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L’Europa non attende…
di Pietro Tandeddu, da Sardegnademocratica
Vale la pena tornare su un argomento trattato recentemente su questo sito da Franco Meloni; mi riferisco alle nuove politiche comunitarie per il periodo 2014-2020. Voglio in primo luogo rilevare che, a mio giudizio, manca, o è per lo meno carente, la consapevolezza dell’importanza che questi fondi hanno, e sempre più avranno, per lo sviluppo economico e sociale della Sardegna a fronte della carenza di risorse nazionali conseguente alla crisi economica e finanziaria che investe, sia pure in termini diversi, gli Stati europei e, in modo pungente l’Italia, nonchè davanti ad un bilancio regionale che si caratterizza ormai come mero bilancio di spesa corrente. Dal bilancio 2013, non ancora presentato, purtroppo, vi è solo da aspettarsi un’ulteriore contrazione delle risorse rivolte alle imprese e alla crescita in generale.
Da tempo la Commissione Europea ha presentato agli altri organi dell’Unione ( Parlamento e Consiglio) le nuove proposte legislative recanti disposizione concernenti il Fondo Europeo di Sviluppo Regionale ( FERS) , il Fondo Sociale Europeo ( FSE), il regime dei pagamenti diretti in agricoltura, l’OCM unica e lo sviluppo rurale , da finanziarsi attraverso il Fondo Europeo Agricolo per lo Sviluppo Rurale ( FEARS), ed infine il Fondo Europeo per gli Affari Marittimi e la Pesca ( FEAMP ).
Presso gli organi comunitari e negli Stati membri il dibattito ed il confronto sono aperti da mesi; in Sardegna languono. I due assessori, responsabili del FERS e del FSE si sono auto sospesi dalle loro funzioni perché candidati al Parlamento nazionale. Riguardo agli atti sinora prodotti dalla Giunta, si conoscono due deliberazioni; l’una che istituisce una cabina di regia tecnica interna all’amministrazione e l’altra che da mandato al Centro Regionale di Programmazione di avviare il confronto con il partenariato economico e sociale per la predisposizione del Programma Operativo. Il tutto senza l’approvazione di un atto di indirizzo che indichi, nell’ambito dei vincoli posti dalle proposte comunitarie, le scelte strategiche e le priorità, come frutto di una revisione dei documenti programmatici regionali a suo tempo predisposti, che si rende necessaria a seguito delle profonde criticità insorte nel panorama economico isolano come il crollo dell’industria dimostra o come testimoniano le difficoltà che attraversano tutti gli altri comparti produttivi, dall’agricoltura all’edilizia, dall’artigianato al commercio .
Senza nulla togliere al Centro di Programmazione e ai dirigenti delle varie branche dell’Amministrazione impegnati con diligenza e responsabilità, va comunque rimarcato che non è giustificabile l’assenza del decisore politico nella costruzione degli atti di programmazione.
Vi è da capire, per esempio, quali sono le motivazioni che sono alla base della decisione, sembrerebbe, di predisporre, come nella precedente fase di programmazione, due Programmi distinti e non un Programma unico plurifondo come parrebbe indicare sia il Consiglio Europeo che, nel documento approvato a conclusione dell’incontro del 7 e 8 febbraio sul quadro finanziario, scrive: “I fondi strutturali e il Fondo di coesione saranno riuniti, insieme al Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale (FEASR) e al Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca (FEAMP), in un quadro strategico comune (QSC), al fine di massimizzarne l’efficacia e ottimizzarne le sinergie” , sia il documento del ministro Barca del 27 dicembre dello scorso anno che apre il confronto pubblico sui metodi e obiettivi per un uso efficace dei fondi comunitari 2014-2020 dove si legge:” i programmi operativi dovranno essere di norma plurifondo (nel caso praticabile per il 2014- 2020: FESR e FSE).” Lo stesso Barca evidenzia l’opportunità poi che i fondi comunitari debbano trovare uno stretto coordinamento con il Fondo di coesione nazionale nel rispetto di quella più che condivisibile logica che in Sardegna è stata battezzata “ciclo unico di programmazione”.
