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Elogio del dubbio

unknown2di Vito Mancuso, teologo.

LA SITUAZIONE DI PERPLESSITÀ DELL’UOMO DI OGGI
Nella sua lunga vita Norberto Bobbio si definì sempre lontano dalla fede, talora esplicitamente non-credente: «Io non sono un uomo di fede, sono un uomo di ragione e diffido di tutte le fedi [...]. Non sono un uomo di fede, avere la fede è qualcosa che appartiene a un mondo che non è il mio [...]. Io non credo». In un testo particolarmente delicato però, denominato “Ultime volontà” e pubblicato sulla «Stampa» il 10 gennaio 2004 all’indomani della morte, il grande filosofo torinese giunse a scrivere: «Non mi considero né ateo né agnostico. Come uomo di ragione non di fede, so di essere immerso nel mistero che la ragione non riesce a penetrare fino in fondo, e le varie religioni interpretano in vari modi». Penso sia inevitabile avvertire un senso di incertezza, se non di confusione: come definire un uomo che dice esplicitamente di non credere, ma che al contempo rifiuta di definirsi ateo o anche solo agnostico?
La condizione di uno dei più importanti pensatori del nostro tempo sul suo rapporto con il divino è sintomatica, direbbe un medico. E cioè il sintomo di qualcosa di inconsueto rispetto alla comune fisiologia della mente: non di un errore logico, non di un’imperfezione morale, ma certamente di un’anomalia. Segnala una condizione nella quale regna la perplessità. Così veniva già descritta dai celebri versi del Faust: «Chi può confessare: io credo in lui? Chi, se appena sente, può osar di dire: in lui non credo?». La differenza è che mentre Goethe ai suoi tempi costituiva un’eccezione, la situazione di Bobbio oggi rispecchia quella di molti. La gran parte degli uomini infatti sente di non poter più credere come le generazioni precedenti hanno fatto e come ancora oggi propongono le dottrine ufficiali delle religioni istituite, ma sente al contempo di non poter rinunciare allo slancio vitale e al gusto positivo del mondo che sottostà alla dimensione religiosa che da sempre accompagna il cammino dell’umanità. La dogmatica ecclesiastica non rappresenta più la tensione spirituale dell’anima contemporanea, ma non per questo tale anima intende perdere la fiducia complessiva nella vita che la fede in un Dio custodisce e incrementa. E quindi oggi ci si sente «laici», ma allo stesso tempo non ci si sente «né atei né agnostici», se essere tali significa spegnere il sentimento di vivere «immersi nel mistero».
Il risultato qual è? Quello di ritrovarsi in una sorta di terra di nessuno, nella scomoda condizione di essere «a Dio spiacenti ed a’ nemici sui» (Inferno 111,63), come disse di me un signore al termine di una conferenza, non ricordo se con tono elogiativo o denigratorio. Ma la situazione è questa, inutile girarci attorno, bisogna avere il coraggio di guardarla in faccia. «Perplessità» indicherebbe un ipotetico termometro della temperatura spirituale, paragonabile a quei fastidiosi 37 gradi che non sono ancora febbre ma nemmeno più salute. Una condizione, io penso, che non può essere vinta da nessuna predica o enciclica o grande evento mediatico, né da nessuna conferenza o esperimento o equazione; una condizione con cui imparare a convivere, da accettare quale «segno dei tempi» e da cui partire per trovare la strada giusta per procedere nella vita. Non è del resto la prima volta che l’umanità affronta una situazione del genere. (da Vito Mancuso, “Io e Dio”).

Non restiamo indifferenti. Riflessioni di Vito Mancuso

giglio1di Vito Mancuso
Due giorni fa in diverse città di Francia e d’Italia alcuni imam e semplici fedeli musulmani hanno partecipato alla messa cattolica, compiendo un gesto assolutamente inedito e direi persino inimmaginabile. L’hanno fatto per testimoniare pubblicamente due cose: la solidarietà ai cattolici per l’assassinio di padre Hamel e l’inequivocabile condanna del terrorismo che utilizza la religione. Ma al di là della contingenza immediata alla base di questa nobile iniziativa, occorre porsi una domanda: i cristiani e i musulmani possono davvero pregare insieme? Quello di domenica è un evento autenticamente religioso e come tale reiterabile anche in futuro, o è un evento sociopolitico compiuto in un contesto religioso? La mia tesi è che si tratta di un evento sociopolitico in un contesto religioso, e che come tale esso non può diventare un evento religioso ripetibile nel futuro, se non sempre in via del tutto eccezionale e con le medesime finalità socio-politiche …

Questo significa che musulmani e cristiani, o fedeli di altre religioni, non possono in alcun modo rivolgersi insieme all’unico Dio? La risposta dipende da cosa si intende per preghiera e da come si esercita il pregare. Se la preghiera è intesa come proclamazione della fede dottrinale è del tutto evidente l’impossibilità strutturale di condurla insieme: cosa hanno in comune i fedeli che iniziano a pregare dicendo “nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” e che così proclamano la loro fede in un Dio che è Trinità, con i fedeli che fanno del monoteismo assoluto l’essenza decisiva della fede?

