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POLITICA e CULTURA

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In continuità con lo spazio/editoriale precedente proponiamo di soffermarci sul pensiero illuminante di Mario Tronti (nella foto), morto il 7 agosto u.s. all’età di 92 anni. Lo facciamo utilizzando i materiali degli ultimi numeri della rivista Rocca, a cui ci lega un rapporto di collaborazione, ringraziando il suo direttore, l’amico Mariano Borgognoni, per questa preziosa concessione (f.m.).
Tronti e la necessaria «autonomia del politico»
di Luigi Pandolfi su Rocca.
È stata una storia intellettuale e politica controversa, quella di Mario Tronti, scomparso a novantadue anni lo scorso 7 agosto. Teorico dell’operaismo italiano (nel 1966 esce Operai e capitale, per i tipi di Einaudi), poi dell’«autonomia del politico», la sua esperienza di dirigente politico e di uomo delle istituzioni è stato un conclamato caso di incoerenza tra pensiero e azione, almeno nell’ultima stagione del suo impegno in parlamento. È sufficiente ricordare, a tal proposito, il suo voto favorevole, da senatore del PD renziano, al Jobs Act, provvedimento che ha reso ancora più precario il lavoro nel nostro Paese, e all’abolizione dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori. Ma lui, fino alla fine, ha vissuto tutto questo con curioso spirito di separazione, come se quei voti, quella corresponsabilità in determinate scelte, fossero di un altro Mario Tronti. Solo qualche settimana prima della sua dipartita, in un’intervista a Marco Bevilacqua proprio su Rocca, diceva che «la sinistra esiste ancora formalmente, ma ormai si è scavato un solco fra questa esistenza formale e la vita sociale e politica», quasi ironizzando sulle suggestioni “americane” del Partito democratico. La conclusione era che «il potere vero è ormai nelle mani di chi lo produce e lo controlla, vale a dire dei grandi attori del sistema economico-finanziario, che possono agire indisturbati perché nessuno, tantomeno chi cavalca sentimenti demagogici, li mette in discussione. Il fatto è che bisognerebbe ri-politicizzare il popolo, e lo potrebbe fare solo una sinistra propriamente detta». Nessuna autocritica, ma l’analisi, presa a sé stante, era sensata. Economia e politica, conflitto e mediazione: il cuore della sua riflessione sulla politica moderna, entrata definitivamente e irrimediabilmente in crisi dopo il fallimento del socialismo reale in Urss e nei paesi dell’est, che ha tirato giù anche i benefici del compromesso keynesiano ad ovest. Vale la pena ritornarci su questo argomento. Ciò che, dal mio punto di vista, rimane di più vivo del lungo, e composito, comunque importantissimo, lavoro dell’intellettuale Mario Tronti.

La politica e il moderno
Il Novecento è stato il secolo della politica. La politica che contende il terreno all’economia, palmo a palmo, provando, e a volte riuscendovi, a cambiare il corso della storia. Rivoluzioni e riforme, lotte sociali e politicizzazione delle masse, partecipazione dei ceti popolari alla vita pubblica, l’irruzione nella società dei partiti di massa. Sono i tratti salienti della modernità, che per Tronti finisce per coincidere con la politica stessa. Ma il Novecento si è chiuso facendo fare all’Occidente un salto all’indietro. «Un ritorno di Ottocento ha sconfitto alla fine il nostro secolo», scrive Tronti in La politica al tramonto (Einaudi, 1998). È la fine dell’età della politica, «l’unica che poteva impensierire l’idea moderna di dominio fondata sull’economico». La crisi sarebbe iniziata all’inizio degli anni Settanta, col ’68 e le sue lotte a sugellarne l’epilogo. Da quel momento in poi, secondo Tronti, sarebbe iniziata la «storia minore del Novecento», nella quale, al conflitto, si sarebbe sostituito il basso compromesso, mentre al posto delle appartenenze si sarebbero imposte le cosiddette contaminazioni. Solo la rivoluzione femminile avrebbe «depositato pensiero» e fatto politica con la P maiuscola, cambiando con le lotte le leggi e, fin dove possibile, il senso comune. Lo stesso governo è diventato «amministrazione della casa», in assenza di conflitto tra visioni alternative del mondo e della società. C’entra molto, nella fine della politica, la caduta dell’idea di comunismo. Tronti non si è mai sottratto al confronto con la storia, grande e terribile, del tentativo di costruzione di una società alternativa a quella capitalistica. Ma, al contempo, ha sempre contrastato la vulgata secondo cui comunismo e fascismo/nazismo sarebbero stati due varianti di un medesimo fenomeno, quello del totalitarismo. Il nazismo, fino al parossismo, ha realizzato le sue idee, mentre il comunismo le ha tradite, è la sua condivisibile conclusione. Ancorché quello comunista non sia stato il governo politico della normalità, bensì dell’eccezionalità, a fronte della mancata rivoluzione in Occidente. Che fallisce nella sua impresa quando sposta sul terreno economico la competizione col mondo capitalistico. «Il socialismo, sottratto al conflitto politico e costretto alla competizione economica, lì ha perso», è la conclusione di Tronti. Non c’era partita. Un’inutile rincorsa. Ma ad ovest, lo spauracchio della dittatura del proletariato ha prodotto i suoi effetti. Si chiede Tronti, giustamente: «Ci sarebbe stato comunque il welfare state», senza lo spettro incombente di un diverso modello di società che aveva provato a farsi storia? E, infatti, proprio la fine del socialismo reale sciolse le briglie del neo-liberismo, fino a quel punto contenuto da una politica in grado di esercitare la propria autonomia, in un rapporto «agonico» con le forze dell’economia e della finanza.

