Alla ricerca di un nuovo ordine mondiale
Angelo Panebianco e la ricostruzione dell’ordine internazionale per salvaguardare la “società aperta” dell’Occidente.
di Gianfranco Sabattini
Angelo Panebianco e Sergio Belardinelli, già docente di Scienze politiche, il primo, e docente di Sociologia dei processi culturali presso l’Università di Bologna, il secondo, hanno dato alle stampe il volume “All’alba di un nuovo mondo” dove, ognuno di essi ha scritto un saggio, secondo punti di vista diversi, per approfondire la seguente tesi: “solo un ordine liberale può diventare un ordine politico legittimo sostenuto dall’approvazione e dal consenso dei più”, col quale risolvere i problemi politici, sociali, economici e geopolitici che caratterizzano il mondo occidentale di oggi.
La prospettiva adottata dagli autori si rifà – avvertono essi nella Premessa – a un sano “realismo”, nella sua duplice valenza normativa/prescrittiva e descrittiva/interpretativa, precisando che sul piano normativo il realismo è assunto solo per anticipare che le loro analisi sono fondate sull’osservazione della realtà per come essa è; ciò, al fine di evitare di evidenziare la gravità dei problemi ed illudere che le loro “soluzioni siano tutte semplici e tutte a portata di mano”. Sul piano descrittivo/interpretativo, invece, il realismo delle riflessioni degli autori sta ad indicare che dei fatti esaminati essi intendono considerare tutti gli aspetti, anche quelli sgradevoli, in quanto tutti attengono al comportamento dell’uomo, nel senso che sono la conseguenza più della fisiologia che della patologia del “vivere sociale”. Pertanto, per descrivere nel modo più obiettivo possibile tutti i fatti attinenti il comportamento sociale dell’uomo e svolgere un’analisi “sulle loro cause, materiali e spirituali”, il compito principale cui deve attenersi l’analista è il realismo.
Se si considerano i fatti che allo stato attuale affliggono il mondo occidentale, tutto – affermano gli autori – sembra evidenziare che si è “all’alba di un mondo nuovo, del quale, ovviamente, nessuno può prevedere quali saranno i precisi contorni. Molto dipenderà dal realismo col quale la nostra e le generazioni che seguiranno sapranno affrontare le sfide che incombono”.
Le considerazioni che seguono fanno prevalente riferimento al saggio di Panebianco, ma le sue riflessioni sulla crisi di natura economica, politica e sociale dell’Occidente trova una giusta collocazione nel quadro della crisi spirituale illustrata dal saggio di Belardinelli.
Come sempre è accaduto nei periodi più bui – sostiene Panebianco – “da alcuni anni è tornata a circolare in Europa, ma anche negli Stati Uniti, la cupa profezia sull’incipiente tramonto dell’Occidente”. Nel mondo occidentale, e soprattutto in Europa, si è diffusa “una predisposizione d’animo dell’imminente fine di un’epoca, che lascia presagire l’alto rischio cui sarebbe esposta la “società aperta” occidentale con i suoi gioielli (la rule of law, il governo limitato, i diritti individuali di libertà, la democrazia, l’economia di mercato, la scienza) [...], onore e vanto dell’Occidente”. In particolare, la democrazia liberale sarebbe esposta al rischio d’essere sostituita da “regimi illiberali di varia natura”. La profezia del suo “tramonto”, secondo Panebianco, non deve meravigliare in quanto essa, trattandosi di un regime misto di governo della maggioranza e di diritti individuali di libertà, ha sempre rappresentato un campo di tensioni e di conflitti, fertile terreno per la proliferazione di ricorrenti idee catastrofiste.
Con la conclusione del secondo conflitto mondiale, era sembrato che la democrazia liberale si fosse definitivamente consolidata, dopo la fine dell’assedio dell’Occidente da parte del comunismo sovietico e della sua diffusione, oltre che nell’Europa ex comunista, anche in altre parti del mondo. Nei decenni successivi al crollo del Muro di Berlino, il “vento” a favore della democrazia liberale è cambiato, prefigurando, secondo molti analisti politici, il pericolo che essa sia ora “in procinto di lasciare il posto a democrazie illiberali”; è accaduto così che all’ottimismo liberaldemocratico, seguito alla fine della Guerra Fredda, si sia sostituito – afferma Panebianco – “il timore di un futuro cupo” per la democrazia liberale. Da dove nasce questo timore?
Secondo molti studiosi di scienze politiche, la cupa preveggenza deriva dalla improvvisa comparsa e diffusione in tutti i Paesi dell’Occidente ad economia avanzata di movimenti populisti, che hanno dato origine all’avvio di un processo di indebolimento dei tradizionali intermediari politici (i partiti), determinando il passaggio dalle vecchie “democrazie di partito” alle nuove “democrazie del pubblico”, fondate su rapporti diretti tra leader e popolo. Un processo, questo, che ha reso il funzionamento delle democrazie molto più instabile che nel passato, in quanto caratterizzato da un’alta “volatilità” dell’opinione pubblica e degli orientamenti elettorali, a causa del succedersi di crisi economiche, sociali e politiche delle società occidentali.
