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Ci salverà solo l’investimento in cultura e conoscenza. Bisogna crederci e operare di conseguenza
Il possibile futuro dell’Italia nelle considerazioni del governatore della Banca d’Italia
di Gianfranco Sabattini
Ignazio Visco, governatore delle Banca d’Italia, ha scritto il libro “Anni difficili. Dalla crisi finanziaria alle nuove sfide per l’economia”, il cui interesse non sta tanto nella narrazione delle vicende cha hanno caratterizzato l’economia mondiale, quella europea e, in particolare, quella italiana a partire dalla Grande Recessione scoppiata nel 2007/2008, quanto nel tipo di politica economica proposta per disincagliare l’economia italiana dalle secche della stagnazione, che da anni l’affligge. Il pensiero di un ”opinion maker” del calibro di chi, ricoprendo una funzione importante (anche se assai più limitata rispetto al passato) nel governo dell’economia, può influenzare, oltre che l’opinione pubblica, anche la società politica, merita d’essere considerato attentamente.
Dalla fine degli anni Novanta del secolo scorso – afferma ul governatore – “il mondo vive una stagione di grandi cambiamenti, di opportunità, speranze e successi provenienti dall’apertura dei mercati e dalla rapida e straordinaria affermazione di nuove tecnologie”. A questi nuovi cambiamenti, l’Italia non è stata in grado di adeguarsi, se non in modo lento e parziale; ciò ha determinato la sua incapacità di affrontare in maniera adeguata gli esiti delle conseguenze negative della crisi finanziaria globale del 2007/2008.
La base produttiva, secondo Visco, si è trovata fortemente in ritardo a fronte della crisi, oltre che nella dotazione di capitale fisso sociale, nell’utilizzo delle nuove tecnologie produttive e, conseguentemente, nel rispondere alle sfide della concorrenza del mercato internazionale. Tra i motivi della debolezza della base produttiva del Paese, un ruolo particolare hanno svolto le rigidità del mercato del lavoro e l’possibilità di adottare adeguate misure nel governo dell’occupazione, resa sempre più problematico dai nuovi modi di produzione.
Per affrontare i rischi connessi al miglioramento delle tecniche produttive, dovuto alla rivoluzione digitale, alla robotica e all’intelligenza artificiale, sarebbero servite riforme culturali e istituzionali, la cui mancata attuazione non ha consentito di cogliere gli effetti complessivi che i cambiamenti intervenuti nelle tecniche produttive hanno esercitato “sulle opportunità e tipologie dei lavoro” e sulla distribuzione del prodotto sociale. Secondo Visco, sarebbe stato necessario attuare le riforme che i grandi cambiamenti iniziati a partire dagli anni Novanta del secolo scorso suggerivano, considerando quanto la transizione dai vecchi modi di produrre ai nuovi “fosse troppo accidentata e non breve”; transizione, questa, che la crisi finanziaria globale e quella dei debiti sovrani dei Paesi dell’area-euro ha reso ancora più difficile da contrastare nei suoi effetti indesiderati.
Tali effetti non possono però essere superati facendo affidamento solo su interventi di politica economica; da interventi di tale natura non ci si può aspettare – afferma Visco – il “ritorno a tassi di crescita stabile e sostenuta della produttività, dell’occupazione e dell’economia generale”; si deve invece inaugurare una stagione di reali riforme di struttura, idonee a consentire il miglioramento della produttività delle attività di produzione, per affrontare l’aumentata competitività internazionale. Condizioni, queste, che richiedono l’adozione di iniziative innovative sul piano culturale, istituzionale e politico, perché diventi possibile “dare a tutti le migliori opportunità di lavoro in un mondo così cambiato e diverso da quello che abbiamo conosciuto negli anni della ricostruzione postbellica, del miracolo economico, delle crisi petrolifere e dei cambi”.
Il mondo globale nel quale è inserita oggi l’Italia pone nuove sfide che l’economia nazionale non è in grado di affrontare. Di ciò, secondo Visco, si deve essere consapevoli, perché la società civile e quella politica possano comprendere la necessità di assumere le opportune decisioni “per costruire con equilibrio e lungimiranza, un sistema migliore”.
In questi ultimi anni, l’economia italiana ha teso stentatamente ad uscire dalle due crisi che l’hanno colpita a breve distanza tra loro, quella del crollo dei mercati finanziari internazionali nel 2007/2008 e quella dei debiti sovrani dell’area euro nel 2011/2012. Sull’intensità degli esiti delle due crisi hanno “certamente contato – afferma Visco – le condizioni di partenza”, dalle quali hanno tratto origine “il crollo dell’occupazione, l’ulteriore arretramento del Mezzogiorno e la crescita della povertà”; queste conseguenze sarebbero state sicuramente più gravi, se fosse mancata una reazione energica della politica monetaria, sorretta soprattutto dalla Banca Centrale Europea. L’azione della politica monetaria non ha però evitato che si verificassero situazioni di insostenibilità per i conti pubblici e i bilanci delle banche.
