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Sussidiarietà e Beni comuni
IL PUNTO DI LABSUS
Come i cittadini potrebbero investire sull’amministrazione condivisa dei beni comuni
di Carlo Borzaga – 17 gennaio 2017 su Labsus.
Dalle esperienze di amministrazione condivisa e di gestione comunitaria di beni comuni o di interesse generale che si stanno moltiplicando anche in Italia, appare chiaro che la strategia che le sostiene rappresenta una delle poche vere innovazioni sociali di questi ultimi anni. Non solo e non tanto per quello che queste prime esperienze sono già state in grado di realizzare, ma per aver aperto nuove prospettive sia nel modo di concepire alcuni beni che nelle modalità di gestione.
Esse hanno infatti contribuito a superare la tradizionale classificazione dei beni basata sulle modalità di gestione secondo lo schema dicotomico pubblico-privato, a favore di una classificazione – quella di bene privato versus bene comune – che ne sottolinea piuttosto il ruolo nel consentire ad ogni cittadino il pieno godimento dei diritti fondamentali. Esse hanno così permesso di superare anche l’idea che solo la gestione pubblica è in grado di garantire l’accesso a beni fondamentali, a favore di forme di gestione condivisa e partecipata da parte dei cittadini. Mettendo di conseguenza in discussione l’approccio autoritativo tipico delle amministrazioni pubbliche e sostenendone invece uno di tipo inclusivo e cooperativo.
Un approccio orientato alla fruizione collettiva dei beni comuni
Fino ad ora tuttavia le iniziative di amministrazione condivisa hanno privilegiato interventi leggeri, basati soprattutto sulla messa a disposizione a titolo gratuito del tempo dei cittadini attivi e lasciando comunque la titolarità delle iniziative, e delle decisioni conseguenti, alle amministrazioni pubbliche. In queste fasi iniziali si è cioè cercato soprattutto di promuovere, a livello sia culturale che istituzionale, la collaborazione dei cittadini alla cura di determinati beni, senza proporre che essi ne assumano direttamente la gestione e tanto meno la proprietà, avendo come obiettivo quello di migliorare la fruizione dei beni stessi a la qualità della vita delle comunità di riferimento. Anche le ancora numericamente limitate esperienze a carattere più imprenditoriale – come le cooperative di comunità – hanno mantenuto dimensioni economiche contenute e tendono ad essere viste prevalentemente come utili solo per la conservazione o il rilancio di aree marginali.
Dalla collaborazione all’amministrazione condivisa
Nel corso di questi anni tuttavia – a seguito dell’intensificarsi della riflessione sul tema dei beni comuni, del consolidarsi di un numero crescente di iniziative dal basso e del dibattito intorno alla natura e della regolamentazione del Terzo Settore e dell’impresa sociale che ha accompagnato l’approvazione della legge n. 106 del 2016 – si è fatta strada la convinzione che sia possibile andare oltre quanto finora pensato e realizzato, passando alla gestione diretta da parte dei cittadini organizzati sia di servizi di interesse comune che di beni pubblici e privati non utilizzati o utilizzati in modo poco efficiente e, in alcuni casi, di beni e servizi attualmente a gestione pubblica ma che i Comuni o gli enti responsabili vorrebbero dare in gestione ad altri perché non in grado di fare su di essi gli interventi o gli investimenti necessari.
Definiti i beni comuni in questo modo il numero di quelli che potrebbero essere presi in gestione dai cittadini diventa quasi infinito: si va da servizi essenziali ma carenti, alla ristrutturazione, manutenzione e gestione a fini di interesse comunitario di decine di migliaia di immobili, alla gestione della fornitura di acqua fino alla produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili.