A parere di Panebianco, due scuole che si contendono la spiegazione dei cambiamenti che hanno messo in crisi le antiche democrazia liberaldemocratiche, consolidatesi dopo la scomparsa dei totalitarismi nel corso della seconda metà del secolo scorso: per la prima, i cambiamenti sono riconducili a situazioni contingenti e riassorbili in quanto provocati da eventi di natura congiunturale; per la seconda, invece, i cambiamenti sono la conseguenza del fatto che, nell’intero Occidente, sono iniziati processi di lungo periodo, che hanno determinato che tali mutamenti non siano facilmente “riassorbiti”
La prima scuola riconduce i mutamenti a tre cause principali: innanzitutto alla lunga crisi economica iniziata nel 2007-2008; in secondo luogo, ai flussi migratori, che hanno coinvolto gran parte dei Paesi dell’Occidente e che, combinando i loro effetti a quelli della Grande Recessione, hanno determinato la diffusione di reazioni xenofobe; in terzo luogo, all’aumento dello stato di insicurezza percepita da gran parte delle popolazioni dei Paesi in crisi. Secondo questa scuola di pensiero, l’Occidente può riassorbire in pochi anni gli effetti dei cambiamenti registrati, se le “democrazie liberali e, con esse, la società aperta occidentale, riprenderanno l’antica vitalità, quando e se quelle ragioni di crisi scompariranno o perderanno vigore”.
Assai diversa è la spiegazione fornita dalla seconda scuola, per i cui analisti i cambiamenti avvenuti nei Paesi occidentali avanzati sono l’esito di processi di lungo periodo, che possono essere di natura economica, oppure socio-culturali. Dal punto di vista economico, secondo questa suola, i cambiamenti deriverebbero dal fatto che sarebbe finita la fase di crescita e di sviluppo che ha caratterizzato l’intero Occidente per più di due secoli. La fine di questa fase avrebbe dato origine alla cosiddetta “grande divergenza”, che è valsa a separare i Paesi economicamente sviluppati dai Paesi arretrati. Però, la divergenza, causata dal processo di globalizzazione, che ha preso il via verso la fine del secolo scorso (con la rivoluzione tecnologica nei sistemi di trasporto e di comunicazione) è stata per buona parte corretta da una successiva “grande convergenza”; a seguito di questa, molti Paesi arretrati hanno potuto superare il loro ritardo sul piano economico, spesso a scapito di quelli di più antico sviluppo economico.
Anche dal punto di vista socio-culturale, i mutamenti sarebbero il risultato di processi di lungo periodo che, all’interno dei Paesi economicamente sviluppati dell’Occidente, avrebbero determinato, sostiene Panebianco, l’”indebolimento delle barriere che un tempo separavano i detentori dei ruoli di autorità (politici, economici, culturali) da tutti gli altri”; si trattava, infatti, di barriere che consentivano la formazione e l’esistenza di oligarchie, che la rivoluzione occorsa soprattutto nel campo delle tecnologie dell’informazione, hanno travolto, in quanto hanno reso contendibili molti status ruoli politici, economici e sociali (un tempo occupati da ristretti gruppi) da parte di una platea di soggetti molto più estesa di concorrenti.
Se le ragioni addotte dalla seconda scuola sono corrette – osserva Panebianco – “allora perde plausibilità l’argomento secondo cui basta la ripresa economica a riassorbire la sfida populista alle democrazie liberali”, nel senso che i cambiamenti (di natura strutturale e irreversibili) intervenuti nelle società moderne avrebbero “per l’Occidente riflessi potenti sul piano occupazionale”, con conseguenze negative sul ritmo della crescita economica e un crescente aumento delle disuguaglianza sul piano distributivo. In conseguenza di ciò, quale che sia la natura delle causa dei mutamenti intervenuti nelle società moderne economicamente avanzate (processi di lungo periodo di natura economica o di natura socio-culturale), l’instabilità crescente dell’economia e della democrazia espone le società aperte occidentali a rischi che “non sono facilmente riassorbibili. Sono invece il portato di irreversibili cambiamenti di lungo periodo”. Quali prospettive si offrono oggi alle società aperte occidentali perché possano sottrarsi al rischio che i loro “gioielli” (il governo limitato, i diritti individuali di libertà, la democrazia, il libero mercato) siano irrimediabilmente “svalutati”?
