uno Stato non potesse non avere interesse a sviluppare una flotta commerciale. Questo stesso Stato, secondo Mahan, doveva però anche garantire la sicurezza delle proprie navi commerciali, attraverso una marina militare in grado di evitare che le rotte fossero gravate da eventuali minacce.
Mahan è stato anche l’anticipatore delle idee circa il ruolo che, nel controllo dei mari, potevano rivestire le organizzazioni internazionali, nonché gli accordi e le alleanze coi Paesi presenti nei singoli oceani. Egli infatti affermava che una potenza era in grado di prevalere sui concorrenti solo con le proprie risorse; ma, per ragioni economiche e strategiche, poteva essere conveniente realizzare alleanze internazionali aventi rilevanza locale.
Non casualmente, perciò, disponendo di un “pensiero navale” appropriato, gli Stati Uniti hanno potuto realizzare, nell’arco di un secolo, la propria egemonia sui mari, supportata da un sistema di “flotte militari” dislocate nei vari scacchieri oceanici; negli ultimi anni, tuttavia, gli ambienti militari e politici americani hanno maturato la preoccupazione che il loro sistema navale possa, in un avvenire non troppo lontano, andare incontro ad un sicuro declino; ciò, per il sorpasso che la “US Navy” potrebbe subire da parte della marina della Repubblica Popolare Cinese, soprattutto dopo l’adozione, per iniziativa dell’attuale Segretario del Partito Comunista Cinese (nonché Presidente della Repubblica Popolare Cinese), Xi Jinping, del progetto di sviluppo pacifico del grande Paese asiatico (cui hanno aderito diversi Paesi sparsi per tutto il mondo, tra i quali l’Italia), da realizzarsi con la costruzione della grande infrastruttura delle due vie della seta: una terrestre ed una marittima.
La via della seta marittima è, ad un tempo, sia commerciale che militare; la sua realizzazione, infatti sta avvenendo con la dislocazione di guardie armate e di sistemi di protezione delle infrastrutture realizzate, con la possibilità, quindi, che queste possano evolvere, in tempi brevi, in vere e proprie strutture militari. Questa situazione, prescindendo dagli aspetti politici e considerando solo quelli economici, è stata la conseguenza del processo di espansione dei traffici commerciali, coincidente con lo sviluppo della globalizzazione delle economie nazionali.
Dopo il crollo del mercato internazionale avvenuto tra il 1914 e il 1945, si sono ricreate, con la fine del secondo conflitto mondiale – come afferma Fabrizio Maronta in “Il perno asiatico dei commerci marittimi”, (“Limes n. 7/2019) – “le condizioni per una nuova esplosione degli scambi”, grazie soprattutto alla rivoluzione tecnologica resa possibile dalla diminuzione del costo del trasporto e delle telecomunicazioni.
Con la caduta del Muro di Berlino, complice l’approfondimento della globalizzazione e l’ingresso, nel 2001, della Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio e lo sviluppo di molte economie sino ad allora arretrate, le esportazioni mondiali sono raddoppiante, sino a valere il 29% del PIL mondiale, mentre il valore del commercio internazionale complessivo (inclusivo dell’import-export globale) ha raggiunto ora il 55% circa dell’economia mondiale. In questo ampio processo di crescita, se la globalizzazione – afferma Maronita – “ha avuto nel commercio internazionale il suo fluido vitale, il mare che quel commercio in gran parte sostiene ne è [stato] infrastruttura portante”, il cui assetto ha risentito dell’imperium degli USA, giunto al suo apice dopo la fine del secondo conflitto mondiale; un assetto che, da almeno vent’anni, ha nell’Asia e nell’Oceano Pacifico la “nuova frontiera commerciale e strategica”. In quest’area infatti, il dominio del mare da parte degli USA è sotto pressione su più fronti, il principale dei quali è espresso dalla sfida proveniente dalla Cina, soprattutto dopo la decisone di attuare il progetto che prevede la costruzione delle due vie della seta.
Questo progetto si propone in realtà – come afferma Phillip Orchard in “Gli Stati Uniti restano padroni dei mari per il momento” (“Limes” n. 7/2019) – di perseguire, sotto mentite spoglie, la riduzione del divario “con la superpotenza in termini di forza navale”. Tale obiettivo ha dato origine alla sfida più formidabile lanciata contro gli Stati Uniti dal collasso dell’Unione Sovietica; si tratta, tuttavia, sempre secondo l’analista Orchard, “di una minaccia profondamente diversa da quella dell’URSS, i cui imperativi geografici e strategici le imponevano di concentrasi primariamente sul dominio della massa continentale euroasiatica, non su quello dei mari”; obiettivo, questo, rimasto sostanzialmente immutato con l’avvento dell’attuale Federazione Russa.