Il Tronti attuale
Il nostro tempo è ancora più segnato dall’assenza di politica. La differenza tra gli schieramenti che si alternano alla guida dei governi è solo di superficie. Nessuno, da destra a sinistra, mette più in discussione le fondamenta di una società che produce «scarti», alienazione consumistica alimentata dal debito, nuove e più insidiose forme di sfruttamento del lavoro, distruzione dell’ambiente, precarietà lavorativa ed esistenziale, guerra. Quest’ultima è anche una delle leve che il capitalismo utilizza per far fronte alla propria tendenza al ristagno (molto attuale su questo la lezione dell’economista americano Paul Sweezy). Così si spiega l’esplosione delle spese militari (Nel 2022, la spesa militare mondiale ha raggiunto la cifra record di 2.240 miliardi di dollari, con gli Usa che ne rappresentano il 40%). Ma, a parte alcune minoranze, politiche ed intellettuali, o il Pontefice, chi si oppone seriamente a tutto questo? «Da quando, gli schieramenti non si distinguono più per il senso diverso che dànno alla politica?», si sarebbe chiesto il nostro. Eppure, senza politica il mondo non ha che la catastrofe dinanzi a sé. In essenza di una nuova soggettività capace di «deviare il corso del fiume», l’umanità è destinata a soccombere. È di nuovo tempo di grandi visioni, di progetti alternativi di società. Per la cui elaborazione servono soggetti collettivi portatori di «una ragione o di più ragioni» di contrasto allo stato di cose presente. Non è solo un problema Italiano, dove la spoliticizzazione della democrazia ha coinciso con la totale scomparsa delle forze politiche di riferimento del movimento operaio. È una questione globale. Tanto più che la partita principale, oggi, si gioca sul terreno geopolitico. Proprio Tronti, in una recente intervista rilasciata al quotidiano Il Riformista faceva notare che «la vecchia politica di potenza di paesi-nazione si muta in geopolitica, che vede protagonisti interessi di nazioni-continente», in un quadro, più generale, dove l’asse del mondo tende a spostarsi dall’Atlantico al Pacifico. Aspirazioni, legittime, di potenze emergenti che si scontrano con l’accanita resistenza di un impero decadente, quello a stelle e strisce. In mezzo, l’assenza dell’Europa, che è assenza di una politica europea. Una «unione economica con l’elmetto della Nato», che rischia la deindustrializzazione. La «grande politica» – usiamo ancora un’espressione di Mario Tronti – oggi sarebbe pertanto una politica di pace, contro l’economia di guerra, la corsa alle spese militari, per salvare il mondo dalla catastrofe atomica e indirizzare l’economia verso la produzione di «valori d’uso» sociali e ambientali. «Grande politica» contro la «piccola politica», che tende ad «annullare, comprimere, mascherare, i conflitti», ma giustifica la guerra in nome di sacri principi che non mancano mai alla bisogna. Come anche la guerra d’Ucraina sta dimostrando.
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La morte annunciata di una sinistra senza storia
di Marco Bevilacqua
8 Agosto 2023
Conversazione con Mario Tronti

Non solo in Italia, ma in generale nel mondo occidentale, oggi la sinistra sembra in crisi di identità, di rappresentanza, di credibilità. Ci si potrebbe chiedere: ha ancora senso una sinistra nel ventunesimo secolo? Ne parliamo con Mario Tronti, grande saggio del marxismo operaista, ex senatore della Repubblica e già parlamentare del Pd.

Professore, esiste ancora la sinistra?