Panebianco nutre fiducia sulla capacità della società aperta occidentale di riuscire a “riguadagnare” alcune delle condizioni “che le hanno garantito un lunghissimo periodo di pace, di prosperità economica, stabilità politica”. Sono le condizioni che si sono create dopo la fine del secondo conflitto mondiale, allorché gli Stati Uniti hanno assunto la leadership di gran parte dei Paesi occidentali, con la costituzione di “una comunità pluralistica di sicurezza”, divenuta presidio e garanzia della società aperta dei Paesi che la costituivano. Nei decenni successivi, questa “comunità” è valsa ad infittire i legami politici, economici e culturali fra i diversi Paesi; tali fitti rapporti sono divenuti successivamente “il trampolino di lancio” di un più vasto processo che, in seguito, coinvolgendo tutti i Paesi della “comunità”, è stato definito globalizzazione. L’approfondimento di questa, però, ha determinato un ridimensionamento della posizione dominante degli Stati Uniti, per il venire meno del consenso di una parte dei Paesi che facevano parte dell’originaria “comunità pluralistica di sicurezza”. Inoltre, la posizione dominate degli USA è stata anche ridimensionata per l’emergenza di nuove potenze competitrici all’esterno della “comunità”.
La conseguenza del ridimensionamento delle posizione dominante degli USA, secondo Panebianco, ha provocato la loro crescente indisponibilità a continuare ad essere garanti delle società aperte dell’Occidente; nel medio-lungo termine, la diffusione dei movimenti populisti e la possibilità che si formino delle democrazie illiberali potrebbero perciò essere la conseguenza del loro disimpegno internazionale. Di fronte a questa eventualità, Panebianco ricorda che tra gli analisti delle relazioni internazionali esistono due interpretazioni: una prima, di natura determinista, sostiene che il “futuro è gia scritto”, nel senso che, come è accaduto tante altre volte nella storia, una potenza dominante che per lungo tempo ha assicurato ordine, sicurezza e prosperità ai suoi alleati, “entrata nella fase del declino” cessa di fornire loro “tutti i beni pubblici che ne avevano garantito in passato la fedeltà”; la seconda interpretazione, non determinista e condivisa da Panebianco, sostiene che “il futuro è aperto, non scritto in anticipo”, per cui gli Stati Uniti, pur ridimensionati sul piano internazionale, continuano a detenere, in generale, un vantaggio competitivo sulle potenze concorrenti esterne alla “comunità di sicurezza originaria”. Se si confrontano le due tesi appare chiaro, a parere di Panebianco, che la sorte della società aperta occidentale sarà molto diversa a seconda che prevalga “la tesi dell’inevitabile declino o quella opposta”.
La tesi di Panebianco è che se viene meno il primato occidentale, quale quello garantito dagli Stati Uniti tra la fine degli anni Quaranta e la fine degli anni Ottanta del secolo scorso, sarà inevitabile lo smarrimento dell’ordine internazionale vissuto dall’Occidente nel recente passato. Perché ciò sia evitato e sia ricostituito il perduto ordine liberale internazionale, occorre una ricostruzione dei “rapporti interatlantici” che si erano consolidati con la costituzione della “comunità pluralistica di sicurezza” già sperimentata (con un contributo di maggior peso, però, dei Paesi europei occidentali, se riuscissero a caratterizzare la loro unione in termini di una maggiore integrazione politica). Solo in questo modo, conclude Panebianco, l’Occidente potrebbe assolvere al “doppio, impegnativo compito di preservare, al proprio interno, la società aperta e di assicurare le condizioni per la ricostituzione di un ordine internazionale legittimo”.
Si può senz’altro condividere la preoccupazione nutrita da Panebianco per le sorti della società aperta, se dovesse permanere il caos che caratterizza attualmente le relazioni internazionali; la salvaguardia, però, non potrà essere assicurata con la pura e semplice ricostituzione delle condizioni che nel passato hanno reso la società aperta operante e garante di un generalizzato miglioramento delle condizioni di vita dei Paesi che hanno fruito delle opportunità da essa offerte. Una ricostituzione dell’ordine internazionale del passato deve anche partire dalla considerazione che i Paesi occidentali di oggi non potranno “godere”, sul piano economico, della spinta dinamica allora esistente, a causa, ad esempio, della minor crescita economica determinata dal progresso tecnico, del minor aumento della popolazione, della ridotta propensione all’indebitamento da parte delle imprese, e di altro ancora; ciò significa che, per il ricupero, nella sua pienezza, della società aperta dell’Occidente, occorrerà anche che i mutamenti che hanno concorso ad affievolirne gli effetti siano accompagnati da un riformismo delle regole che hanno sinora sotteso la distribuzione del prodotto sociale all’interno dei Paesi occidentali e dall’adeguamento delle politiche economiche alla necessità di stabilizzare il funzionamento dei sistemi produttivi nazionali integrati nell’economia globale; ciò, al fine di contrastare il fenomeno dei movimenti populisti e molti degli effetti che, sul piano socio-culturale, si sono affermati a causa dell’impatto dei mutamenti sul funzionamento delle democrazia; impatto che è valso a causare la crisi interna dei Paesi dell’Occidente ed il conseguente disordine delle relazioni internazionali, oggetto dell’analisi di Panebianco.
Lascia un Commento