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Che il 2017 sia l’anno della democrazia diretta e della riaffermazione (e pratica dell’obbiettivo) del primato del «lavoro libero, creativo, partecipativo e solidale»
Riprendiamo integrale l’editoriale di Raffaele Lupoli sul primo numero di Left del 6 gennaio 2017, di cui condividiamo ispirazione e proposte per il nuovo anno e oltre.
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Che il 2017 sia l’anno della democrazia diretta
di Raffele Lupoli, Left 6 gennaio 2017
L’anno è cominciato e noi ci rimettiamo al lavoro. Noi tutti intendo. Abbiamo chiuso il 2016 con un No importante, a una riforma della Costituzione che avrebbe consegnato definitivamente all’oligarchia (così l’ha definita Eugenio Scalfari nell’ergersi a suo difensore) il governo del Paese. Adesso dobbiamo mettere in campo tutti i Sì che, come abbiamo annunciato, erano dietro quel No. I primi, se la Consulta ce lo consentirà l’11 gennaio, saranno quelli ai referendum abrogativi su voucher, articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e sul ripristino della responsabilità dell’azienda appaltante, oltre a quella che prende l’appalto, in caso di violazione dei diritti dei lavoratori.
Dobbiamo poi difendere i Sì che abbiamo pronunciato con la mobilitazione del referendum sull’acqua pubblica del 2011. Siamo all’assurdo: la volontà espressa dal popolo scade come una bottiglia di latte. Il tempo è passato e qualche governante (si badi, non il Parlamento) può mettere in campo, assieme a un manipolo di Ceo, il progetto di tre, quattro macro-regioni in cui suddividere la torta della gestione privata puntando a controllare direttamente le sorgenti, come raccontiamo nel Primo piano. Questo si chiama gioco sporco, tradimento della volontà popolare. E purtroppo non lo abbiamo visto in pratica soltanto con l’acqua. Anche se poi, quando arriva il populista di turno a buttare a mare la democrazia rappresentativa con tutta l’acqua sporca, gridiamo allo scandalo.
C’è modo di incunearsi nel dualismo casta-populisti? Il modo è innestare elementi di democrazia diretta, sempre di più e sempre più efficaci, per ridare protagonismo ai cittadini e – perché no – ridimensionare la sfrontatezza di chi aggira i controlli democratici, decide nell’ombra, silenzia e reprime il conflitto. Eppure, se esercitato nelle forme democratiche, il conflitto è esso stesso democrazia, è il sale di una convivenza civile “funzionante”. Dai referendum svizzeri, al bilancio partecipato nato a Porto Alegre, fino alle assemblee divise per tavoli e coordinate da facilitatori che a Bruxelles hanno fatto raccomandazioni sulle grandi questioni. Gli esempi sono tanti, e concreti.
Resta da affrontare una questione ineludibile: nell’era della post-verità e delle disuguaglianze, della precarietà e della solitudine è sempre più difficile essere cittadini formati e informati, in grado di animare e alimentare i processi partecipativi. Per questo il nostro 2017 dovrà essere l’anno della democrazia diretta e allo stesso tempo, ancora una volta, quello della giustizia sociale. Non resta che rimboccarci le maniche e augurarci buon lavoro.
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Left è in edicola dal 7 gennaio con questo e molto altro.
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Potremo raggiungere un futuro degno dei nostri giovani solo scommettendo su una vera inclusione: quella che dà il lavoro dignitoso, libero, creativo, partecipativo e solidale
Papa Francesco
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E’ online Rocca n. 2/2017
LAVORO
In difesa dei diritti
di Fiorella Farinelli, su Rocca n.2/2017
Nello stesso anno non si possono svolgere elezioni politiche e referendum. Così, se dovessero esserci elezioni anticipate entro il 2017, il referendum su Jobs Act e dintorni promosso dalla Cgil slitterebbe inevitabilmente al 2018. Tutt’altro governo forse, e forse tutt’altro clima politico. Nel Pd sono in molti a sperarci, anche se la faccia per dirlo apertamente l’ha avuta finora solo quell’acerrimo nemico del politically correct che è il ministro Poletti.
due referendum sul lavoro
C’é probabilmente dell’imbarazzo nel dover riconoscere che se ai tempi del renzismo trionfante la proposta della Cgil poteva essere derubricata – nonostante i 3.300.000 di firme raccolte – a un quasi patetico tentativo di sfuggire all’angolo buio dell’irrilevanza, oggi la sola idea di un replay del voto del 4 dicembre fa rizzare i capelli in testa.