La sua è una domanda difficile. La sinistra esiste ancora formalmente, ma ormai si è scavato un solco fra questa esistenza formale e la vita sociale e politica. Tale distanza può essere più o meno marcata a seconda del Paese. Negli Stati Uniti la sinistra, senza mai definirsi come tale, si è sempre identificata nel partito democratico, e comunque ha esercitato una certa forza attrattiva nei confronti della sinistra europea. In Europa, la socialdemocrazia tedesca possiede ancora sia la solidità organizzativa, sia la capacità di esercitare una presenza reale nel sistema politico. In Francia la sinistra si è ripresentata in forme nuove, in Spagna c’è un partito socialista al governo. Esiste pure un partito socialista europeo, che a me sembra un morto che cammina. In generale, è pur vero che il panorama è un po’ desolante, ma ci sono anche delle eccezioni in controtendenza, come il partito socialista portoghese, che sta portando qualche segnale di freschezza.

E in Italia che succede?

Succede che il Pd voleva somigliare ai democratici americani, e pur nella sua breve vita ha finito con il non riuscire più a rappresentare la sinistra italiana. Poi esiste una galassia di sinistre minoritarie che non riescono a incidere nella vita reale. Una situazione molto frastagliata, poco leggibile. Il problema è che bisognerebbe ridefinire ciò che si intende per sinistra.

Qual è l’aspetto dirimente per poter definire la sinistra?

Da vecchio militante del Pci, ho sempre creduto in un progetto chiaro, definito, organico. In un partito che non aveva bisogno di definirsi: il nome parlava chiaro, senza fraintendimenti circa la sua collocazione politica. La sua stessa evoluzione in Pds, poi Ds e infine Pd, non ha mai esercitato la forza attrattiva, vorrei quasi dire evocativa, che quel nome storico possedeva. Il cammino affrettato, e per certi aspetti raffazzonato, da Pci a Pd ha molto disorientato l’elettorato, che non ha più compreso di che si trattava. Perciò vengo alla sua domanda: la sinistra per me è qualcosa che deve avere un passato, un percorso storico, un radicamento sociale. Il movimento operaio non è più riproponibile, nelle forme storiche in cui si è manifestato, perché oggi l’industria tradizionale non è più centrale nel capitalismo. Però l’errore è stato pensare che la storia del movimento operaio si fosse conclusa con la disintegrazione, dopo settant’anni, del tentativo di costruzione del socialismo cosiddetto reale. Un esperimento fallito che però non portava alla fine della storia. Il movimento operaio ha una storia molto più lunga, nata a fine Settecento con la prima rivoluzione industriale e proseguita per i due secoli successivi attraverso tante esperienze di mutualismo, associazionismo e di lotta organizzata, e non doveva essere liquidato così grossolanamente. Tanto più che il movimento operaio si è espresso e sviluppato in profondità anche nel mondo cattolico. Ecco, se la sinistra, pur mutando le forme, non si porta dietro questa lunga storia, fatta di cura e assistenza quotidiana alle persone che lavorano, di lotta antagonista, di alternativa all’ordine costituito, allora non ha più senso definirla tale. E invece, dagli anni ‘80 in poi, sembra che l’unica preoccupazione dei vertici della sinistra sia stata quella di demonizzare il passato, di emanciparsene, di aprirsi al nuovo che avanza. Ma non si sono accorti che il nuovo che avanza è sempre lo stesso: la ragione capitalistica, che oggi si chiama neoliberismo.

Quindi, l’errore è stato buttare il bambino con l’acqua sporca…

(Ride). Sì, è andata proprio così. Si potrebbe anche dire che, nell’ansia di legittimarsi, hanno tagliato il ramo su cui erano seduti. Dimenticando per sempre la propria storia e il fatto che la grande rivoluzione del 1917 aveva ben altre premesse di quelle poi costruite dallo Stato sovietico, che le ha in buona parte deluse e contraddette. E hanno anche dimenticato che il conflitto, la critica allo stato delle cose, di cui oggi hanno paura, è sempre stato l’anima del movimento operaio.

Nell’Italia oggi governata dal centrodestra, quale realistico obiettivo possono porsi le forze di centrosinistra in campo, così diverse fra loro, per progettare un’alternativa credibile?

Porrei l’attenzione su un fatto: per la prima volta al governo dell’Italia non c’è il centrodestra, ma la destra tout court. Si è esaurito il ruolo di garanzia che ha avuto per decenni il centro, prima espresso dalla Dc e poi in parte dal berlusconismo. Di conseguenza, sarebbe logico aspettarsi che a contrapporsi a una vera destra ci sia una sinistra altrettanto vera. Non c’è più bisogno del centrosinistra. Ecco perché falliscono tutti i tentativi di coagulare un centro, il famoso “terzo polo”, che non ha più un senso politico. La situazione si è radicalizzata (guardiamo cosa sta succedendo negli Stati Uniti e nella stessa Francia) e richiede svolte radicali, non pateracchi e soluzioni nebulose. Se da sinistra non si coglie questo passaggio, non si può proporre un’alternativa strutturata e attendibile.