Con riguardo al tema dell’insularità che tutti convengono debba trovare un riconoscimento concreto da parte dell’Unione, ai fini del superamento delle diseconomie che essa crea, non trova il giusto rilievo nelle recenti decisioni comunitarie. Il presidente Cappellacci ha recentemente comunicato che il Consiglio europeo ha stabilito un aiuto specifico per le isole. Ci chiarisca però perché nel già citato documento del Consiglio del 7 e 8 febbraio , mentre è chiaramente stabilito che:” le regioni ultraperiferiche e le regioni settentrionali a bassa densità di popolazione di livello NUTS 2 beneficeranno di una dotazione supplementare speciale con un’intensità dell’aiuto di 30 EUR per abitante e per anno…” poco più avanti, relativamente alle isole, è genericamente detto che:” occorre tenere conto anche della situazione particolare delle regioni insulari “. Non si specifica di quali isole si tratta, qual’è la riserva finanziaria destinata e le modalità di intervento.
Se, come temo, l’Europa non interverrà in tale direzione, va da se che del problema deve farsi carico il governo nazionale, opportunamente e tempestivamente investito del problema , mediante un più alto tasso di cofinanziamento dei fondi. E’ bene ricordare che in questo modo, nella passata legislatura regionale fu possibile ottenere per il Programma di Sviluppo Rurale 2007-2013 più risorse della precedente fase di programmazione nonostante l’uscita della Sardegna dall’ Obiettivo 1.
Tornando al documento Barca, che , per quanto mi riguarda, è largamente condivisibile, si evidenziano tre opzioni strategiche: Mezzogiorno, Città e Aree interne. Nella bozza di programma predisposto dal Centro di Programmazione, che viene comunque presentato come documento aperto, si nota uno squilibrio tra l’attenzione riservata alle città e quella riservata alle aree interne, le cui problematiche sono facce della stessa medaglia.
Si corre il rischio, non assegnando ad entrambe, diciamo, pari dignità, di intervenire sugli effetti negativi generati da una costante crescita demografica delle aree costiere ove aumenta paurosamente il fabbisogno di servizi di mobilità, abitativi, socio assistenziali e sanitari, ecc. e di non affrontare la causa reale del fenomeno dovuta ad un costante spopolamento delle campagne e delle zone interne.
L’azione di riequilibrio non può essere affidata esclusivamente al fondo agricolo per lo sviluppo rurale ( FEARS ); il FERS e FSE, così come le risorse statali, devono concorrere in modo significativo a contrastare l’abbandono con il ripristino di una buona qualità della vita nelle aree interne che si esprime con un’adeguata rete infrastrutturale ( ove sono comprese anche le strade rurali e una giusta dotazione di energia) , ma anche la permanenza dei servizi postali, di quelli bancari, la sicurezza per i cittadini, la valorizzazione di tutte le risorse locali unita alla tutela del paesaggio, la banda larga, la difesa dei servizi sanitari e lo sviluppo di quelli assistenziali. Si pensi al concorso che potrebbero dare i produttori agricoli nella realizzazione di un piano straordinario di manutenzione e di riassetto idrogeologico del territorio, o nella creazione di servizi sociali come gli agri-asili o quelli rivolti al reinserimento lavorativo di soggetti svantaggiati. Verrebbe ad espandersi o concretizzarsi quella multifunzionalità dell’azienda agricola ,da molti auspicata, che può determinare la convenienza, anche per i giovani, a permanere in quei territori.
Il documento regionale accenna al tema degli strumenti di sviluppo locale o integrato, ma il riferimento è ai Progetti di Filiera e Sviluppo Locale ( PFSL) nelle aree di crisi o all’esperienza Leader. Sui primi la gestione è stata fortemente centralistica e poco partecipata e anche poco integrata.
Val la pena, facendo tesoro delle esperienze passate, cioè senza buttare l’acqua sporca con il bambino, di abbandonare i diversi strumenti di programmazione negoziata, territoriale e integrata di livello nazionale o regionale sperimentati in questi ultimi anni e di individuare , in primo luogo , una modalità di intervento territoriale che garantisca una reale integrazione tra risorse, soggetti istituzionali, imprese e non esprima invece una sommatoria di progetti non legati tra loro,che consenta la partecipazione effettiva delle istituzioni locali e del mondo dell’economia, che individui un chiaro soggetto coordinatore cui destinare, a seguito dell’ approvazione di un accordo di programma o protocollo d’intesa, risorse certe, preventivamente riservate e provenienti dalle diverse fonti finanziarie.
In secondo luogo, secondo modalità simili, va ripresa con maggiore convinzione rispetto al passato la logica dei Progetti Integrati di Filiera per i diversi settori produttivi. Per il settore agricolo vale la previsione dei PIF all’interno del PSR, colpevolmente boicottati ,che hanno invece trovato piena e convinta attuazione in molte altre regioni italiane.