Le risorse dei cittadini
Questa evoluzione in senso più “macro” dell’idea di amministrazione condivisa richiede però un nuovo sforzo di innovazione,sia sul piano culturale che su quello organizzativo. Per concretizzarsi essa richiede infatti investimenti di risorse finanziarie che per la loro consistenza non possono essere realizzati né ricorrendo – soprattutto in questo momento – al sistema bancario, né con le classiche raccolte di fondi né con le risorse – importanti ma finite – delle fondazioni grantmaking. Risorse che potrebbero invece essere reperite, in modo coerente con la filosofia sottostante l’idea stessa dell’amministrazione condivisa, attraverso l’impiego diretto e senza intermediari dei risparmi dei cittadini.E solo successivamente ricorrendo a risorse pubbliche o a quelle messe a disposizione dalle istituzioni finanziarie tradizionali – che stanno già manifestando qualche interesse per queste opportunità nelle forme della “finanza di impatto”. Se questa operazione riuscisse, all’impatto sociale e sulla qualità della vita che fino ad ora ha rappresentato l’obiettivo principale delle iniziative di amministrazione condivisa, si aggiungerebbe un impatto ulteriore, tutt’altro che marginale, sulla crescita economica del paese.
La stagnazione degli investimenti
Anche se nelle analisi sulla mancata ripresa si insiste molto sul ristagno dei consumi, è evidente che anche il crollo prima e il basso livello poi degli investimenti hanno avuto e continuano ad avere un ruolo importante. Dal 2008 al 2015 essi hanno infatti registrato una caduta continua passando da 304 a 273 miliardi. Nel 2014 il loro livello era inferiore a quello del 1999: fatto 100 quest’ultimo il valore del 2104 si attestava a 93 contro 125 degli Stati Uniti e 111 della Germania. Il calo degli investimenti è stato maggiore di quello del Prodotto interno lordo così che la loro incidenza sullo stesso è passata dal 23% a poco più del 16%. A questa contrazione hanno contribuito anche gli investimenti pubblici che sono passati da un peso sul Pil già basso nel 2008 – e pari al 3.5 – a poco più del 2 nel 2014.
All’origine di questi andamenti ci sono sia le scarse opportunità di investimento in attività private che i limiti imposti alla spesa pubblica. Ne sono esempio gli investimenti nel settore idrico: nonostante vi sia un riconosciuto e urgente bisogno di qualche decina di miliardi di investimenti in questo settore essi, dopo avere raggiunto il massimo di 2 miliardi e 300 milioni di euro nel 1982, sono scesi a poco più di un miliardo negli anni recenti.
Questa stagnazione degli investimenti non dipende invece in nessun modo da carenze di liquidità: all’offerta garantita dalla politica monetaria espansiva si possono aggiungere i quattro trilioni di euro di ricchezza finanziaria (al netto del patrimonio immobiliare), ricchezza che è cresciuta anche nel corso della crisi, come dimostra l’aumento di 144 miliardi di risparmi a partire dal 2008, recentemente stimato dal Censis. Ricchezza e risparmi che faticano a trovare occasioni di impiego e, anche a seguito delle perdite causate dalle crisi di alcune importanti banche nazionali, vengono sempre più spesso parcheggiati su conti correnti praticamente infruttiferi.
I cittadini potrebbero investire sui beni comuni
Secondo le tradizionali politiche fiscali,in una situazione di recessione questo eccesso di risparmio dovrebbe venire intercettato e dirottato verso investimenti in infrastrutture attraverso l’emissione di titolo del debito pubblico.
Cosa che è oggi, al contempo auspicata da molti economisti ma impedita dalle regole europee. Regole che però non impediscono che siano direttamente i privati a fare gli investimenti in quella parte di infrastrutture che rientrano nelle definizione di beni comuni o che possono essere “trasformate” in beni comuni se le amministrazioni pubbliche che ne sono proprietarie li cedono in gestione a imprese direttamente gestite dai cittadini.
Impegnandosi solo a riconoscere un contributo annuale ex post che, unitamente ad altre eventuali entrate, garantisca il recupero della spesa sostenuta in un determinato numero di anni.
