NATIVI MULTICULTURALI: cosa nascerà da questa generazione globale?
di Fiorella Farinelli, su Rocca.
Teresa Lin, 24 anni, è una dei due consiglieri comunali di origine cinese della città di Prato. Racconta in un’intervista (1) di essere
nata a Firenze da genitori immigrati negli anni ’90, della cittadinanza italiana ottenuta dopo i 18 anni (rinunciando a quella cinese perché Pechino non prevede la doppia nazionalità), della sua duplice identità come di un «valore aggiunto» che l’ha spinta a laurearsi in Economia in un’università degli Stati Uniti.
Cina, Italia, Usa, dov’è la sua casa? «Il mio futuro ora lo vedo qui, in Italia». Quanti cambiamenti da quando, alle elementari, temeva di essere malvista perché «diversa». Ma le seconde generazioni hanno un’altra testa rispetto a quella dei genitori, e crescere insieme sui banchi di scuola sta cambiando anche i ragazzi italiani. [segue]
Nella città in cui Teresa vive e fa politica, nel 2018 i matrimoni misti sono stati più numerosi di quelli tra cinesi. «Noi giovani non abbiamo più paura di tradire la nostra cultura originaria. Non è che la dimentichiamo, ma le due culture impariamo a tenerle insieme».
A Prato la comunità cinese gioca un ruolo importante nel contesto produttivo, dà lavoro anche agli italiani, e questo probabilmente aiuta.
Bangla
Ma ci sono segni di trasformazioni culturali anche a Roma, dove l’inserimento sociale degli immigrati è spesso di tutt’altro tipo, con molti che combattono ancora per la sopravvivenza.
Phaim Bhuigam, un ragazzo musulmano che vive con i genitori bengalesi a Torpignattara, una delle periferie romane con più immigrati e percorsa come altre da tensioni interetniche, ha reagito con un sorprendente colpo d’ala. «Bangla», un film scritto, interpretato e diretto da lui, ha ottenuto premi e un grande successo di pubblico. In modo spigliato e autoironico, raccontando il quartiere, i tic e gli stereotipi degli uni e degli altri, le incomprensioni e le relazioni, fa rivivere la storia di un italiano di seconda generazione che, invece di schierarsi a favore di una cultura o di un’altra, riesce a prendere il buono di entrambe costruendo un percorso diverso. Il regista è un ragazzo come tanti, ha studiato nella nostra scuola, suona in un gruppo musicale, fa qualche soldo lavorando qua e là, a 17 anni apre un canale su youtube e fa esperienze di videomaking, ma sceglie prestissimo la sua strada formandosi professionalmente nell’Istituto Europeo del Design. A soli 22 anni è un talento affermato, discute le sue scelte artistiche in ottimo italiano intinto di romanesco con personaggi del calibro di Nanni Moretti. La vicenda raccontata – come si fa, quando ci si innamora di una ragazza italiana, a tenere insieme l’amore e il tabù musulmano del «niente sesso prima del matrimonio»? – demolisce in modo lieve ma mai superficiale i tanti pregiudizi che alimentano i peggiori fantasmi del nostro tempo, la paura dell’«altro», la pretesa rabbiosa di confini fisici e sociali insuperabili, la convinzione di alterità culturali irreducibili. Una storia di educazione sentimentale e, indirettamente, anche politica. Ma senza ingombri ideologici, con la sola forza di uno sguardo capace di intelligenza e di comportamenti che favoriscono l’incontro e il trasformarsi reciproco.
figure spiazzanti
Teresa e Phaim sono solo due dei tanti ragazzi di seconda generazione che stanno emergendo nei campi più disparati. Figure spiazzanti nell’immaginario truce e rancoroso di tanta parte dell’Italia di oggi, che una certa idea di integrazione ce l’ha, ma rifiuta che possano nascerne percorsi di successo. Ce ne sono sempre di più nelle università, dove gli studenti di provenienza straniera sono per lo più diplomati delle nostre scuole, nel mondo dello sport e nello spettacolo, nelle attività sociali e nel volontariato, nel servizio civile, nelle imprese di produzione e di servizi.
Ragazzi che vogliono farsi strada, che emergono e che emergeranno perché in molti casi credono più dei coetanei italiani nell’istruzione e nella formazione professionale come veicolo di mobilità sociale, hanno imparato dalle vicende migratorie proprie e delle famiglie a contare su se stessi per superare le difficoltà, non hanno paura di misurarsi prestissimo col lavoro, crescono rapidamente e sanno di dover essere determinati.
La loro caratteristica più promettente, sostiene il ricercatore Stefano Molina della Fondazione Agnelli (2), è di essere «nativi multiculturali», abituati cioè fin da piccoli a fare i conti con più culture, a trovare come farle convivere, a gettare ponti tra sponde diverse. Generazione «globale», dunque, il seme più importante per una società aperta. Fratelli dei tanti ragazzi italiani che vogliono studiare e lavorare all’estero, non solo perché in Italia è diventato più difficile trovare occupazioni gratificanti, ma anche per la voglia di mettersi alla prova in un mondo più ampio, dove si sia meno inchiodati alle origini, alle aspettative familiari, alle opportunità della porta accanto.
Con molte somiglianze con il popolo giovanissimo dei seguaci di Greta, anch’esso globale perché il pianeta è uno e la sua sopravvivenza è un’emergenza che non si può affrontare chiusi ognuno nei propri confini.