Si può dire che la sinistra ha rinunciato a portare avanti le sue istanze “tradizionali”, lasciando così campo libero al populismo emotivo della destra, che ha così tanta presa nelle grandi periferie?

Più che populismo, lo definirei sentimento antipolitico. È lo stesso che ha sciaguratamente cavalcato il movimento Cinque Stelle, che con il suo “uno vale uno” ha diffuso demagogia, approssimazione, incompetenza e superficialità. Tutte cose che non devono appartenere a una sinistra seria, che al contrario, per sua natura, dovrebbe perseguire una conflittualità sociale riconoscibile e affidarsi alla sua vocazione di responsabilità sociale e capacità di analisi. Non a caso Conte si guarda bene dal dichiararsi di sinistra e parla sempre d’altro, di un concetto generico di “popolo”. Il M5S si è sempre definito “né di destra né di sinistra”. Secondo me, chi si definisce così è sempre di destra… Mi ricorda tanto il Fronte dell’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini.

Ma il Pd è diventato veramente il partito delle Ztl?

Quando scrissi Il popolo perduto, uscito all’indomani del grande exploit elettorale del M5S nel 2018, sottolineai come il Pd avesse perso l’elettorato della sinistra, essendo un partito composto da persone mediamente benestanti, ma anche mediamente benpensanti, che ambiscono a una vita tranquilla e tutelata. Poco a che vedere con gli abitanti delle grandi periferie metropolitane, delle città medio-piccole e delle campagne, che infatti hanno cominciato a votare a destra. Il popolo del Pci, così come quello della Dc, era un popolo politico; con la disgregazione di questi due grandi partiti, anche il popolo si è disorientato. Dunque, non solo il Pd ha perso il suo popolo, ma il popolo stesso si è perduto: ora che è diventato “antipolitico”, è costituito da una moltitudine di individui dominati da umori e impressioni fugaci, poco interessati alla consapevolezza e all’approfondimento e caratterizzati da un’aperta ostilità verso il ceto politico, giudicato come depositario del potere. Ma in realtà il potere vero è nelle mani di chi lo produce e lo controlla, vale a dire dei grandi attori del sistema economico-finanziario, che possono agire indisturbati perché nessuno, tantomeno chi cavalca sentimenti demagogici, li mette in discussione. Il fatto è che bisognerebbe ri-politicizzare il popolo, e lo potrebbe fare solo una sinistra propriamente detta.

Sui social l’emotività ha soppiantato l’autorevolezza e la credibilità dei contenuti. I messaggi politici si riducono a dichiarazioni ad effetto, prive di sostanza eppure efficaci nel colpire il bersaglio. Il medium è il messaggio, diceva McLuhan. Perché la destra (un esempio per tutti: l’ex presidente Trump) sembra più a suo agio nel maneggiare i nuovi media?

È l’effetto della cosiddetta dittatura della comunicazione, in base alla quale non è tanto importante cosa comunico, ma come lo faccio. Il concetto di demagogia è profondamente di destra, per questo alla destra riesce molto bene produrre una grande mole di messaggi adatti ai social. Ma non è una novità, cambia solo lo scenario: anche negli anni Trenta la propaganda fascista e nazista si serviva massicciamente del medium più diffuso e innovativo dell’epoca, la radio. Un recente articolo del sociologo Giuseppe De Rita ragionava sul fatto che le persone siano sempre più orientate dall’opinione più che dalla coscienza o dal senso di appartenenza a un campo, a uno schieramento. Impera l’emotività, l’attrazione per la novità: in campo elettorale, è successo con Berlusconi, e poi con altre meteore del firmamento politico, come Grillo, Salvini, Renzi, gente che ha fatto dello spettacolo della novità la sua vera cifra politica. Gli elettori sono governati da innamoramenti sempre più fugaci, totalmente scissi dalla profondità e della credibilità del messaggio. Anche la Meloni sta godendo di questo stesso sentimento, fondato sull’equivoco del “nuovo”. E pure la Schlein, se ci pensiamo, è salita alla ribalta grazie alla fascinazione per il cambiamento. Diamole un po’ di tempo, prima di giudicarla. Sta di fatto che l’opinione pubblica oggi non è più orientata dai partiti, dalle ideologie, da sentimenti forti di analisi della realtà, ma vive di impressioni fugaci, di brevi suggestioni, di equivoci, di battibecchi sui talk show. [continua]