La Cina è vicina
Il coinvolgimento dell’Europa e dell’Italia nel progetto della “Nuova Via della Seta”
di Gianfranco Sabattini
Del progetto della “Nuova Via della Seta” ormai si conosce tutto; ma, mentre lo si sta realizzando, col suo continuo adattamento ai profondi cambiamenti globali che si stanno susseguendo, il ricupero dell’antica espressione “Via della Seta” non è più sufficiente a descrivere le sue attuali finalità, espresse dalle moderne formule “Belt and Road Iniziative” (BRI) e “One Belt One Road” (OBOR).
La dimostrazione del continuo adattamento a nuovi obiettivi del progetto è dimostrato dal fatto che, all’inizio del 2018, il governo cinese ha pubblicato il libro bianco “China’s Artic Policy”, che ha delineato, con la nuova formula “One Belt, One Road, One Circle”, la decisione di Pechino di sfruttare le opportunità connesse alla continua espansione delle proprie attività commerciali; oltre alla realizzazione delle vie terrestri e marittime a suo tempo progettate, se ne prevede il potenziamento con l’inaugurazione di una “Polar Silk Road”, per raggiungere l’Europa in tempi più brevi attraverso le vie marittime artiche e connettersi così con i “corridoi ferroviari” già esistenti.
A dispetto dell’espressione originaria di “Via della Seta”, secondo Diego Angelo Bertozzi, autore di “La nuova via della seta. Il mondo che cambia e il ruolo dell’Italia nella Belt & Road Iniziative”, la “Nuova Via” non evoca più un “itinerario” o una “strada”, ma “una vasta rete di itinerari” che, muovendo dal cuore della Cina, pur evocando lo scopo dell’antico progetto, lo ripropone con “gli occhi rivolti al presente” e alle urgenze imposte dalla globalizzazione delle economie nazionali.
In questa prospettiva, la realizzazione e l’espansione della vasta rete di itinerari corrisponderebbero, secondo quanto sostengono i cinesi, alla convenienza che le diverse economie integrate nel mercato mondiale potrebbero rinvenire nel favorire il reciproco vantaggio connesso alla realizzazione di un futuro caratterizzato da una continua espansione del commercio internazionale.
In questo contesto, tuttavia, con il progetto “Nuova Via della Seta” la Cina non persegue solo la sua crescita economica, ma anche il ricupero della sua antica vocazione marittima (per lunghi tratti della sua storia oscurata dall’urgenza di mettere in sicurezza i propri confini terrestri) in funzione della sua ascesa al ruolo di uno dei leader primari nel marcato mondiale.
Tra le implicazioni del ricupero della vocazione marittima vi è quella, fondamentale per la Cina, della tutela delle proprie rotte commerciali, che richiede un’adeguata capacità di proiezione militare, la realizzazione di collaborazioni internazionali e la predisposizione di avamposti strategici; tutte iniziative, queste, che devono essere condotte sul difficile terreno del “soft power”, in considerazione del fatto che gli establishment dominanti in Occidente percepiscono – a parere di Bertozzi – tali iniziative come tentativo della dirigenza cinese di “costruire un proprio impero, reintroducendo in Asia l’antico sistema sinocentrico, che vedeva l’Impero di Mezzo circondato da Paesi tributari che ne riconoscevano il primato politico e culturale”. Il progetto della “Nuova Via della Seta” sarebbe pertanto lo “stratagemma”, messo in atto da Pechino, per evitare il confronto diretto con gli Stati Uniti e “minare”, poco alla volta, le fondamenta sulle quali poggia la realizzazione delle attuali strutture economiche internazionali imposte dagli USA.
Sulla base di questa interpretazione delle finalità del progetto della “Nuova Via della Seta”, l’Occidente si troverebbe, secondo Bertozzi, di fonte al progressivo dispiegamento di una struttura parallela all’”Organizzazione Mondiale del Commercio”, gestita “da un “leading group’ del Partito Comunista cinese”, il cui scopo sarebbe quello di destabilizzare gli attuali organi di governo del commercio internazionale.
Per evitare interpretazioni fuorvianti delle finalità del progetto, la Cina è impegnata nel tentativo di affievolirle, ricorrendo ad iniziative diplomatiche che si collocano, come si è detto, sul difficile terreno del “soft power”. E’ per questo motivo che Pechino, nel propagandare l’importanza della realizzazione del proprio progetto BRI, preferisce denominarlo “Iniziativa”, anche in considerazione del fatto che, per Bertozzi, “non mancano ragioni effettive a sostegno di tale preferenza”, dato il carattere aperto della sua realizzazione, perseguita spesso attraverso accordi stipulati a diversi livelli in assenza di formali contrattazioni.
Con la realizzazione della “Nuova Via della Seta”, l’aspirazione di Pechino sarebbe perciò quello di intrecciare, senza pretese egemoniche, i propri intenti con quelli di sviluppo degli altri Paesi coinvolti dall’iniziativa della “Belt & Road”; a tale iniziativa sarebbe anche associato anche un altro intento, segno distintivo della fase politica attuale della Cina, dominata dalla figura del Segretario Generale del Partito Comunista Cinese e Presidente della Repubblica Popolare Cinese XI Jinping: il perseguimento “della comunità di destino condivisa” con Taiwan. Considerato come uno degli obiettivi finali della “Belt and Road Iniziative”, il riferimento a Taiwan indica “la volontà della Cina di pervenire all’instaurazione di un nuovo ordine internazionale, politico ed economico, che segni un’evoluzione rispetto a quello modellato sull’egemonia occidentale e statunitense e che rompa definitivamente i ponti con la mentalità di guerra fredda”.