Si tratta in altri termini di offrire ai cittadini una modalità alternativa di utilizzo dei propri risparmi che consiste nel metterli direttamente a disposizione di iniziative di interesse delle proprie comunità, non sotto forma di donazioni ma di veri e propri investimenti remunerati in modo adeguato, anche se comunque inferiore a quello che richiederebbe qualsiasi intermediario finanziario. Non è insensato ritenere che se la diffusione di iniziative di questo tipo avvenisse con la stessa velocità con cui si stanno diffondendo le pratiche di amministrazione condivisa ne risentirebbero positivamente e in tempi brevi non solo le comunità e i cittadini interessati, ma anche gli investimenti a livello macroeconomico e quindi il tasso di crescita.
Imprese per l’amministrazione condivisa
Ovviamente tutto questo può avvenire solo in presenza di determinate condizioni, sia culturali che istituzionali. Innanzitutto è necessario che le istituzioni pubbliche – dai partiti, agli amministratori, ai funzionari –ripongano maggiore fiducia nelle potenzialità insite nelle forme di autogestione da parte dei cittadini, oggi viste ancora troppo spesso come interessanti, utili ma sostanzialmente amatoriali. Con poco rispetto per l’articolo 43 della nostra Costituzione. Ma è necessario che anche i promotori delle forme di amministrazione condivisa e di produzione associata di beni comuni abbiano maggior fiducia in sé stessi e affianchino alla logica del “piccolo – e locale -è bello” la capacità – oggi assente – di gestire anche il “grande”, superando il timore di andare oltre il volontariato di testimonianza per diventare vere e proprie imprese. Pronti quindi a utilizzare tutti gli strumenti tipici dell’impresa, inclusi quelli destinati a raccogliere il capitale necessario a realizzare il proprio obiettivo. Nella convinzione che,se si vuole uscire da una crisi che ha sempre più una connotazione strutturale, l’impresa va considerata e gestita come un meccanismo di coordinamento di una pluralità di risorse per raggiungere qualsiasi obiettivo e non necessariamente solo o soprattutto quello del profitto.
Sul piano più tecnico occorre sia consentire alle iniziative imprenditoriali volte alla gestione di beni comuni di utilizzare tutti gli strumenti a disposizione delle imprese tradizionali – come “minibond comunitari”, “azioni solidali” o istituti come quello del socio finanziatore già previsto per la cooperative – sia prevedere o rafforzare strumenti e sostegni quali appositi fondi di garanzia a copertura dei rischi che questi investimenti comportano.
Nuovi strumenti per le imprese sociali
Qualche iniziativa in questo senso è prevista dalla legge di riforma del Terzo Settore ed è in corso di implementazione. Di particolare interesse sono: la previsione di permettere anche alle imprese sociali di accedere a forme di raccolta di capitale di rischio tramite portali telematici; agevolazioni fiscali volte a favorire gli investimenti di capitale in imprese sociali; meccanismi destinati a favorire la diffusione dei titoli di solidarietà e di altre forme di finanza sociale.Tutte iniziative e interventi che potrebbero essere coordinati, moltiplicati e favoriti dalla costituenda Fondazione Italia Sociale.
Per quanto riguarda invece l’istituzione di fondi di garanzia sarebbe utile che quelli che, secondo quanto già deliberato dal Cipe, dovrebbero coprire gli investimenti fatti dalle imprese sociali utilizzando crediti concessi dalle banche potessero garantire anche quelli finanziati direttamente dai cittadini. Siamo solo all’inizio di un percorso nuovo e per questo, nell’attesa che questi interventi di sostegno vengano meglio precisati e definiti, è importante che la riflessione sulle potenzialità dell’amministrazione condivisa dei beni comuni si intensifichi e si faccia più coraggiosa.
Carlo Borzaga è Presidente di Euricse
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La cooperazione di comunità. Azioni e politiche per consolidare le pratiche e sbloccare il potenziale di imprenditoria comunitaria
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