Soffermandoci ora più specificatamente sulla nuova politica agricola comunitaria (PAC), l’assessore Cherchi non si è auto sospeso, come gli altri due colleghi, dalle sue prerogative, ma è come se lo abbia fatto. Le proposte legislative della Commissione Europea sulla nuova PAC sono dell’ottobre 2011, molte Regioni si sono attivate verso la difesa dei propri interessi, il Parlamento europeo ha esaminato migliaia di emendamenti ( 7-8 mila ). Dove e in che modo la nostra Regione abbia manifestato i suoi orientamenti, ricercato le alleanze necessarie per far valere le proprie ragioni, non è dato sapere. Nessun confronto è stato attivato con le forze agricole, nessun tavolo tecnico istituito, per quanto è a mia conoscenza.
Mi domando, e questo non vale solo per il settore agricolo, che fine ha fatto la legge regionale n. 13 del 2010 che si propone, tra l’altro, la partecipazione della Regione alla formazione degli atti dell’Unione Europea, di rafforzare il sistema delle relazioni tra le due istituzioni e che prevede che il Consiglio Regionale si riunisca ogni anno in sessione europea. Forse anche questa legge va indicata alla commissione di indagine istituita dal Consiglio per una verifica puntuale dell’attuazione delle leggi regionali.
E’ risaputo che in agricoltura vi sono in ballo interessi contrastanti tra le Regioni. Sui pagamenti diretti, come le organizzazioni agricole regionali vanno da tempo ripetendo, non è indifferente se la distribuzione dei titoli avverrà su scala nazionale o regionale: nel primo caso la Sardegna avrebbe solo vantaggi, nel secondo rimarrebbe penalizzata, probabilmente ferma ai 143,9 €/ ha di oggi. Qui la nostra isola si trova come vaso di coccio a contrastare vasi di ferro ( Lombardia, Veneto, Puglia per citarne alcune, dove il premio medio per ettaro è superiore ai 500 euro ).
Non posso soffermarmi su ogni aspetto di una materia complessa, ma, ai tavoli che contano,vogliamo dire la nostra in merito a cosa si debba intendere per agricoltore attivo che è il soggetto cui destinare il sostegno europeo ? E ancora, quali strategie si vogliono definire in relazione all’aggregazione dell’offerta, alle organizzazioni dei produttori, ai rapporti interni alle filiere ? Come si intende favorire lo sviluppo della filiera corta ?
Forse l’assessore conta su uno slittamento delle decisioni comunitarie , ma questo, secondo alcune fonti informative, potrebbe essere possibile per i pagamenti diretti, che, si dice , potrebbero vedere l’approvazione di un regolamento di transizione , ma non per lo sviluppo rurale. A breve il Parlamento Europeo discuterà il quadro finanziario delle nuove politiche 2014-2020 proposto dal Consiglio, dopo di che, chiusa la successiva fase di negoziazione tra i diversi organi comunitari, saranno emanati i regolamenti definitivi per il FEARS, per il FERS e per il FSE.
L’Europa non aspetta e noi cosa facciamo ? Aspettiamo a protestare a “ babbu mortu “ quando i buoi sono scappati dalla stalla ?
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Viviamo tempi apocalittici
di Nicolò Migheli, da Sardegnademocratica
“Ci fu un grande terremoto, di cui non si era mai visto l’uguale da quando gli uomini vivono sopra la terra. La grande città si squarciò in tre parti e crollarono le città e le nazioni: Dio si ricordò di Babilonia la grande, per darle da bere la coppa del vino del furore della sua ira. E tutte le isole fuggirono, e i monti non si trovarono più.” (Ap. 14, 8-10) Il passo dell’Apocalisse di Giovanni è citato in Mysterium iniquitatis, un testo di raro pessimismo sulle sorti del cristianesimo, scritto da Sergio Quinzio, pensatore dimenticato in questi anni confusi.
Versetti che debbono essere tornati alla mente di personaggi conservatori della Curia romana. L’abdicazione di Benedetto XVI è una apocalisse, una rivelazione-constatazione del degrado del governo della Chiesa e, nello stesso tempo, del limite. Il discorso pronunciato dal Papa il Mercoledì delle Ceneri esprime in altre parole lo stesso concetto. Tanto che alcuni hanno reagito con: “ Non si scende dalla croce,” “Un padre non si dimette se i figli non ubbidiscono.” La rivolta di un uomo mite, hanno scritto in molti, dando ragione a Papa Ratzinger.