Si ratta, quindi, per Pechino, di insistere a livello diplomatico nel tentativo di convincere tutti i Paesi integrati nel mercato internazionale dei reciproci vantaggi che possono derivare dal coordinamento delle politiche nazionali riguardanti l’economia e la sicurezza, “senza mettere in discussione sovranità e indipendenza”. In altri termini, Pechino intende dimostrare che, “in un quadro geopolitico rinnovato e in mutamento” e in “un ambiente internazionale pacifico e collaborativo”. tutti i Paesi coinvolti dalla “Belt and Road Iniziative” possono ottimizzare il raggiungimento dei propri obiettivi, contemporaneamente alla realizzazione del “sogno cinese” di conquistare la leadership nella regolazione delle relazioni internazionali.
Questo intento è però associato alla realizzazione di un altro progetto, anch’esso definito strategico dal governo cinese nel 2015: trasformare in dieci anni la Cina “in una potenza manifatturiera mondiale ad alta tecnologia, anche in settori tradizionali della produzione”, consentendo al grande Paese asiatico, che già detiene il 25% del valore della produzione manifatturiera mondiale, di occupare una posizione dominante anche nelle catene di produzione mondiale extramanifatturiera. Ciò comporterà la fine definitiva di una Cina importatrice di tecnologia straniera, cui inevitabilmente si accompagnerà la preoccupazione, da parte delle principali economie occidentali (tradizionali detentrici dell’innovazione tecnologica), che le imprese cinesi, forti dell’appoggio statale, possano godere di vantaggi competitivi di difficile compensazione.
E’ in questo quadro che i progetti della realizzazione della “Belt and Road Iniziative” e della trasformazione della Cina, entro il 2025, in una potenza economica mondiale ad alta tecnologia giustificano la preoccupazione dei Paesi membri dell’Unione europea. In particolare, il timore dell’Unione è che la presenza della Cina nell’area europea si “trasformi in influenza politica”, per la soluzione nel suo esclusivo interesse di “alcuni dossier caldi”, quali sono, ad esempio, le sue rivendicazioni territoriali, spesso aggressive nei confronti degli altri Paesi asiatici, sul Mar Cinese Meridionale.
In relazione a questo pericolo vanno intese le dichiarazioni che il Presidente francese ha rilasciato in occasione di una sua visita in Cina nel 2018; Emmanuel Macron ha voluto sottolineare che i progetti cinesi non devono essere realizzati “a senso unico”, ma devono essere condivisi in tutti i lori percorsi, onde evitare il rischio del formarsi di “nuove egemonie” che varrebbero a trasformare gli altri Paesi, “toccati” dagli esiti dell’attivismo cinese, in “vassalli” di Pechino, oppure in “Stati tributari “ di un sistema di relazioni internazionali sinocentrico.
Con le stesse preoccupazioni della Francia è schierata la Germania, ferma su posizioni “di avanguardia nello spingere verso un più intenso coordinamento” dell’azione sulla scena internazionale da parte dei Paesi membri dell’Unione. Non casualmente, di recente, la Germania ha chiesto alla Cina di considerare l’Europa nella sua interezza, come un’unica entità, nello stesso modo col quale l’Europa riconosce l’aspirazione della Cina a perseguire una “comunità di destino” condivisa con Taiwan.
Nel contesto dell’Unione europea, particolare interesse rivestono le informazioni che riguardano il rapporto bilaterale commerciale Italia–Cina. Le informazioni disponibili indicano una continua crescita dell’interscambio; Pechino è oggi all’ottavo posto tra i mercati di destinazione dei prodotti italiani, tanto da aver rappresentato uno dei principali traini dell’export italiano negli anni difficili della Grande Recessione.
Tuttavia, l’Italia ha ancora margini di miglioramento del proprio export verso la Cina e, avvalendosi come punto di forza della propria posizione di seconda “potenza” manifatturiera europea, può sicuramente migliorare la propria posizione rispetto agli altri partner europei, quali ad esempio Francia, Gran Bretagna è Germania, che la precedono nella classifica dei più importanti esportatori comunitari verso la Cina. A tal fine, l’Italia potrebbe avvalersi anche del fatto che da tempo i cinesi stanno riservando una particolare attenzione su alcuni porti italiani, come Trieste e Genova
Ciò perché tali porti rappresentano gangli di collegamento con il Nord e l’Est dell’Europa, fortemente integrati nella fitta rete dei traffici atlantici. In questa prospettiva – afferma Bertozzi – l’Italia si è “dotata di una ‘Task Force’ dedicata alla Belt and Road, con il compito di predisporre una lista di Paesi Bri e di progetti previsti che possono interessare le imprese italiane, e di facilitare contatti diretti tra le maggiori aziende italiane e i colossi pubblici cinesi”, firmando con Pechino un memorandum d’intesa sulla “Nuova Via della Seta”.
Ad ogni buon conto, se l’Italia vorrà migliorare la propria posizione nell’interscambio commerciale con Pechino (rispetto agli altri principali partner europei) dovrà, non solo evitare con essi sterili contrapposizioni, ma soprattutto non rinunciare, sia pure nel rispetto degli obblighi derivanti dal suo collocamento nel sistema delle alleanze vigenti, a una propria autonoma proiezione internazionale. Ciò peraltro comporterà che l’Italia ponga rimedio ai principali deficit che hanno limitato sinora la sua azione sulla scena internazionale, quali sono una precisa definizione del proprio interesse nazionale e l’elaborazione di una precisa strategia per soddisfare al meglio il raggiungimento dei propri obiettivi, evitando così d’essere costretta, come spesso è avvenuto, ad operare ai margini della sfera d’influenza altrui.
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