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Una bocca per parlare e due orecchie per ascoltare

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ape-innovativadi Franco Meloni

Massimo Zedda, il Sindaco di Cagliari, ci deve essere rimasto molto male alla notizia che le donne di Sant’Elia, organizzate nell’associazione culturale S.Elia Viva, abbiano accusato la sua amministrazione di disinteressarsi dei problemi del quartiere. Andatevi a vedere e ad ascoltare i video-servizi de L’Unione Sarda e di CagliariPad, ripresi dalla nostra News, per rendervi conto di quanto siano pesanti le rimostranze di queste cittadine.
lungomare s.elia aladinewsMa come? - avrà pensato il Sindaco – e il lungomare, che è costato qualche milione di euro alle casse del Comune, non è nulla? Non è ancora finito, ma già in buona parte può essere fruito. Ci stiamo lavorando per completarlo. E poi abbiamo già mandato in appalto il porticciolo. Quello sì che sarà una vera figata!… Che ingrate queste donne di S.Elia!
E, invece, diciamo noi, hanno pienamente ragione. Non disconoscono certo la bontà e la bellezza di quelle realizzazioni e dei progetti in itinere, ma loro, vivono la quotidianità dei problemi della gente del quartiere, che sono di “poco conto”: la disoccupazione, la disgregazione sociale che colpisce soprattutto i giovani e che si appalesa per esempio con la dispersione scolastica o con il fenomeno dei NEET (ragazzi che non studiano e che non lavorano), la violenza che ancora si esercita nei confronti delle donne, l’abbandono degli anziani… A fronte di questi problemi di “poco conto” ha voglia di dire il Sindaco che in larga parte non sono di competenza dell’amministrazione comunale. E no, caro Sindaco, tu te ne devi far carico, eccome! Agendo con le tue attuali competenze (che non sono affatto minori o residuali) e attivando le competenze delle altre Istituzioni e anche dei privati, imprese e terzo settore. Restando alle Istituzioni, i compartimenti stagni che caratterizzano il loro modo di operare (o anche di non operare) è quanto mai pernicioso per gli interessi della Comunità che rappresenti al massimo livello. E tu, poco te ne curi e poco ti preoccupi! Ma torniamo ai problemi di Sant’Elia. selia 1 Le donne del quartiere hanno le idee chiarissime su quali siano le emergenze sociali, e le hanno anche nell’individuare una serie di rimedi, che certo non costituiscono “ricette” risolutive, ma che hanno la credibilità del successo di chi le mette in pratica. E che pertanto le induce a proporre con forza. La prima cosa da fare è rimettere in funzione il circuito virtuoso della partecipazione democratica. Come? Fornendo alla gente spazi e strumenti di partecipazione, di autorganizzazione. Ecco perchè la gente ti ha chiesto di aprire un “centro civico” o “centro di aggregazione sociale”, chiamiamolo come ci pare, utilizzando il vecchio asilo, modificando a questo fine i ventilati diversi (nel senso di contrari) progetti del Comune, di cui la gente del quartiere poco sa (e che avrebbe invece diritto di conoscere e di avere al riguardo voce in capitolo).SANT'ELIA VASCO P Da li si inizia, perchè aveva ragione don Vasco Paradisi (il parroco di S.Elia della stagione delle lotte sociali degli anni 70), quando affermava che “solo il popolo salva il popolo”. Proprio riferendoci a quel periodo crediamo che solo la gente organizzata in comitati e associazioni determina una qualità di vita sociale accettabile. Infatti quando i movimenti di base furono sconfitti e annientati il quartiere ripiombò nella disgregazione. Riferendoci ai citati anni 70, emblematica fu la sconfitta e il conseguente scioglimento del Comitato di quartiere, ben descritta nelle sue conseguenze da Umberto Allegretti, che fu un animatore di quelle lotte: la fine del Comitato… “comportò un regresso ancora oggi non superato della organizzazione e della stessa coscienza politica del quartiere…” .
sp is mirrionis 20 giu 15. Torneremo ovviamente su tutte queste questioni. Per ora siamo veramente grati alle donne di Sant’Elia perchè quelle lotte, di cui furono forse protagonisti i loro genitori, le hanno nel sangue e le ripropongono a partire dalla situazione odierna del loro quartiere a tutta la città. E’ pertanto naturale che alla loro lotta si colleghi con immediatezza la “vertenza della Scuola Popolare di Is Mirrionis”, che persegue le medesime finalità. Al Sindaco, alla sua amministrazione e a tutta la classe politica, ma anche a noi, ricordiamo una frase, attribuita al filosofo greco Epitteto: “Dio ci ha dato due orecchie, ma soltanto una bocca, proprio per ascoltare il doppio e parlare la metà”.
Se hanno (e abbiamo) l’umiltà di ascoltare (nel nostro caso le donne di S.Elia) e tradurre in pratica quanto ci viene detto, potremo sicuramente essere meno pessimisti.