Carlo Maria Martini, in una sua ultima intervista ebbe a dire che la Chiesa Cattolica era in ritardo di duecento anni. Il percorso di due secoli di modernità non compreso e rifiutato. Un essere contro il mondo visto solo come degrado. Una non accettazione di un ruolo che la storia e il pensiero laico ponevano tra gli interlocutori e non più come unico punto di riferimento. La reazione identitaria alla modernità trasformata nel dogma della infallibilità papale da Pio IX nel Concilio Vaticano I del 1870, confermata nell’enciclica “Pascendi dominis gregis” dove il modernismo viene descritto come “sintesi di tutte le eresie” da Pio X nel 1907. Corrente di pensiero che ha rifiutato il Concilio Vaticano II sia prima di essere indetto che dopo nella sua attuazione. L’ha fatto cancellando la Teologia della Liberazione, la Chiesa di Base, marginalizzando tutti quei “cattolici maturi” come ebbe a dire Romano Prodi, dando invece lustro e potere a confraternite come l’Opus Dei, Comunione e Liberazione e ai torbidi Legionari di Cristo. Un costante innamoramento dei poteri più reazionari da Francisco Franco a Pinochet, da Videla a Berlusconi. Prima con la giustificazione della lotta al comunismo e poi con la difesa dei “valori non negoziabili.”
Una Chiesa che aldilà delle magnificenze trionfalistiche si ritrova con le chiese vuote. Sempre più incapace di parlare all’anima dei contemporanei. Per fortuna restano tanti vescovi e sacerdoti che vanno oltre, che in silenzio riescono a venire incontro alla fatica di vivere dei contemporanei. Per trent’anni Ratzinger è stato il custode dell’ortodossia conservatrice, l’acerrimo avversario di cardinali come Martini, il pilota insieme a Ruini, delle vicende politiche italiane, sponsorizzando qualsiasi governo che fosse ligio all’agenda vaticana. In tarda età osa l’inosabile. Il gran rifiuto.
Impressiona il gesto, molto di più la data dell’annuncio: l’11 febbraio 2013, ottantaquattro anni da quel 1929 dei Patti Lateranensi che ristabilì il potere temporale del papato. Per un potere bimillenario attento ai simboli e alle date non è stato certo un caso. La scelta di quel giorno è forse l’atto di accusa più pesante per la Curia Romana. Rivelando una impossibilità di governo di una realtà conflittuale ed oscura che ha la sua giustificazione nell’essere Stato e quindi come ogni stato, può toccare con mano il lato inumano del governo del mondo. “Non sei né freddo né caldo! Ma siccome sei tiepido, né caldo né freddo, sto per vomitarti dalla bocca” (Ap. 3, 15-16).
E’ ancora il Libro che ci soccorre e ci fa capire. Resta la domanda, l’uomo occidentale sempre più sommerso da più offerte spirituali in concorrenza tra loro, è ancora attratto da una forma religiosa dove il contatto con il dio è mediato? Dove al fedele è negata ogni possibilità di coscienza personale, ma solamente l’attuazione pratica di quanto deciso dalle gerarchie? L’abdicazione di Benedetto XVI è di sicuro un atto che influirà molto su come i cattolici penseranno al proprio futuro e ruolo nel mondo. Forse non subito. Il prossimo conclave, vista la composizione del concistoro, è probabile che esprima un altro papa conservatore. La storia della Chiesa Cattolica ci ha abituati, però, che nei momenti più critici può esprimere il rinnovatore. Lo Spirito soffia dove vuole. Così si dice nelle Scritture.
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Nicolò Migheli, da Sardegnademocratica
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Sul medesimo argomento: F.Meloni, La scelta rivoluzionario del papa conservatore
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Nelll’illustrazione Papa Celestino V
Nelle lamentazioni siamo imbattibili
di Nicolò Migheli*
I Sardi della lamentazione ne hanno fatto un genere di costume. In essa trovano conferma. Per certi versi identità. Si vivono –ci viviamo- come vittime del mondo, dei colonialismi, degli eventi storici che ci penalizzano. La lamentazione come appartenenza e collante, come blocco all’azione soggettiva. La composizione delle liste del PD per le prossime elezioni parlamentari sono l’ultimo esempio della capacità di farsi male da soli.