Finché si rimane al livello delle religioni istituite non è possibile un’autentica preghiera comune. Fu questa la ragione che nel 1986 portò Joseph Ratzinger, allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, a non partecipare al meeting interreligioso voluto da Giovanni Paolo II ad Assisi. Non c’è infatti preghiera religiosamente connotata che non contenga sempre una particolare teologia. Quando il cristiano dice “Padre nostro” si rivolge a Dio credendolo realmente tale, ma questo è del tutto inaccettabile per un musulmano che tra i “99 bellissimi nomi di Allah” della sua tradizione non ritrova l’appellativo padre. E non lo ritrova perché per l’Islam Dio non genera alcun Figlio perché un rapporto di figliolanza minaccia l’assoluta alterità divina, così che i fedeli non possono essere detti figli di Dio.

Io penso però che il pregare insieme diventi possibile quando le religioni compiono un passo indietro (o in avanti?) mettendosi al servizio della pura e nuda umanità alle prese con la fatica di vivere. La vita è troppo grande per essere racchiusa da qualsivoglia religione, o da qualsivoglia filosofia o teoria scientifica. Percepire tale eccedenza della vita significa poter sperimentare la valenza antropologica della preghiera. Il verbo “pregare” viene dal verbo latino precor il cui infinito è precari, termine oggi molto diffuso per designare chi è instabile e insicuro. La preghiera è quindi strettamente collegata con la precarietà: si prega perché ci si sente precari, provvisori, non assicurati, in balìa di forza più grandi. È la situazione sperimentata dagli esseri umani fin dai primordi: per questo non c’è mai stata civiltà priva di riti e di liturgie. Vi sono persino religioni senza Dio, ma nessuna senza preghiera.

La sensazione di precarietà è tanto più intensa oggi in Occidente dove i punti fermi della convivenza sociale vacillano sempre più e non c’è istituzione politica, economica, culturale o religiosa che sia esente dalla contestazione, e dove l’esistenza dei singoli è esposta al gelo del nichilismo perché le argomentazioni tradizionali a sostegno del bene, della giustizia, del senso appaiono ormai prive di forza. Non per questo però in Occidente si prega di più, anzi aumenta la precarietà e diminuisce la preghiera. Ma la precarietà incapace di trasformarsi in preghiera (trovando le parole mediante cui farsi invocazione, devozione, aspirazione, esame di coscienza) genera ansia, vuoto interiore, assenza di significato. Ha scritto a questo riguardo Carl Gustav Jung: «La mancanza di significato impedisce la pienezza della vita ed è equivalente alla malattia». Ecco lo strisciante malessere del nostro tempo.

Dicendo “nostro tempo” intendo includere anche i musulmani che vivono in Occidente perché neppure essi possono essere esenti dallo spirito del tempo. La “morte di Dio” segnalata da Hegel (1802), Nietzsche (1882) e Heidegger (1940) non riguarda solo il Dio cristiano ma ogni istanza di trascendenza e con questo fenomeno anche l’Islam dovrà fare i conti; anzi, a mio avviso li sta già facendo, perché solo così si spiega la frattura al suo interno tra novatori e integralisti. Esattamente cento anni fa, per la precisione l’11 giugno 1916, mentre prestava servizio nell’esercito austriaco sul fronte orientale della Prima guerra mondiale, Ludwig Wittgenstein scriveva: «Pregare è pensare al senso della vita». Il pensare che qui è in gioco non è solo un’attività intellettuale ma qualcosa di integrale: è pensiero che diventa vita e vita che diventa pensiero, e si pratica anche con il corpo e il sentimento. Chi pensa così prega, e chi prega così pensa, ricercando un senso, una direzione, un orientamento, aspirando a uscire dal disorientamento del nulla per ottenere una via su cui camminare nella fatica dei giorni.

Oggi siamo al cospetto di un’epoca molto vitale per le religioni. Il mondo è diventato un laboratorio che chiama le singole religioni con i loro riti e le loro liturgie a mettersi al servizio di questa dimensione esistenziale della preghiera, assai più importante della preghiera come espressione della fede dottrinale. E in questa prospettiva, senza attendere un futuro atto terroristico ma semmai contribuendo a prevenirlo, sarebbe bellissimo che almeno una volta all’anno i fedeli delle diverse religioni si incontrassero davvero con finalità spirituale, meditando umilmente, nel più perfetto silenzio, di fronte all’immensità della vita e al suo mistero. Sperimenterebbero così l’inadeguatezza di tutte le loro dottrine e i loro precetti, e questa esperienza di vera trascendenza è la via privilegiata per la pace e il mite sorriso che dimora nel cuore di ogni autentica persona spirituale.

Vito Mancuso, Repubblica 2 agosto 2016