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Sul fenomeno drammatico della dispersione scolastica siamo più volte intervenuti. In questa sede ci piace richiamare un buon progetto in attuazione in 6 regioni italiane (ma non in Sardegna) che tra l’altro si basa sulla rete di centri di aggregazione sparsi sul territorio. Per noi questi centri sono esattamente quelli che richiediamo per S.Elia, per Is Mirrionis e per gli altri quartieri della città.

Frequenza200-logo-IntervitaFREQUENZA200. Il progetto prevede l’avvio di un “centro civico” in ognuna delle prime tre città identificate con il supporto e la collaborazione dei partner locali (associazioni del Terzo settore) che sarà operativo 5 pomeriggi alla settimana con attività educative condivise con le istituzioni del territorio, in particolare la scuola dell’obbligo e i servizi sociali. I percorsi educativi verranno realizzati in attività di supporto scolastico e relazionale a favore dei minori coinvolti, parallelamente saranno coinvolte le famiglie dei minori con azioni di counseling e rinforzo delle competenze genitoriali. Le scuole saranno coinvolte con attività di formazione degli insegnanti, per creare un’equipe d’intervento omogenea verso i beneficiari.
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orgosolo 13 giu 15
Ci libereremo mai dai muri?
di Nicolò Migheli

By sardegnasoprattutto / 20 giugno 2015/ Società & Politica/ One Comment

Chi almeno una volta ha superato la frontiera tra l’Europa occidentale e i paesi del Patto di Varsavia sa che cosa è un muro. Militari in mimetica con fucili d’assalto esibiti. Cani addestrati a fiutare ed aggredire, valige aperte, borse rovesciate davanti a sguardi gelidi e diffidenti. Fino al 1989 l’Europa era così, in bianco e nero. Da una parte noi e dall’altra loro, simili e diversi. Ora tornano i muri. L’ungherese Orbán ne vorrebbe costruire uno tra la Serbia e il suo paese. Centosettantacinque chilometri di filo spinato, fasce di terra di nessuno, torrette e riflettori che sciabolano il buio della notte; la solita panoplia di allarmi elettronici controllati in remoto.

Non è l’unica barriera, nell’enclave spagnola di Melilla in Marocco ne esiste una, così tra Grecia Bulgaria e la Turchia. Muri che dovrebbero proteggere i cinquecento milioni di europei della Ue dalle invasioni dei disperati. Valli che hanno più effetto rassicurativo per chi li erige che una utilità. La Grande Muraglia non ha impedito all’Orda d’oro di conquistare la Cina e il muro di Berlino non ha salvato la DDR.

L’Europa nei secoli scorsi ha conosciuto ondate emigratorie che hanno colonizzato interi continenti sradicando popolazioni, sopprimendole, sottoponendole al proprio dominio. In questo secolo è proseguito lo sfruttamento coloniale dei paesi africani, appoggiando qualsiasi dittatore che facesse i nostri interessi, destabilizzando Medio Oriente e Nord Africa. Quelle popolazioni in fuga presentano il conto.

