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Quali risposte in positivo alla crisi degli Stati democratici occidentali?

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E’ proprio vero che le città-Stato e le tecnocrazie possono rimediare ai limiti della democrazia?

di Gianfranco Sabattini*

Lo scienziato politico indiano, Parag Khanna, considerato una figura di spicco del think tank di Washington “New America Foundation” e dell’”European Council on Foreign Relations”, ha pubblicato di recente “La rinascita delle città-Stato. Come governare il mondo al tempo della devolution”. Nel libro Khanna sostiene che la democrazia, il regime politico più accreditato presso gran parte dei sistemi economici più avanzati, può sottrarsi ad un irreversibile declino, solo se le sue istituzioni riusciranno a migliorare le loro performance; secondo il politologo indiano, infatti, è il degrado istituzionale delle democrazie a determinare l’insoddisfazione degli elettori, per il contenimento della quale non esiste che una via: assegnare il governo delle comunità democratiche a squadre di tecnocrati.
A parere di Khanna, le istituzioni democratiche hanno ormai perso credibilità circa la loro adeguatezza a risolvere i problemi del mondo contemporaneo; in particolare, i riti celebrati ricorrentemente in occasione delle consultazioni elettorali per il rinnovo del personale politico servono solo a portare “allo scoperto ampi strappi nel tessuto delle nazioni senza che si sia stilata un’agenda condivisa sul modo in cui ricucirli”. I limiti della democrazia, quindi, per Khanna, non stanno solo nella sua incapacità di risolvere in modo adeguato gli stati di bisogno dei governati, ma anche nel modo in cui essa funziona; conseguentemente, la “democrazia, da sola, non basta più”, occorre supportarla, anzi sostituirla, con l’apporto di tecnocrati professionali.
Per assicurare la sostituzione della democrazia non c’è bisogno – afferma Khanna – “né di guerre né di rivoluzioni – e nemmeno di una parentesi dittatoriale -, bensì di un’evoluzione tecnocratica”, che porti il sistema politico ad essere fondato “sulle analisi degli esperti e sulla pianificazione a lungo termine anziché sulle improvvisazioni senza respiro e prospettiva tipiche del populismo”. A differenza del mondo politico tipico delle democrazie, sempre propenso ad adottare non disinteressatamente provvedimenti ad hoc di breve respiro, la tecnocrazia, secondo il politologo indiano, ha la “virtù di essere sia utilitarista (nel senso di cercare inclusivamente il massimo vantaggio per la società) che meritocratica (dotata di leader molto qualificati e non corrotti”; essa, perciò, è strumento atto a far sì “che la scienza politica possa aspirare a diventare qualcosa di degno del suo nome: un approccio rigoroso all’amministrazione”.
Inoltre, la tecnocrazia non perde tempo a discutere se occorra allargare o restringere lo spazio da riservare all’iniziativa privata o a quella pubblica, in quanto essa (la tecnocrazia) predilige sempre agire perché sia la prima che la seconda cooperino per agire nel modo più efficace; è questo il motivo per cui sono sempre più numerosi i cittadini che credono nella competenza degli esperti, anziché in quella del personale politico, per decidere quali obiettivi devono essere perseguiti nell’interesse del Paese. A supporto di questo suo convincimento Khanna si rifà ad una ricerca del World Values Survey (un progetto di ricerca globale, che esplora i valori e le fedi delle persone, di come esse cambiano nel tempo e quale impatto sociale e politico hanno), dalla quale risulta che la percentuale dei cittadini europei e americani che ritiene essenziale vivere in un regime democratico è diminuita da due terzi a meno di un terzo del totale, mentre la quota di cittadini americani che crede che debbano essere gli esperti, anziché i politici, a decidere cosa è meglio fare per il Paese è salita dal 32 al 49%. Fatti, questi, che consentono a khanna di poter affermare, a sostegno della sua tesi, che sempre più cittadini “desiderano ardentemente un governo migliore, che sappia bilanciare democrazia e tecnocrazia”.