Non che non sia noto, ovviamente, che i referendum sul lavoro solitamente non superano la difficile prova del voto interclassista – chi non ricorda la secca sconfitta sulla scala mobile del 1984? – ma l’esito di quello sulla Costituzione dice che nel Paese il vento è cambiato. E che il popolo sovrano potrebbe di nuovo, anche al di là del merito dei quesiti referendari, mandare tutto a carte quarantotto. Il merito, del resto, questa volta lo capiscono tutti. Si tratta di difendere il lavoro. Che da anni non cresce abbastanza e che, quando c’è è sempre più spesso straprecario, sottopagato, spogliato di tanti dei diritti di una volta. Non a caso a votare No, il 4 dicembre, sono stati soprattutto i giovani che faticano a trovarlo, i disoccupati, i precari. L’antica fame di occupazione della gente del Sud. Contro il governo. Contro Matteo Renzi. Contro l’ipocrisia di chi dice che tutto sta andando per il meglio. Pericolose raffiche di populismo, come in Francia, Regno Unito, Usa? Anche questo, certo, ma a contrassegnarle, non solo in Italia, c’è un profondo e insistente disagio sociale, un impasto di frustrazioni e difficoltà reali, la rabbia per le diseguaglianze, la desertificazione dei luoghi delle identità collettive. E nel mondo politico circola la paura di rimettere troppo presto in mano agli elettori un’altra scheda referendaria.
aspettando la decisione della Corte
Alla fine di dicembre, comunque, il referendum della Cgil non è ancora certo. Superato il 9 dicembre il vaglio della Cassazione, resta infatti da superare l’esame di legittimità da parte della Corte Costituzionale, fissato per l’11 gennaio. Esame dall’esito non proprio scontato, sostengono alcuni costituzionalisti, perché il profilo abrogativo del referendum sarebbe viziato, nel quesito sull’articolo 18 che propone di reintrodurre il reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento giudicato illegittimo, dalla prospettiva di estenderlo anche alle imprese con meno di 15 e più di 5 dipendenti. Demolendo così lo storico steccato che fin dallo Statuto dei Lavoratori del 1970 differenzia le imprese in quelle sopra e quelle sotto i 15 addetti, e aggiungendo quindi all’abrogazione di uno dei punti del Jobs Act un’innovazione tutt’altro che trascurabile.
Nessun dubbio di legittimità dovrebbe essere sollevato, invece, sugli altri due quesiti. Uno finalizzato all’abrogazione del dispositivo dei voucher, nati nel 2003 ma poi modificati ripetutamente fino alla smodata liberalizzazione che porta la doppia firma Renzi-Poletti. L’altro a ripristinare la responsabilità dell’azienda appaltatrice, oltre a quella che vince l’appalto, nei casi di violazione dei diritti dei lavoratori. Si saprà tra breve come andrà a finire, se il testo Cgil uscirà completamente indenne dall’esame della Corte o se perderà per strada qualche pezzo. E poi anche se, per disinnescare la mina del referendum o almeno annacquarne la portata politica, il parlamento riuscirà prima del voto a modificare in qualche aspetto significativo le norme di cui viene chiesta l’abrogazione.
il problema voucher
Per quel che riguarda i voucher, la strada sembrerebbe, se non spianata, almeno aperta. Tra le voci autorevoli sono parecchie, infatti, a dichiararsi favorevoli a ritocchi. Lo dice a chiare lettere, per esempio, Maurizio Del Conte, uno dei consulenti più stretti di Matteo Renzi che lo ha nominato presidente della neonata Anpal, l’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro. «Sui voucher ci sono stati abusi – ammette in un’intervista al Corriere della Sera del 27 dicembre – è necessaria una stretta subito». Una stretta che a suo dire dovrebbe non suonare come una sconfessione del Jobs Act ma solo correggerne gli eccessi, recuperando l’ispirazione originaria del dispositivo – che risale al 2003 – con cui si voleva solo far emergere dal nero alcune tipologie di «lavoretti», dalle ripetizioni scolastiche degli insegnanti ai piccoli servizi domestici di infermeria o di baby sitting. Non che sia semplice una «non sconfessione» circoscritta a impedire gli abusi dal momento che è proprio a seguito della decisione del Jobs Act che i voucher, estesi anche a settori assolutamente impropri come l’edilizia, l’agricoltura, la grande distribuzione e consentiti fino a un guadagno di 7.000 Euro l’anno, vengono largamente utilizzati al posto di contratti più stabili, e in sempre più perverse combinazioni tra regolare e nero. Fino ai vistosi eccessi del Comune di Napoli, che ha previsto l’utilizzo dei voucher invece che di contratti a tempo determinato per i suoi lavori di manutenzione edilizia.
