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Dibattito. URSS/Russia: la difficile transizione

e711c5f9-6c61-444e-8c11-9028db632644URSS: il travaglio istituzionale ed economico dell’uscita dal capitalismo di Stato

di Gianfranco Sabattini*

Per il Paese nato sulle ceneri dell’ex URSS, il 1991 è stato un anno cruciale, soprattutto per l’aggravarsi della situazione economica, giunta sull’orlo di un collasso irreversibile. Il procedere della crisi economica, i progetti riformisti rimasti inattuati e il crescente malcontento della popolazione, per la penuria dei generi di prima necessità e per il dissesto dei servizi, sembravano presagire un attacco ai sostenitori della politica di Michail Gorbačëv, divenuto nel 1985 Segretario Generale del PCUS.
Il nuovo segretario ha promosso ed attuato una politica riformatrice, volta a ricostruire (perestroika) e a rendere più trasparente (glásnost) l’intera struttura organizzativa dello Stato sovietico. A tal fine, Gorbačëv ha proposto un piano di riforma delle istituzioni e dell’economia, approvato dal Comitato Centrale del partito nello stesso anno in cui egli è stato investito della segreteria. Nel 1988, sono iniziate le radicali riforme, destinate a ridurre il controllo dell’apparato governativo sulle attività private, attraverso una riorganizzazione della struttura istituzionale dello Stato, nella forma di un sistema presidenziale, fondato sull’elezione di un “Congresso dei rappresentanti del popolo dell’URSS”. Quest’ultimo, nel 1990, ha eletto Gorbačëv Presidente dell’Unione Sovietica.
La politica di riforma del nuovo segretario del partito è stata caratterizzata da una dura contrapposizione tra forze favorevoli alle riforme e quelle conservatrici; le fazioni contrapposte erano, da un lato, i sostenitori di Gorbačëv, propensi alla democratizzazione della vita politica e all’introduzione del capitalismo privato, e dall’altro lato, i conservatori del capitalismo di stato: i primi, che premevano per l’accelerazione delle privatizzazioni e per l’allargamento del principio giuridico ed economico della proprietà privata, si identificavano nel mondo intellettuale filo-occidentale e nella borghesia urbana, rappresentata da professionisti, piccoli e medi commercianti e piccoli imprenditori; i secondi erano costituiti dai manager di Stato, dai burocrati e dai componenti della “casta” militare (fazioni, queste ultime che, nel loro insieme, avevano costituito il supporto del regime, dell’economia e del ruolo internazionale dello Stato sovietico).
I riformatori, favorevoli alla politica di Gorbačëv, premevano perché fossero approvate celermente le riforme istituzionali e i decreti sulla privatizzazione dei mezzi di produzione e sulla libertà imprenditoriale; ma i conservatori, hanno ostacolato l’attuazione di tale politica, dando corso, previa la costituzione di un “Comitato per l’emergenza” (nel quale erano presenti importanti membri della vecchia nomenclatura politica e militare dell’URSS), il 19 agosto del 1991, a un colpo di Stato, col quale hanno destituito Gorbačëv da Presidente dell’Unione Sovietica.
I “golpisti”, rinchiusisi all’interno del Parlamento, sono stati contrastati dai riformisti radicali guidati da Boris Yeltsin, che non ha esitato a porre agli occupanti del Parlamento l’aut aut delle resa senza condizioni, oppure dell’assedio da parte della “piazza”, opportunamente motivata; nonostante gli organizzatori del “golpe” avessero fatto affidamento sul sostegno della popolazione, nelle grandi città questa si è schierata contro di loro. In soli tre giorni, senza spargimento di sangue (fatta eccezione per alcuni morti), il 21 agosto i “golpisti” sono stati sconfitti, dando il là alla rapida liquidazione di ciò che restava dell’eredità dell’Ottobre rosso. Gli organizzatori del “golpe” sono stati arrestati e Gorbačëv è stato reinsediato nel suo ruolo di Presidente dell’Unione Sovietica.