L’obiettivo che Khanna, con il suo libro, intende perseguire è quello di redigere un “promemoria” per vivere la trasformazione della democrazia attraverso “una combinazione di ciò che sappiamo e di ciò che possiamo immaginare su quello che significa progettare un governo efficiente che sia veramente al servizio dei cittadini”. Alcune delle sue proposte, avverte Khanna, potranno essere percepite come irrealistiche nelle attuali condizioni delle istituzioni e della politica, ma egli ammonisce che la storia punirà quei sistemi politici che non si predisporranno al cambiamento.
Khanna non si limita ad auspicare una trasformazione “ab imis” della forma di governo democratico, ma la estende anche alle dimensioni prevalenti degli Stati; secondo lui, la ricerca della “forma ideale dello Stato più adatta ai tempi non è un astratto esercizio filosofico, ma una necessità ricorrente”; ciò, perché le dimensioni degli Stati e i regimi democratici non sarebbero più strumenti idonei a consentire ai governi di risolvere i problemi del mondo attuale, essendo caratterizzati più dall’incapacità di fare qualcosa che di reagire, senza alcuna coerenza, al manifestarsi degli eventi negativi. Nel corso degli ultimi decenni, a parere di Khanna, gli studiosi dei problemi politico-istituzionali sono stati sempre impegnati ad individuare le dimensioni dello Stato ed il regime politico più convenienti, in funzione della complessità delle emergenze che maggiormente assillano i cittadini.
Dopo la fine della Guerra fredda, l’attenzione degli studiosi si è indirizzata verso l’individuazione del modo più conveniente per “capitalizzare” la creazione di un mercato mondiale, ovvero di un “mondo dominato dalla geoeconomia anziché dalla geopolitica”. Con il consolidarsi della globalizzazione delle economie nazionali, quindi, la concentrazione della produzione e l’approfondirsi dell’interdipendenza tra i vari sistemi produttivi, si sarebbero poste le premesse – afferma Khanna – per la nascita di quello che gli storici economici hanno definito “Stato commerciale” o “Stato di mercato”. Successivamente, gli strateghi della globalizzazione hanno previsto che i centri di potere del mercato mondiale sarebbero divenuti degli “agglomerati urbani di città-Stato analoghi a quelli che nel Medioevo formavano la Lega anseatica”.
La ricerca delle dimensioni dello Stato e della forma di governo più convenienti è proseguita ulteriormente con l’avvento dell’era dell’informazione digitale, portando ad individuare nell’”info-Stato” l’evoluzione modificata, ma più adattata ai tempi, dei modelli precedentemente indicati di “Stato commerciale”, di “Stato di mercato” e di “Agglomerato urbano di città-Stato”. A differenza dei modelli precedentemente individuati, l’info-Stato, a parere di Khanna, non “si fida più del mercato” e della tradizionale sua mano invisibile; esso crede piuttosto nell’azione congiunta del settore privato e di quello pubblico, ai fini dell’attuazione di piani strategici economici finalizzati alla soddisfazione degli stati di bisogno dei cittadini e realizzati sotto la guida esperta di una “tecnocrazia diretta”. In tal modo, secondo Khanna, l’info-Stato esprimerebbe una “democrazia postmoderna [...] che combina priorità dal basso e management tecnocratico”.
Il mondo è composto principalmente da Stati che ancora privilegiano la grande dimensione e la celebrazione dei riti propri delle democrazie elettorali; ma osservandole da vicino diventa facile capire, a parere di Khanna, le loro inefficienze e le insoddisfazioni dei loro cittadini. E’ questa la ragione per cui, secondo il politologo indiano, la piccola dimensione e la tecnocrazia costituiscono la via della salvezza degli Stati che agiscono su scala globale; ciò richiede però che i grandi Stati democratici riescano per tempo a maturare la consapevolezza che la grande dimensione e la democrazia non sono più in grado di garantire con successo la stabile soddisfazione dei bisogni delle loro società. Pertanto, gli Stati attuali potranno salvarsi solo muovendo “verso modelli di governance migliore”, in cui l’apertura alla riduzione delle dimensioni “si accompagni a una tecnocrazia orientata agli obiettivi”.