Tale stato di cose ha spinto verso l’alto il rapporto tra il debito pubblico e il prodotto interno lordo del Paese, contribuendo a deteriorare la capacità delle attività produttive a fare fronte ai propri debiti. Alla debolezza di lungo periodo dell’economia italiana ha corrisposto una “deludente dinamica della produttività totale dei fattori”, definibile come la parte residua di produzione che eccede le quantità di lavoro e capitale impiegate per ottenerla. In Italia, questa forma di produttività – sottolinea Visco – ormai da decenni risulta “pressoché costante, in contrasto con l’aumento sostenuto osservato negli altri Paesi europei e con quello registrato in passato nella nostra economia, durante i decenni di ricostruzione e sviluppo successivi alla seconda guerra mondiale”.
L’interruzione dell’aumento della produttività totale dei fattori impiegati nell’economie italiana spiega perché l’uscita dal tunnel delle due crisi è stentata e contenuta. Le crisi hanno “colpito” un contesto economico-sociale già debole di per sé e poco favorevole alla crescita delle imprese; ciò in quanto sono mancate un’efficace azione della classe politica e una crescita culturale del contesto sociale, destinate entrambe (l’azione politica e la crescita culturale) a supportare un cambiamento istituzionale che fosse all’altezza di governare l’impatto sull’organizzazione produttiva del progresso dei processi produttivi.
La mancanza di un’azione efficace da parte della classe politica, e congiuntamente del miglioramento culturale del contesto sociale e del cambiamento istituzionale, non è stata, tra l’altro, accompagnata da una adeguato supporto solidale da parte dei restanti Paesi dell’Unione Europea; al contrario, si sono accentuate le incomprensioni, le diffidenze e le reciproche manifestazioni di sfiducia tra i Paesi dell’Unione Europea. Le due crisi (dei mercati finanziari internazionali e dei debiti sovrani) che hanno colpito l’Italia hanno messo a dura prova l’intera economia dell’area-euro, la quale ha dovuto scontare per alcuni anni gli effetti di una “spirale deflazionistica”, i cui risultati sono stati gravi per l’intera area-euro e, in particolare, per l’Italia, che “ha vissuto – secondo Visco – gli anni peggiori della sua storia in tempo di pace”.
Con il diffondersi delle preoccupazioni per la tenuta delle economie dei Paesi che, come la Grecia, la Spagna, il Portogallo, l’Irlanda e l’Italia, soffrivano di pesanti squilibri nei conti pubblici, nelle bilance commerciali e nei sistemi bancari, si sono avute gravi turbolenze sui mercati finanziari; queste turbolenze hanno dato luogo a condizioni di finanziamento proibitive per gli Stati che, a causa dei deficit dei loro conti pubblici, facevano ricorso al credito internazionale. Ciò ha determinato incrementi eccezionali dei “differenziali di rendimento (gli spread) delle obbligazioni pubbliche rispetto a quelle tedesche”; agli elevati livelli di spread si sono aggiunte le difficoltà delle banche, che sono valse ad amplificare i “timori di reversibilità della moneta unica”.
Il rischio che si avverasse quanto si temeva è stato sventato dalla Banca Centrale Europea, la quale ha avviato interventi di sostegno sui mercati dei titoli in favore dei Paesi in crisi. Nello stesso tempo, per garantire la sostenibilità dei debiti pubblici, tutti i Paesi dell’area-euro hanno adottato politiche di bilancio restrittive; l’assenza di un bilancio comune, però, ha impedito un’azione soprannazionale tale da risultate parzialmente compensatrice degli esiti delle politiche di austerità adottate dai singoli Paesi membri dell’Unione. Tuttavia, sottolinea Visco, se la politica monetaria della Banca Centrale Europea (in aggiunta a quella dei singoli Paesi) “ha contribuito in maniera decisiva a contenere la caduta ciclica dell’attività e ad avviare le ripresa, non può da sola garantire il ritorno a una crescita stabile e sostenuta, essenziale per l’occupazione e per rientrare dalle gravi eredità delle crisi”. I problemi strutturali delle economie nazionali si possono risolvere solo accelerando gli interventi di riforma. In Italia, ciò significa rilanciare la produttività; ma come?