Da circa vent’anni o forse più, una minoranza si batte perché venga realizzato il partito della sinistra della Sardegna. Una formazione politica che dovrebbe essere, prima di tutto, riconosciuta dal PSE per poi andare ad un rapporto di tipo federativo con quello che oggi è il PD. La proposta è ritornata lo scorso anno, e si pensava che il passo stesse per essere compiuto. Invece no. Più che blocchi centrali, l’atteggiamento di molti politici sardi contrari a soluzioni di questo tipo, ha fatto in modo che non si realizzasse. In incontri del PD, suoi esponenti prestigiosi sono arrivati a negare la specialità della Sardegna, ricordando che la stessa Autonomia fu il frutto di una particolare contingenza storica.
Ancora una volta ha prevalso il disconoscimento di quel che si è. Secondo loro più italiani degli italiani. I proto italiani come raccontavano i celeberrimi Falsi di Arborea che hanno costruito più sentire comune di quanto si creda. La Costituzione della Repubblica recita che i deputati vengono eletti senza vincolo di mandato, rappresentando così tutti gli italiani. Però nessuno lo chiede ad un parlamentare sudtirolese o ad uno valdostano. Loro in primis rappresentano il popolo che li ha eletti.
L’appartenenza al partito italiano fa sì che la direzione romana possa imporre chiunque, e scegliere l’ordine di precedenza nelle liste. Una decisione che diventa insindacabile. Le organizzazioni vivono del rispetto delle gerarchie e agiscono di conseguenza. Che poi non rispettino quanto uscito dalle primarie, rientra nella logica verticistica che si arroga il potere di decisione ultima. Con buona pace della democrazia partecipativa. Eppure quanto accaduto è un fatto positivo. Segna il discrimine tra due idee di partito, tra chi vuole che la Sardegna sia al centro sempre, e chi la subordina ai propri tornaconti personali o di gruppo mascherati da interesse nazionale dell’Italia. Anche se ciò dovesse aggravare e perpetuare la dipendenza della nostra isola. Con il risultato di alimentare l’area del non voto.
C’è un elettorato di sinistra molto sensibile alle tematiche nazionali della Sardegna che non si sente rappresentato, o meglio tradito. Però quelle decisioni romane stanno provocando uno smottamento. Dirigenti di partito che si dimettono, proteste vibrate. Forse sta nascendo una nuova consapevolezza. Il rischio è, che se si tornerà alla liste uscite dalle primarie, tutto rientri. Si penserà che una volta tanto, la battaglia la si è vinta.
Non sarà così. Si può vincere una volta ma la sindrome della dipendenza resterà. Si racconta che un contadino stanco di essere depredato delle ciliegie si rivolse ad un prete per un talismano. Il prete su di un foglio scrisse qualcosa e chiese la contadino di appenderlo sul ramo più lato. Venne lo stormo e lesse: ”Deo seo predi Zurru ministru de Santa Romana Ecclesia, e ti naro o isturru non ti mandighes sa cheresia.” Dopo aver intinto il becco in una ciliegia l’uccello rispose:” Deo seo s’isturru e mi mandigo sa cheresia, aff. a predi Zurru ministru de Santa Romana Ecclesia!”
La storia dei Sardi è un ripetersi di richieste agli storni di turno, che le ignorano continuando a seguire le loro convenienze. I Sardi rappresentano circa il 2,7 della popolazione dell’Italia. Il loro grado di influenza sulle decisioni italiane è minimo. La Sardegna non ha seggi nel Parlamento Europeo se non per gentile concessione. Non abbiamo voce e in questo mutismo i ceti intermediatori si sono ingrassati a spese di tutti.
La scelta del partito della Sinistra Sarda è un piccolo passo per poter contare di più. Il PD italiano avrà bisogno di quei voti per vincere, dovrà scenderà a patti, dovrà rispettare le decisioni locali, non potrà imporre personaggi che escono dagli album degli anni ’80. Una scelta di questo tipo avrà anche un risvolto interno, si andrà verso la responsabilizzazione delle classi dirigenti, si romperà la spirale delle lamentazioni e delle richieste evase che producono solo frustrazione e nuove lamentele. Gli anni che verranno vedranno la contraddizione territoriale aggravarsi sempre di più.
E’ ora il momento di agire. Chi ha responsabilità politiche è davanti allo sguardo della storia. I loro nipoti li giudicheranno per ciò che oggi essi fanno. L’alternativa è continuare a lamentarsi e come diceva il poeta: “Bonu proe bos fetat, bonu proe.
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Nicolò Migheli. Intervento su Sardegnademocratica