Ma, a differenza di quest’ultima, la Cina dispone di una struttura economica fondata sull’industria manifatturiera, che le impone di realizzare lo sviluppo di una forza marittima adeguata, come dimostra il fatto che, in termini di numero di navi da guerra – parametro che tuttavia non rappresenta fedelmente i rapporti di forza – “la marina dell’Esercito Popolare di Liberazione ha quasi raggiunto la sua controparte americana”. I fattori chiave della potenza navale sono però espressi dalla “sofisticatezza tecnologica” e dalla rete di supporto logistico; fattori, questi, che a parere di Orchard denotano un ritardo di decenni della Cina rispetto agli USA.
I punti di forza che hanno permesso agli Stati Uniti di conquistare l’egemonia sul mari non sono diminuiti rispetto al passato; Washington può ora anche avvalersi di un sistema di alleanze costruito nell’arco di un secolo, senza contare il fatto che il riarmo della Cina avrà l’effetto di promuovere il riarmo navale del Giappone; il quale, seppure di rango inferiore alla Cina sul piano della forza militare, dispone di un sistema economico, della conoscenza tecnologica e della coesione politica in grado di consentirgli di diventare una potenza navale del Pacifico occidentale, alleata degli USA.
Cionondimeno, conclude Orchard, un dominio dei mari della portata di quello esercitato ora dall’”US Navy” non può durare in eterno; a causare le sue impreviste alterazioni saranno le trasformazioni tecnologiche, in particolare quelle che trarranno origine dal controllo dello spazio. Tenuto conto di ciò, non è realistico – sostiene Orchard – aspettarsi che, nel prossimo mezzo secolo, si verifichi una alterazione dei rapporti di forza tra Cina e Stati Uniti, tale “da mettere in discussione la supremazia americana. [...] Ma la minaccia posta da Pechino è sufficientemente concreta da aver indotto gli americani [...] a prendere in considerazione l’idea di doversi adattare a un mondo nel quale non saranno più padroni incontrastati dei mari”.
Allo stato attuale, tuttavia, se gli USA vorranno contenere la sfida lanciata dalla Cina e continuare a mantenere il controllo delle rotte marittime, attraverso le quali passa gran parte del commercio con l’Asia, non potranno che fare affidamento sull’”aiuto” che possono ricevere “da piccoli e grandi amici”, ponendo la loro flotta presente nel Pacifico Occidentale e nell’Oceano Indiano a presidio anche dei loro interessi. Giappone, Australia e India sono i Paesi destinati a volgere il ruolo principale in tale strategia di contenimento delle proiezioni esterne della Cina.
Come è logico, però, a parere di Xander Snyder, autore dell’articolo “L’ineguagliabile centralità del Pacifico per l’America” (“Limes” n. 7/2019), “Pechino non intende far dipendere la propria prosperità economica futura dalla magnanimità degli Stati Uniti e dei loro alleati”. Uno dei suoi obiettivi di breve periodo è stato individuato nel tentativo di limitare il controllo da parte statunitense delle rotte commerciali che passano in prossimità della Cina continentale. A tal fine, però, Pechino deve confrontarsi con due ostacoli: il primo è legato alla paura che molti suoi vicini continuano a nutrire nei confronti di una potenza percepita come potenziale minaccia alla loro sovranità; il secondo ostacolo è rappresentato dal fatto che la marina da guerra statunitense risulta tuttora più potente di quella cinese.
Per superare o limitare l’inferiorità navale dovuta a tali limiti, non casualmente la Cina cerca portare a termine, con ritmi sostenuti e notevole impiego di risorse, la realizzazione del progetto della “due vie della seta”, delle quali quella marittima ha, come si è detto, una doppia funzione, commerciale e militare. Ciò significa, secondo Snyder, che la Cina, almeno per il momento, “non sta puntando a battere gli Stati Uniti sul loro stesso terreno”, bensì alla realizzazione di progetti (vie della seta, isole artificiali armate in prossimità della sua massa continentale e potenziamento del proprio arsenale di missili balistici) coi quali intende portare una potenziale minaccia il più vicino possibile ai punti di forza della potenza degli USA: nel caso della costruzione delle due vie della seta, per inasprire la competizione economica nel confronti dell’economia degli Stati Uniti; nel caso delle isole artificiali armate, per pattugliare le aree marittime che considera proprie acque territoriali (Mar Cinese Meridionale e quello Orientale); nel caso dei missili balistici, infine, per contenere la minaccia delle portaerei statunitensi che pattugliano quelle acque ed altri scacchieri oceanici.
In conclusione, sebbene la Cina rappresenti il più importante ed agguerrito comperitore degli USA nell’Oceano Pacifico, sembra lontana la probabilità che, almeno nel breve periodo, durante lo svolgersi del confronto fra le due potenze, scatti la cosiddetta “Trappola di Tucidide”, con l’inizio di un confronto armato. Ciò non toglie tuttavia che, sebbene gli USA siano destinati a godere ancora a lungo di una posizione di vantaggio nel Pacifico, il mondo sia costretto a contare su uno stato di pace di breve periodo, facendo affidamento sulla possibilità che gli Stati Uniti riescano a conservare il vantaggio del quale dispongono nella corsa a dotarsi della maggiore capacità di dissuasione nei confronti della Cina; condizione troppo aleatoria per garantire la pace anche di lungo periodo.

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>