Tuttavia, nonostante il reinsediamento, la posizione di Gorbačëv si era notevolmente indebolita, soprattutto per la lentezza con cui egli aveva proceduto nell’attuazione delle riforme istituzionali e nell’approvazione dei decreti sulla privatizzazione dei mezzi di produzione; se il fallito “golpe” dei conservatori aveva consentito al Presidente dell’Unione di mettere fuori legge il PCUS, non lo aveva però sottratto alle critiche dei riformisti radicali, rappresentati da Yeltsin. Imputando a Gorbačëv la responsabilità degli esiti negativi della lentezza con cui si era proceduto all’attuazione del progetto di riforma dell’URSS, Yeltsin, nella sua qualità di Presidente della Russia (divenuta Repubblica indipendente dotata dello status di “Stato successore dell’URSS”), lo ha costretto a dimettersi da Presidente dell’Unione Sovietica. Il 25 dicembre del 1991 Gorbačëv ha conferito tutti poteri al Presidente della Repubblica Russa, Boris Yeltsin; il giorno dopo il Soviet Supremo dell’URSS ha dichiarato formalmente dissolta l’Unione Sovietica.
A partire dal 1992, ha avuto inizio un processo di transizione della Comunità degli Stati Indipendenti (costituita solo dalle ex Repubbliche sovietiche che non avevano scelto l’indipendenza) verso l’economia di mercato. Si è trattato di un processo tragico che, essendosi svolto fuori da ogni forma di controllo democratico (o, se si vuole, pubblico), ha consentito che la privatizzazione delle risorse economiche del Paese fosse attuata attraverso pratiche fraudolente e da una ridistribuzione iniqua della ricchezza accumulata nei precedenti settant’anni, grazie a un regime che aveva praticato, sin quasi alla fine dei suoi giorni, la legalità rivoluzionaria ai danni della società civile. Questa, dopo le inaudite sofferenze patite per via delle politica economica privilegiata dal vecchio regime, ha dovuto subire, durante il processo di privatizzazione, l’onta d’essere esclusa dal controllo della ripartizione di quanto aveva concorso ad accumulare spesso in condizioni schiavili.
Dal punto di vista istituzionale, il processo della fuoriuscita dal capitalismo di Stato di stampo sovietico ha attraversato due fasi: la prima si è svolta nel periodo di tempo compreso tra il 1991 e il 1999, ed è stata dominata dalla politica di Boris Yeltsin; la seconda, tra il 2000 e il 2017, è quella inaugurata da Vladimir Putin.
Nella prima fase, dopo gli eventi di forte instabilità politica che hanno portato alla vittoria di Yeltsin su Gorbačëv e alla dichiarazione formale della dissoluzione dell’URSS, la nuova Russia ha vissuto un rinnovamento istituzionale, avvalendosi di un potere esecutivo al quale è sempre mancata una sicura maggioranza parlamentare. Questa situazione, secondo Boris Makarenko (“Le istituzioni dello Stato russo: un’evoluzione controversa”, comparso nel 1918 su “La Russia post-sovietica”, curato da Giancarlo Aragona per conto dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale ed edito da Mondadori), “non solo ha rallentato il ritmo delle riforme, ma ha anche colpito in modo negativo la qualità dell’amministrazione e ha comportato l’incapacità di garantire l’ordine pubblico”; ad ogni buon conto, malgrado le difficoltà interne, tutte di natura prevalentemente politica, il nuovo sistema istituzionale russo ha potuto emergere e consolidarsi, riuscendo a sopravvivere a ogni tipo di “crash test”.
La seconda fase del rinnovamento istituzionale è stata dominata dall’iniziativa politica di Putin; questi, in qualità di nuovo Presidente della Russia, ha realizzato, nei primi due mandati (2000-2008), la rimozione della forte contrapposizione tra fautori e oppositori delle riforme, riuscendo a conseguire contemporaneamente una centralizzazione e una concentrazione del potere decisionale, “piegando in modo informale regole e pratiche” ereditate dalla fase riformista del suo predecessore. Nel periodo 2008-2012, per via del limite costituzionale di due mandati consecutivi, Putin ha fatto eleggere Presidente il suo “braccio destro” Dmitrij Medvedev, per farsi poi nominare primo ministro. Si è trattato di un periodo di transizione, durante il quale il processo di revisione istituzionale è stato rallentato, giusto per consentire a Putin di ritornare, dopo il 2012, a reinsediarsi nel ruolo di Presidente della Russia.