I grandi Stati democratici potranno pervenire a questo risultato – afferma Khanna – se riusciranno a superare il grave deficit teorico del pensiero occidentale, che ancora confonde la politica con la governance, tralasciando tra l’altro di considerare che, per legittimarsi, la democrazia deve poter realizzare ciò che promette; il suo fallimento, secondo Khanna, è riconducibile al fatto che i riti elettorali sui quali essa è fondata esprimono un sistema di distribuzione di responsabilità, “non un modo per realizzare progetti. La legittimazione procedurale [...] della democrazia non può mai sostituire del tutto la legittimazione dei risultati [...] della fornitura dei servizi di base dei cittadini”.
Inoltre, è molto più probabile che la legittimazione dei risultati possa avvenire nei piccoli Stati, anziché in quelli più grandi. L’idea che i piccoli Stati potessero costituire dei modelli di organizzazione politica è sempre stata considerata impraticabile; ma nel mondo attuale, sostiene Khanna, la sovranità è in via di trasferimento dagli Stati-nazione alle città-Stato, e la primazia ed il prestigio dei primi sono sempre più in declino, in quanto ciò che conta è il successo, che per il politologo indiano non ha nulla a che fare con la dimensione. Di conseguenza, le città-Stato sono destinate a rappresentare le fondamenta per la soluzione di tutte le “sfide che stanno al cuore di questo XXI secolo”. Ovviamente, osserva Khanna, essere un piccolo Stato ha i suoi costi, e proprio per questo alla loro conduzione si addice meglio la tecnocrazia piuttosto che la democrazia; quest’ultima non insegna le virtù del risparmio, o almeno non quanto lo fa la consapevolezza dei tecnocrati di dover fare assegnamento solo su di esso per provvedere a fornire servizi nella quantità e qualità attese dai cittadini.
La superiorità dei tecnocrati in competenza ed iniziativa, rispetto al personale politico, è dovuta al fatto che, a parere di Khanna, una “buona tecnocrazia” ispira sempre il suo comportamento alla “fede dell’utilitarismo”, inteso quest’ultimo, non solo come propensione a massimizzare il risultato economico, ma, anche e soprattutto, a massimizzare il benessere sociale, attraverso l’espansione e la protezione della “libertà individuale e la promozione di opportunità e vantaggi giusti e uguali per tutti”.
Concludendo, Khanna afferma che riporre fiducia su una buona tecnocrazia non significa che le decisioni democratiche dei cittadini e i fini utilitaristici siano in contrasto tra loro; per legittimarsi i tecnocrati devono prestare tutta la loro attenzione alle decisioni dei cittadini e spendersi per realizzarne i fini. Durante questo processo, essi non possono decidere di agire discrezionalmente, perché, se ciò avvenisse, i cittadini disporrebbero di un accesso all’informazione come mai era stato possibile prima dell’avvento dell’informazione digitale, vogliono e possono avere rapporti con esperti in grado di rispondere ai loro desiderata.
Sin qui Khanna; la sua analisi dell’auspicabile evoluzione che possono subire le forme dello Stato e del regime democratico nell’interesse delle comunità solleva non poche perplessità. La prima è riconducibile alla recente esperienza del nostro Paese: i tecnocrati, che erano alla guida dell’Italia in occasione della recente crisi finanziaria non hanno certamente dato prova di lungimiranza e d’essersi ispirati ad un’ideologia utilitaristica nel senso di Khanna. Le loro politiche di austerità non sono andate molto più in là di una spanna dal loro naso; le loro severe politiche di austerità sono state cosi lontane dalle aspettative dei cittadini da costringerli solo “a stringere la cinghia”, senza che la contrazione della spesa pubblica abbia prodotto una ripresa dell’economia e un miglioramento della sicurezza dei cittadini. Ma, a parte questa lamentazione su quanto è accaduto in Italia con la tecnocrazia al potere, l’analisi di Khanna induce a riflessioni preoccupate ben più significative.
