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Trump e Trattati commerciali internazionali. La Cina è vicina
La sedia
di Vanni Tola.
Trump e il protezionismo, la rivoluzione nei commerci internazionali?
Ora che Donald Trump è diventato il presidente degli Stati Uniti e fa i conti con un ampio movimento popolare che non intende riconoscerlo come tale, cresce l’attenzione sul suo programma di governo. O meglio ci si interroga su quale e quanta parte degli obiettivi, indicati in campagna elettorale vorrà, dovrà e potrà realizzare. Uno dei temi forti della campagna elettorale del Presidente è stato il protezionismo. Trump ha manifestato esplicitamente di essere contrario agli accordi commerciali vigenti con il Messico e il Canada (Nafta) e con l’Asia (Tpp) e potrebbe mettere la parola fine alle trattative per la riforma dei commerci con l’Europa, assestando un colpo mortale al trattato Ttip, peraltro già in crisi ancora prima delle elezioni americane. Si cambia rotta, dunque. L’obiettivo del Presidente sarà proteggere e sviluppare le attività produttive e il lavoro dell’America prima di ogni altra cosa, con interventi, modalità e procedure ancora da definire o che si vanno delineando. La globalizzazione e l’istituzione di vaste aree di libero scambio, quindi, non saranno più il riferimento principale per gli Stati Uniti. I trattati internazionali diventano per Trump i nemici da battere. Sarebbero loro, a suo parere, gli strumenti di distruzione dell’industria e del lavoro americano. Appare evidente che tali propositi, se realizzati, potrebbero sconvolgere radicalmente il commercio internazionale invertendo i programmi di riorganizzazione degli stessi che i grandi trattati internazionali andavano definendo e perfezionando. Vediamo di comprendere meglio ciò che accade. L’elezione di Trump alla presidenza Usa è letta da molti analisti come la naturale conseguenza del progetto di globalizzazione dell’economia mondiale in atto (guidato dagli Stati Uniti) che sarebbe in crisi già dal lontano 2008. I commerci internazionali, infatti, vivono da allora una fase di crisi costante. Hanno cioè smesso di svolgere quel ruolo di promozione dello sviluppo della crescita che veniva loro attribuito. Da qui era nata la necessità di riconfigurare gli scambi commerciali internazionali con nuovi trattati. Trattati che il “trumpismo” mette seriamente in discussione, con buona pace dell’uscente Presidente Obama che, quei trattati, sperava di concluderli prima della scadenza del proprio mandato. Ci si avvia dunque verso una riedizione del protezionismo come negli anni Trenta? Potrebbe darsi ma non è detto. Non tutto ciò che Trump ha promesso col programma elettorale, potrà tradursi automaticamente in azioni concrete e coerenti col programma presentato. Il neopresidente dovrà, infatti, tenere conto di tanti altri fattori che potrebbero modificare i suoi proponimenti. Uno fra tutti il fatto che le multinazionali americane, che sono state le maggiori beneficiarie della globalizzazione, potrebbero avere molto da perdere da pratiche protezionistiche. Per tale motivo sono già iniziate le grandi manovre delle multinazionali con l’obiettivo palese di indurre il Presidente a rivedere o a contenere certi suoi orientamenti anti globalizzazione. Attraverso il Wall Street Journal, importante quotidiano economico-finanziario, sono state prospettate all’opinione pubblica e allo staff presidenziale, proposte e suggerimenti per “mitigare” lo spirito protezionista del neoeletto. In alternativa allo scontro “totale” contro i paesi concorrenti a colpi di dazi e barriere doganali, autorevoli e accreditati suggeritori del Presidente consigliano di avviare soltanto alcuni interventi mirati a difendere gli interessi americani ma con effetti meno devastanti di un rigido protezionismo diffuso. Per esempio misure anti dumping (strategia con cui i prodotti di un Paese sono immessi in commercio in un altro Paese a un prezzo inferiore al valore normale del prodotto) contro la Cina. Interventi contro i Paesi che praticano concorrenza sleale, la riforma dell’accordo Nafta con Messico e Canada, il rafforzamento degli accordi bilaterali con alcuni paesi maggiormente vicini agli interessi Usa quali Giappone e Regno Unito e la tutela del ruolo che gli Stati Uniti svolgono, in qualità di capo fila della politica dei mercati aperti. Soprattutto si tenta di richiamare l’attenzione di Trump sul fatto che il Tpp (Trans-Pacific Pertnership), l’accordo commerciale tra gli Usa e undici Paesi dell’area dell’oceano Pacifico – che mira alla realizzazione della più estesa area di libero scambio del mondo – è nato con l’obiettivo strategico di arginare la crescente influenza della Cina nell’area Asia-Pacifico. Rinunciare al Tpp quindi potrebbe significare lasciare alla Cina campo libero per i trattati commerciali nell’area asiatica e del Pacifico. Un problema non di poco conto per il neopresidente, uno dei tanti problemi che assillano il nuovo inquilino della Casa Bianca.