Il periodo 2012-2017 è stato caratterizzato dalla tendenza dell’azione di governo a gestire la crisi di legittimità originata dal rallentamento delle riforme verificatosi durante la presidenza di Dmitrij Medvedev; per gestire la crisi, da una parte, Putin ha liberalizzato le regole del “gioco elettorale”, ma dall’altra ha irrigidito le regole relative alla società civile, lasciando però che rimanesse sempre latente la tensione tra spinte liberali e spinte repressive; tensione che, secondo Makarenko, è stata attenuata “dopo l’annessione della Crimea che, da un lato, è stata percepita dalla maggioranza dei russi come un’importante vittoria che ha rilanciato la popolarità di Putin [...]. Dall’altro, la gioia della vittoria è stata presto rimpiazzata dalla sensazione di trovarsi in una fortezza sotto assedio, per via dell’isolamento e delle sanzioni economiche imposte dall’Occidente”. Entrambe le sensazioni (di vittoria e di assedio) hanno provocato una spinta nazionalistica, sufficiente a garantire al regime di Putin alti livelli di consenso, nonostante la recessione economica, causata, in parte, dalle conseguenza della Grande Recessione che ha colpito tutte le economie di mercato dopo il 2007/2008, e in parte, dalle sanzioni applicate alla Russia dopo l’occupazione nel 2014 della Crimea e il perdurare dello stato di guerra nell’Ucraina orientale.
Nel complesso, quindi, dal punto di vista istituzionale, con Putin, la Russia ha raggiunto, a parere di Makarenco, una sostanziale funzionalità di tutte le sue strutture sociali e di governo, salvo la mancanza di democrazia; situazione, questa, che ha reso però la struttura istituzionale realizzata non in grado, né di garantire uno sviluppo economico e sociale condiviso, né di lasciare intravedere un auspicabile futuro.
Anche dal punto di vista economico, le due fasi temporali (1991-1999, la prima; 2000-2017, la seconda), alle quali si è accennato con riferimento al riformismo istituzionale, sono state caratterizzate da eventi radicalmente diversi: drammatici ed iniqui quelli verificatisi durante la prima fase; di ripresa e di normalizzazione della base produttiva (inserita però in un quadro di relazioni internazionali problematico), gli eventi che si sono verificati nel corso della seconda fase.
La prima fase ha visto la Russia impegnata ad intraprendere il processo di transizione al capitalismo di mercato, attraverso una “terapia d’urto”, realizzata, sotto la guida del ministro Egor Gajdar (supportato dalla consulenza di vari esperti occidentali e da quella del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo); una terapia consistente in un insieme di politiche monetarie espansive, volte a creare le condizioni necessarie alla realizzazione del processo di privatizzazione, fondata sull’uso dello strumento dei “vaucher”. Questi, distribuiti a tutti i cittadini russi, come titoli di credito trasferibili, sono stati lo strumento col quale si è inteso attribuire ad ogni cittadino la proprietà di una quota del valore capitale di tutti gli “asset” che costituivano il capitale pubblico della dissolta URSS. I voucher potevano essere utilizzati per partecipare alle aste che avevano ad oggetto la privatizzazione di imprese singole o in blocchi.
La maggioranza dei cittadini, mossa dal bisogno, ha venduto i voucher; gli acquirenti sono stati i dirigenti e gli amministratori delle imprese messe all’asta, utilizzando i fondi delle stesse imprese pubbliche delle quali erano i gestori. Coi voucher “rastrellati”, i membri della nomenclatura industriale hanno potuto così, previa costituzione di società private, acquisire la proprietà delle parti più importanti e di maggior valore del settore industriale ereditato dall’URSS.
L’altra modalità seguita, per portare avanti il processo di privatizzazione, è stata la vendita diretta ( da parte dello Stato per “ragioni di cassa”) delle imprese pubbliche a società per azioni. Il risultato è stato lo stesso di quello conseguito con la modalità delle aste: coloro che erano riusciti a fare “incetta” di voucher hanno potuto acquistare, a prezzi irrisori, intere imprese, o buone percentuali delle stesse.
Entrambe le modalità seguite nel processo di privatizzazione hanno dato luogo alla formazione di ristrette élite di oligarchi, che creeranno non poche difficoltà alla conduzione della politica della nuova Russia, contribuendo anche alla diffusione di una crescente corruzione, che sarà una delle cause per cui la privatizzazione e il passaggio all’economia di mercato hanno mancato di produrre gli effetti sperati. Questo stato di cose ha determinato, alla fine del periodo 1991-1998, una contrazione del PIL russo superiore del 50%, come affermano Sanja Borković, Mattia Romano e Peter Tabak nell’articolo “Storia economica della Russia dal 1991 a 2016” (comparso nel volume collettaneo curato da Giancarlo Aragona, precedentemente ricordato).