Gli abusi, insomma, non nascono dal niente, o solo dal vecchio vizio italico di aggirare le regole. Sono i numeri a dirlo, con le vecchie regole i voucher acquistati dai datori di lavoro erano mezzo milione l’anno, nel 2016 saranno 160 milioni. Uno sviluppo abnorme, un passo avanti gigantesco nella precarizzazione e frantumazione del lavoro dipendente. Lo si sapeva che le cose sarebbero andate così, il governo e i parlamentari conoscevano le preoccupazioni e le denunce dei «non allineati» – i malfamati «gufi» – ma l’arroganza anche in quella circostanza come in altre ebbe la meglio. Ed è un fatto che oggi, a far rientrare dalla finestra un refolo di buon senso, si è rivelata indispensabile la strada – in verità irrituale per un sindacato che dovrebbe vivere piuttosto di vertenze e di contrattazione – del referendum. I cui risultati però, nel clima attuale, potrebbero finire con l’essere cannibalizzati, proprio come quelli del referendum sulla Costituzione, dal movimento dei Cinque Stelle. È anche lo schema del gioco, da bipolare a tripolare, che in questa fase sta radicalmente cambiando. E non è cosa da poco, per la politica ma anche per il sindacato. Vedremo.
gli altri problemi del mondo del lavoro
I problemi del lavoro in Italia, del resto, non nascono e non si esauriscono né col Jobs Act né coi quesiti referendari della Cgil. Non solo perché entrambi riguardano il solo lavoro dipendente mentre si moltiplicano ormai da tempo, e in modo palesemente irreversibile, diverse tipologie di prestazioni lavorative (partite Iva, e non solo), ma perché problemi e talora soluzioni stanno seguendo anche altre strade. Lo si è visto nei tardivi ripensamenti del governo Renzi che, rendendosi forse conto dei rischi di una strategia di annichilimento dei corpi intermedi in uno schema di gioco in cui a centrosinistra e centrodestra si è aggiunto il terzo incomodo dei grillini, ha nell’ultima fase riacciuffato i fili del confronto con le organizzazioni sindacali approdando alle intese sul pubblico impiego e sulle pensioni. Lo si vede anche nella nomina a ministro dell’istruzione, da parte di Paolo Gentiloni, dell’ex sindacalista Cgil Valeria Fedeli, col compito specifico di recuperare consenso sulla travagliatissima e discutibile «Buona Scuola» ricostruendo un quadro di normali e fisiologiche relazioni sindacali con cui ritoccare il ritoccabile.
un compromesso ragionevole
Ma il mondo del lavoro non viene solo coinvolto da grandi e piccole manovre di significato prevalentemente tattico. La prova di una vitalità autentica e autonoma, fatta di una buona consapevolezza da entrambe le parti, quelle imprenditoriali e quelle sindacali, dei problemi attuali e futuri del lavoro manifatturiero, si è profilata molto chiaramente nel recente accordo per il rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici. Un comparto produttivo che vive tutti i problemi della crisi, e di un lavoro trasformato nella sua qualità ma anche minacciato nella sua quantità dall’uso massiccio delle nuove tecnologie.
Lo rivelano, come sempre, i numeri. L’ultimo contratto nazionale, firmato nel 2012, vedeva 300mila occupati e 1⁄4 di produzione in più di quello firmato nelle scorse settimane. Non solo, la trattativa è iniziata con la provocatoria proposta delle imprese di farsi restituire da ogni addetto i 73 euro previsti dal precedente contratto a copertura di un’inflazione che poi non c’è stata. Eppure le organizzazioni sindacali ce l’hanno fatta, con l’energia degli scioperi, l’intelligenza di una contrattazione costruttiva, e finalmente anche la capacità di fare unità dopo le tante divisioni del passato. E il risultato è per più versi innovativo, 92 euro di aumento medio pro capite, comprensivo sia di un welfare sanitario integrativo sia di benefits flessibili da contrattare a livello aziendale, dagli asili nido ai libri scolastici. E poi anche il diritto soggettivo a 24 ore di formazione continua in aggiunta alle vecchie 150 ore per il diritto allo studio. La riapertura, infine, del capitolo dell’inquadramento aziendale, mai più ritoccato dai remoti anni Settanta e quindi ormai largamente inadatto a recepire le trasformazioni dei profili e delle figure professionali di una fabbrica non più fordista.
investire sulla propria qualità professionale
Non è abbastanza, ovviamente, per l’ala più barricadiera del sindacato, ma si tratta comunque di un compromesso ragionevole e lungimirante considerati i costi di accesso al sistema sanitario nazionale, il peso sui salari delle tariffe, il fatto che le risorse stanziate nel welfare aziendale vanno interamente in tasca ai lavoratori a differenza di quelle, tartassate dal fisco, che finiscono in salario diretto. Se le imprese non possono reggere senza investimenti massicci in tecnologia, per i lavoratori non c’è possibilità di reggere all’innovazione tecnologica che «mangia» il lavoro se non investendo nella propria qualità professionale. Un contratto pragmatico, comunque, e anche aperto al futuro. Di ottimismo e di pragmatismo c’è in verità un grandissimo bisogno nell’Italia di oggi. Ed è un piccolo segnale, ma indubbiamente ottimo, che tutto ciò venga, questa volta, da uno dei comparti più tradizionali del mondo del lavoro.
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Fiorella Farinelli su Rocca n. 02-2017