Intanto, al di là dell’entusiasmo che sembra riporre sulla sua proposta, quella di fronteggiare le sfide del mondo attuale attraverso una contrazione delle dimensioni dello Stato e la rinuncia alla democrazia sinora sperimentata, Khanna poco si sofferma sui limiti delle forme assunte dalla globalizzazione e nulla dice sul modo in cui andrebbero rimossi. Anzi, tacendo e sorvolando sulle cause che hanno determinato la crisi economica mondiale dell’ultimo decennio, Khanna sembra voglia farne ricadere la responsabilità su due specifici versanti: da un lato, sulle resistenze opposte alla riduzione del ruolo dello Stato-nazione; dall’altro lato, sui regimi democratici, per la loro presunta strutturale incapacità di effettuare previsioni credibili e di reagire in tempi rapidi contro gli effetti negativi del ciclo economico, con politiche lungimiranti e affrancate dai condizionamenti degli interessi consolidati.
L’analisi e il promemoria di Khanna sembrano quindi suggerire riforme dell’organizzazione statuale e del regime democratico, idonee non tanto a migliorare le capacità di governo delle comunità, quanto ad assecondare appropriate per assecondare la formazione di un mercato mondiale, in conformità agli interessi dei poteri che hanno plasmato la globalizzazione a loro immagine e somiglianza. In altre parole, le proposte di Khanna appaiono un subdolo promemoria a sostegno di una politica mondiale consona alla formazione di un mondo fatto di “piccole patrie”, prone più agli interessi di chi controlla il mondo che a quelli dei cittadini che compongono le singole comunità.
Inoltre, a parere di Khanna, il famoso detto di Churhill, secondo cui la democrazia sarebbe la “peggior forma di governo eccezion fatta per tutte le altre”, dovrebbe essere ripensato; sì!, ma non per le ragioni indicate dal politologo indiano, ma per rafforzarla e garantirne il funzionamento, per il ruolo che essa svolge a tutela dei destinatari degli esiti delle azioni di chi governa. Al contrario di quanto può pensare Khanna, non è vero che i cittadini siano univocamente interessati alla massimizzazione del risultato che può essere perseguito coi mezzi a disposizione. Ciò è tanto più vero, quanto più l’impiego dei mezzi a disposizione è affidato a tecnocrati, fuori da ogni controllo diretto dei cittadini; questi ultimi, contrariamente a quanto pensa Khanna, oltre ad essere interessati alla massimizzazione del risultato finale, sono anche fortemente motivati a conoscere le possibili conseguenze che possono derivare, a danno della loro esistenzialità, dal modo in cui i mezzi sono impiegati.
Oggi i cittadini, potendo accedere ad una produzione di conoscenza informatizzata come mai è stato possibile in passato, sono sicuramente più informati, ma certamente non sono garantiti riguardo alle procedure utilizzate per la produzione della conoscenza alla quale possono liberamente accedere. E’ questa la ragione per cui, nel mondo attuale e in quello di un tempo a venire sufficiente lungo, la democrazia risulta insostituibile. Essa consente ai cittadini di autoproteggersi, attraverso il dibattito pubblico circa il modo in cui i mezzi possono essere impiegati per la soddisfazione dei loro stati di bisogno; ciò che può essere garantito solo da una organizzazione democratica delle comunità, fondata sul funzionamento di istituzioni idonee a consentire lo svolgersi di un approfondito dibattito pubblico riguardo alle alternative d’impiego dei mezzi.
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