Innanzitutto, va affrontato prioritariamente il problema dell’alto livello del debito pubblico, che tiene basso il potenziale di crescita; un duraturo ritorno alla crescita – sottolinea Visco – presuppone una diminuzione del rapporto tra debito consolidato e prodotto interno lordo, conservatosi ad alti livelli ormai da tanti anni. Non esiste un valore assoluto di tale rapporto, oltre il quale il debito diviene insostenibile; la soglia varia nel tempo e da Paese a Paese, in funzione di diverse variabili di natura economica ed extraeconomica. In ogni caso, occorre tenere presente che un debito particolarmente elevato, qual è ora quello italiano, a parità di altre condizioni, “accresce i costi di finanziamento degli investimenti produttivi del settore privato; induce un più ampio ricorso a forme di tassazione discorsiva, con effetti negativi sulla capacità di produrre reddito, risparmiare e investire; alimenta l’incertezza e anche per questa via scoraggia gli investimenti, riduce i margini disponibili per politiche di stabilizzazione macroeconomica”.
L’ordine nei conti pubblici costituisce, quindi, il presupposto perché il Paese torni a crescere, per mettersi nella condizione di poter affrontare gli esiti dei cambiamenti radicali che sono avvenuti, e stanno ancora avvenendo nel mondo, principalmente a causa del progresso tecnico e della globalizzazione; sia il primo che la seconda hanno portato con sé “formidabili pressioni competitive” che, nel caso dell’Italia, sono state particolarmente intense nelle produzioni tradizionali (quali sono le produzioni dei comparti del tessile e dell’abbigliamento), nelle quali la specializzazione dell’economia nazionale è sempre stata elevata. L’altra ragione per cui l’Italia ha sofferto degli esiti dei mutamenti tecnologici e della globalizzazione, a parere di Visco, è da ricondursi alla qualità del “capitale umano”, la cui formazione si è rivelata inadeguata ad adattarsi ai profondi cambiamenti.
Il ritardo che l’Italia accusa riguardo alla qualità del capitale umano investe due aspetti del suo possibile futuro: il primo è quello relativo alle difficoltà cui può andare incontro la soluzione del problema dell’occupazione; il secondo è quello dell’individuazione delle nuove modalità con cui governare la distribuzione del prodotto sociale. Sul primo aspetto, secondo Visco, la sostituzione del lavoro con le macchine è un fenomeno ancora limitato e, guardando all’esperienza del passato, si può fare affidamento sul fatto che, nel lungo periodo, il progresso tecnologico “ha sempre generato più posti di lavoro di quanti ne abbia distrutti”; ciononostante, occorre interrogarsi, nella proiezione del Paese verso il futuro, se i “costi per l’occupazione non possano essere assai rilevanti”. Sul secondo aspetto (quello delle nuove modalità con cui assicurare la distribuzione del prodotto sociale), va tenuto costantemente presente che il progresso tecnico e la globalizzazione contribuiranno ad approfondire ulteriormente la disuguaglianze distributive, ora già particolarmente elevate.
La risposta ai problemi sollevati dai due aspetti (governo dell’occupazione e distribuzione del prodotto sociale) non può che consistere, secondo Visco, nell’”attrezzarsi per affrontare l’incertezza, gli imprevisti, finanche il caso, puntando soprattutto ad accrescere l’investimento in cultura e conoscenza”. L’investimento in cultura e conoscenza costituisce, per il governatore della Banca d’Italia, “una sfida cruciale per il nostro Paese”: avere “competenze adeguate al XXI secolo sarà un presupposto fondamentale per affrontare l’incertezza su quali saranno i lavori del futuro”. L’investimento in cultura e conoscenza si rivela ancor più necessario per l’Italia, perché – sempre a parere di Visco – produrrà effetti che andranno ben oltre l’economia: esso, infatti, “potrà contribuire a rafforzare il senso civico, il rispetto delle regole, l’affermazione del diritto”. Visco considera essenziali questi fattori, perché serviranno a “rafforzare la capacità dell’economia di innovare e crescere con il progresso della tecnologia”, senza perdere di vista “la necessità di fare in modo che tutti possano parteciparvi e goderne i frutti”.
Si tratta di una lieta conclusione, questa del libro di Visco sull’analisi delle ragioni della stentata capacità dell’economia italiana di uscire dalla crisi; la proposta di puntare sull’investimento in cultura e conoscenza, per meglio affrontare l’incertezza su quali saranno i lavori del futuro, offre una possibile soluzione che, però, è destinata a rimanere solo parziale, se non sarà prefigurata anche la nuova forma che dovrà assumere la distribuzione del prodotto sociale, perché diventi possibile assicurare la necessaria consapevolezza alla forza lavoro, dotata di maggior conoscenza, sul come affrontare l’incertezza dei lavori del futuro.
La mancata individuazione delle nuove regole distributive varrà solo a conservare il Paese nel caos e nel ritardo che politicamente lo caratterizzano, per via del fatto che la classe politica è, in via esclusiva, costantemente “distratta” dall’urgenza di risolvere solo il problema distributivo sulla base delle tradizionali regole welfariste, disgiuntamente dai cambiamenti strutturali che sarebbero necessari per il superamento delle attuali condizioni nelle quali versa il nostro sistema economico-sociale.