Se la geopolitica spiega, le scienze umane potrebbero dare risposte ulteriori. Perché tanta paura dell’altro? Solo perché di etnia e religione differente? Solo perché poveri? C’è qualcosa di più. Lo suggeriva l’antropologo francese Marc Augé, sostenendo che è un comportamento che tocca archetipi insiti nelle culture umane. È la paura che le comunità stanziali hanno sempre avuto verso quelle nomadi. Il timore di quelli che non hanno o non posseggono più un luogo, che si muoverebbero per impadronirsi del tuo. Nel contempo in queste migrazioni si immagina un possibile destino per la tua comunità.

Un terrore a cui si reagisce con il rafforzamento delle identità – qualsiasi cosa significhino- con una feticistica rappresentazione delle radici. Tensioni a cui non si sottraggono neanche le socialdemocrazie scandinave, messe in crisi da movimenti xenofobi e parafascisti. Il Partito Popolare Danese descrivendo gli immigrati come appartenenti ad una civiltà inferiore, nelle elezioni del 18 di giugno scorso, ha ottenuto il 21,1% dei voti; diventando il secondo partito del parlamento con buone possibilità di entrare nel governo. Nessuna società europea contemporanea è immune da queste regressioni. In Sardegna, alcuni che si definiscono indipendentisti, cominciano ad adottare il linguaggio di Salvini o di Grillo. Pochi per fortuna, però sono il segnale debole di fenomeni che possono diventare devastanti.

È pur vero che ogni società produce i suoi fascismi, che spesso il patriottismo è l’ultimo rifugio delle canaglie, come sosteneva il protagonista dell’indipendenza americana Samuel Johnson. Lo scontro continuo tra “razzisti” e “buonisti” comporta una impossibilità a capirsi, a trovare soluzioni ad una emergenza che rischia di travolgere le nostre società democratiche. Non c’è cultura o status che tenga, sono comportamenti che evidentemente affondano nel subconscio.

Il disprezzo dell’alterità si rivela anche in persone che hanno fatto gli studi giusti, ed hanno professioni che sono indenni alla supposta concorrenza dei migranti. È la paura delle proprie opinioni pubbliche che spinge la Francia ad applicare l’accordo di italo-francese di Chambéry del 1997 impedendo il passaggio dei profughi e respingendoli, così come sta facendo l’Austria con un trattato simile. Molti pensano che tutto ciò sia l’effetto della scomparsa di una sinistra forte. Forse è solo una nostalgia senza vero fondamento.

È stato il Partito Socialista francese ad affondare la costituzione europea per paura della concorrenza dell’idraulico polacco. Cento anni fa il Partito Socialista tedesco ruppe gli accordi internazionali del movimento operaio, per aderire alla guerra mondiale che le classi dirigenti di quel paese avevano imposto. Il dominio della finanza internazionale ha dato l’ultimo colpo, riducendo i residui della classe operaia a massa di manovra salariale – Marx è sempre utile- e i ceti medi alla perdita di reddito e status. Drammi che mostrano che il capitale apolide non vuole confini, mentre le persone impoverite o che temono di perdere quel che hanno, sognano barriere e respingimenti. Siamo destinati a non liberarci mai dai muri? Speriamo di no, però rischiamo conflitti da cui potrebbero nascere forme di governo autoritario.

Non a caso il modello di certe destre europee sono l’Ungheria di Orbán e la Russia di Putin. L’unica strada per evitare queste derive è costruire società meno ineguali e cambiare totalmente la politica europea verso l’Africa. Più facile a dirsi che a farsi. Viviamo in tempi di alleanze di volenterosi e di egoismi nazionali molto forti. La solitudine dell’Italia sul fronte dei migranti e la vicenda greca lo dimostrano. L’unica etica per uno stato è il proprio interesse. Così scrisse il politologo tedesco-americano Hans Morghenthau.

Occorrono èlite europee che riprendano il sogno dei padri fondatori. Non se ne vede traccia. Il declino e la disgregazione incalzano, con la prospettiva di un nuovo fascismo.