Alla fine degli anni Novanta, la Russia ha goduto degli esiti di un punto di svolta, sia sul piano politico, che su quello economico. Nell’agosto del 1999, Yeltsin ha nominato Vladimir Putin primo ministro della Russia e poi, alla fine dello stesso anno, dopo essersi dimesso, lo ha nominato Presidente della Federazione Russa. Putin ha confermato la sua posizione di Presidente nelle elezioni del 2004, cui ha fatto seguito la sua continuità al vertice della politica russa (dopo le elezioni presidenziali del 2008 di Dmitrij Medvedev) con la nomina a Primo Ministro, diventando di nuovo Presidente della Federazione alle elezioni presidenziali del 2012, e con un’alta probabilità d’essere riconfermato alla prossima tornata elettorale del 2018.
Insediatosi al potere, durante il suo primo mandato Putin si è concentrato principalmente sulla politica interna, ridimensionando il ruolo degli oligarchi, nati nell’era Yeltsin. Con lui, la Russia, che negli anni Novanta aveva subito gli esiti negativi delle modalità con cui si era svolto il processo di privatizzazione degli “asset” industriali di proprietà pubblica, si è di nuovo orientata positivamente verso la presenza dello Stato nella gestione dell’economia, senza però, per questo, restaurare la prassi del regime comunista. In questo modo, la Federazione russa, tra il 2000 e il 2008, ha goduto di una fase di ripresa dell’economia, grazie ad una politica economica fondata sulla svalutazione del rublo, al flusso crescente di investimenti diretti esteri seguito alla svalutazione e, soprattutto, all’aumento dei prezzi del petrolio e del gas.
Tuttavia, quando l’economia russa sembrava essersi inserita in un processo continuo di crescita, nel 2008, è crollato il prezzo del petrolio, con una conseguente caduta della domanda mondiale di risorse energetiche. La crisi La seguita che ne è seguita è valsa a dimostrare, affermano – Sanja Borković, Mattia Romano e Peter Tabak – “che i punti deboli della Russia non sono cambiati dagli anni Novanta. Nonostante la rapida crescita economica e l’aumento della domanda interna, la forte dipendenza dalle esportazioni di materie prime è rimasta costante”. Malgrado una ripresa dell’economia russa, registrata nel 2010-2012, sempre per effetto di una tendenza al rialzo del prezzo delle risorse energetiche, nel 2013 la crescita ha subito una nuova decelerazione, che è ulteriormente aumentata nel 2014, per via della crisi ucraina e “delle sanzioni occidentali nei confronti delle principali società russe”, nonché dell’incertezza, della durata e della portata futura delle sanzioni.
In conclusione, la struttura istituzionale ed economica della Russia ha subito una radicale trasformazione, dopo il crollo dell’URSS e la privatizzazione del suo patrimonio produttivo pubblico, raggiungendo, nell’arco di un decennio, un assetto istituzionale ed economico sufficientemente stabile, tale da determinare l’inversione della tendenza al ribasso delle condizioni economiche. Tuttavia, questo miglioramento non è stato sufficiente ad evitare gli esiti della recessione sopraggiunta a partire dal 2014, a causa dalle sanzioni occidentali inflitte alla Russia dopo la crisi ucraina, ma soprattutto perché la ripresa economica degli anni precedenti era basata su una forte dipendenza dalle esportazioni di materie prime.
In tal modo, malgrado il superamento del capitalismo di Stato del regime comunista, al quale era stato imputato il ritardo sulla via della crescita e dello sviluppo dell’URSS, anche il regime post-comunista, nonostante la parziale liberalizzazione occorsa a livello politico, istituzionale ed economico, ha continuato a presentare il difetto di sempre: ovvero, l’incapacità di operare una diversificazione della propria base produttiva. L’origine di tale incapacità è forse uno dei lasciti più negativi ereditati dal vecchio sistema sovietico, che per settant’anni aveva privilegiato lo sviluppo di un sistema industriale-militare, a scapito di ogni altra alternativa. E’ questo un problema che la nuova Russia deve risolvere, decidendosi a trovare un nuovo e più funzionale equilibrio tra economia privata ed economia pubblica, supportato però da una struttura istituzionale più rispettosa delle regole di una democrazia matura e del mercato, riguardo alle quali la politica verticistica di Putin è rimasta chiusa, se non ostile.
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* Anche su Mondo operaio.