Cosa nascerà da questa generazione di «nativi multiculturali»? Basterà la loro esperienza a rendere convincente, quell’integrazione di cui molti, nonostante tutto, avvertono l’urgenza? Riusciranno, prima o poi, a spostare gli sguardi della politica dall’incubo dell’invasione al terreno più costruttivo dell’integrazione? Probabilmente no, e comunque non da soli, non senza una narrazione politica favorevole perché, come sostiene il sociologo tedesco Aladin El- Mafaalani (3), i conflitti che attraversano oggi i paesi europei a proposito dell’immigrazione, vengono alimentati proprio dall’estensione e dalla profondità delle trasformazioni che accompagnano i processi di integrazione. Trasformazioni rapide, che già ci sono. scuola: Grammatica dell’integrazione
C’è comunque molto da fare. Perfino la scuola, che pure è oggi il più potente fattore di integrazione, potrebbe fare di più e meglio, se solo le strategie di inclusione e di educazione all’intercultura, oltre che scritte in lettere d’oro nelle norme, fossero sempre e davvero praticate con politiche e competenze professionali adeguate ai bisogni formativi di tutti gli 850.000 studenti stranieri – oltre il 60 per cento nati in Italia – censiti dal Miur (che in verità sono almeno il doppio, secondo alcuni studi, se solo la statistica ministeriale non rilevasse esclusivamente gli studenti senza cittadinanza e calcolasse anche i tanti figli delle coppie miste o di genitori già naturalizzati).
Di ciò che in proposito si osserva nei quasi trent’anni di esperienze nella scuola, delle azioni che si conducono per sviluppare integrazione e intercultura, dei successi ottenuti e dei limiti riscontrati, racconta e discute con grande franchezza un bellissimo saggio uscito in questi giorni (4).
Intitolato significativamente Grammatica dell’integrazione, è stato scritto dal maestro Vinicio Ongini, uno dei più noti esperti di
integrazione, da anni impegnato con alterne fortune a convincere il Ministero dell’Istruzione dell’importanza del tema, e della necessità di operare di conseguenza.
Chissà se la «Grammatica» sarà letta anche da quei genitori che preferiscono per i propri figli le scuole private o di altri quartieri per sottrarli al «pericolo» di un apprendimento impoverito dai bisogni formativi di «troppi» ragazzi stranieri.
Eraldo Affinati, che ha recensito il volume per Repubblica (5), è certo che non accadrà, nel clima intossicato dell’Italia di oggi. Ma il maestro Ongini ci prova, riconoscendo che nella scuola – e non solo – sono stati fatti degli errori di sottovalutazione di comprensibili timori e preoccupazioni delle famiglie italiane di fronte alla profondità del fenomeno. Che ci sono stati eccessi di semplificazione, posizioni solo ideologiche, retoriche contrapposte, superficialità che non hanno saputo interagire con le perplessità, i dubbi, i timori dell’opinione pubblica e delle famiglie. E anche rischi di vanificazione del buono e dell’eccellente che pure è stato fatto e si
fa in moltissimi istituti scolastici per l’impossibilità, di cui la scuola non è responsabile, di «iscriverlo in un racconto nazionale dato dalla politica».
A giocare negativamente è stata anche la rappresentazione, magari a fin di bene, degli studenti stranieri come soggetti sempre e inevitabilmente fragili, bisognosi di cure didattiche speciali e di assistenza.
Non è così, argomenta il testo di Ongini. Perché se è vero che una piena padronanza della lingua italiana, soprattutto per i non nati in Italia e in particolare come «lingua per lo studio» resta un’impresa lunga e faticosa dove le scuole non sono messe in grado di attivare laboratori linguistici efficienti e dove gli insegnanti non hanno le giuste competenze professionali (ma qui è evidente che il deficit è sul versante di politiche scolastiche miopi e avare), è anche accertato che moltissimi ragazzi stranieri, proprio perché in casa si misurano con più lingue, hanno invece una naturale propensione ad essere poliglotti. Come dimostrano, fra l’altro, gli ultimi test Invalsi
a proposito dell’apprendimento dell’inglese, in cui i divari dagli studenti italiani non ci sono, e ci sono invece moltissimi casi di un apprendimento decisamente migliore.
Le lingue, dunque, sono una delle regole della «Grammatica», i corsi di arabo, cinese, romeno da aprire in scuole «internazionali», i diversi idiomi per avvicinarsi alle tante letterature a partire dalle favole. E poi i tanti linguaggi che favoriscono intercultura e integrazione, da quelli scientifici a quelli delle arti, della musica, dello sport. Un’educazione alla cittadinanza costruita, a partire dalle periferie più difficili, con le istituzioni e le associazioni del territorio. Il coinvolgimento diretto delle famiglie straniere, insieme a quelle italiane, nello sviluppo dell’offerta formativa e nella gestione delle scuole.
utopie concrete
C’è, nella «Grammatica», una rassegna completa di quello che si può fare fondata su quello che, purtroppo non in tutte le scuole, si sta già facendo. Con la dimostrazione che ciò che si realizza con fantasia e passione educativa per l’integrazione dei ragazzi stranieri altro non è che la ricetta di una scuola più vitale, più ricca di opportunità, e di una didattica straordinariamente migliore per tutti. Non è retorica, questa volta. Sono «utopie concrete».
Realizzabili e necessarie.
Fiorella Farinelli
Note
(1) www.NuoveRadici.World.it
(2) S. Molina, Le seconde generazioni non si sono rivelate una bomba a orologeria, in www.NuoveRadici.World.it
(3) A. El-Mafaalani, Il paradosso dell’integrazione. Perché la società aperta genera conflitti, 2019. Luiss University Press.
(4) V. Ongini, Grammatica dell’integrazione. Italiani e stranieri a scuola insieme, Laterza, 2019.
(5) E. Affinati, Lezioni di civiltà, Robinson-Repubblica, 31-8-2019.
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ROCCA 1 OTTOBRE 2019
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