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Spostando il muro più in là
Da un po’ di tempo le indagini e gli scritti sulla diseguaglianza si sono concentrati sulla fascia altissima della popolazione, quella che è stata battezzata del «top 1%»: il centesimo più alto della scala della ricchezza, le cui fortune sono cresciute esponenzialmente negli anni prima della crisi per poi sopravvivere – e riprendere allegramente – dopo la grande recessione degli anni Dieci.
Un altro «1 per cento» spunta se si leggono le statistiche su altri movimenti, non del denaro ma degli umani. 65 milioni di persone vivono forzatamente fuori dalla propria terra di origine: tra loro, ci sono i rifugiati e richiedenti asilo (24 milioni), ma anche gli sfollati interni (41 milioni), coloro che non hanno attraversato le frontiere ma si sono dovuti spostare in un’altra zona del proprio Paese.
l’altro 1%
In un Rapporto intitolato appunto «Forcibly displaced», l’Unhcr sottolinea che si tratta dell’1% della popolazione del mondo; possiamo vederli come specularmente opposti all’1% dei ricchissimi, che risiedono in tutt’altra parte del mondo. Infatti – si legge nello stesso Rapporto – la stragrande maggioranza di rifugiati e sfollati è ospitata nei Paesi che una volta avremmo definito «Terzo mondo», i Paesi in via di sviluppo del Sud globale. Per la precisione, i Paesi in via di sviluppo ospitano l’89% dei rifugiati e il 99% degli sfollati interni.
Il «bottom 1%», la fascia più sfortunata e disperata della popolazione mondiale, trova rifugio per la grandissima parte tra i suoi simili, in Paesi a reddito basso o bassissimo, spesso senza infrastrutture né risorse naturali, e con istituzioni statuali molto deboli. È un trend storico che si è man mano affermato, e le inedite vicende del 2015 e 2016, con l’eccezionale afflusso in Europa di persone in fuga dalle guerre di Siria e Iraq, non hanno spostato che in minima parte le dimensioni del fenomeno: però questa minima parte, essendo piombata su di noi, ossia in quella parte del mondo dove vive e prospera l’1% ricchissimo, ha generato uno strano effetto ottico per cui, se oggi si va a chiedere in giro dove si pensa che fuggano i disperati del mondo, ci sarà risposto che vengono tutti qui, in Europa o negli Stati Uniti o in Canada. Invece non è così.
Tornando ai numeri dell’Unhcr – che è l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati – si vede che del problema rifugiati si fanno carico soprattutto i Paesi più vicini alla zona dove è esplosa la crisi che li ha costretti a fuggire. L’arrivo dei profughi è spesso, per questi Paesi, un vero e proprio choc demografico, che ha anche un impatto economico notevole, sia in termini di costi che di nuova domanda e attività lavorative. Nella lista dei primi dieci Stati ospitanti al mondo, c’è un solo Paese ricco – la Germania, dopo l’eccezionale arrivo dei profughi siriani – con circa mezzo milione di rifugiati (dati a metà 2016): ma Berlino è al penultimo posto, in una classifica che vede in testa la Turchia, con quasi 2,8 milioni di rifugiati, seguita da Pakistan, Libano, Iran, Etiopia, Giordania, Kenya, Uganda. Al nono posto, appunto la Germania e infine il Ciad.
Ma se guardiano, invece che al numero assoluto dei rifugiati, al loro peso sulla popolazione, la classifica cambia completamente: al primo posto il Libano, con 173 rifugiati ogni 1000 abitanti. Segue la Giordania, con 89 rifugiati per 1000 abitanti, lo staterello finto dell’isola di Nauru, nell’Oceania, diventato una prigione per profughi (50 per 1000), poi la Turchia (35 per 1000), il Ciad, il Sud Sudan, la Svezia, Gibuti, Malta e la Mauritania.
e noi?
L’Italia, con meno di 150mila rifugiati a metà 2016 – che, come hanno calcolato su Cartadiroma.org, potrebbero riempire solo metà del Circo Massimo, oppure due stadi come l’Olimpico e San Siro – ha un rapporto con la popolazione del 2,4 per mille. Parliamo di coloro che hanno ottenuto asilo, quelli che sono tutelati prima di tutto dalla nostra Costituzione e dalla Convenzione di Ginevra del 1951.
Poi ci sono i richiedenti asilo, che aspettano anni in un limbo pericoloso e limaccioso; e tutti gli altri, chi si sposta per fuggire a povertà, carestia, disastri ambientali, o anche «solo» per migliorare la pro- pria vita. Tutti costoro si confondono, nei numeri degli sbarchi e dei morti nel Me- diterraneo. E la loro confusione è un alibi per il rifiuto indiscriminato: vorremmo accogliere chi fugge dalla guerra, si sente dire spesso, ma non i rifugiati «falsi», i migranti economici. Ma nel dire questo si dimenticano due fatti. Il primo è che la crescita dell’immigrazione in Italia – siamo adesso a 5 milioni di stranieri residenti, l’8,3% del totale della popolazione – è stata quasi completamente fatta da migranti economici, che dunque adesso fanno un pezzo della nostra economia, del nostro lavoro e welfare, e del nostro sistema previdenziale (nella voce delle entrate, come ha ricordato Boeri).
Il secondo, più recente, è che noi stessi siamo migranti economici: adesso, non nell’epoca dei bastimenti e di Marcinelle. Nel 2016 hanno lasciato l’Italia per trasferirsi in altri Paesi 157.000 persone, 115.000 delle quali di nazionalità italiana: cosa sono, se non migranti economici, i nostri concittadini che vanno a fare gli ingegneri a Zurigo, i pizzaioli a Londra, i ricercatori a Parigi? Se è giusto chiudere la porta ai migranti economici, fa bene anche Teresa May a sbatterla in faccia ai ragazzi italiani in cerca di fortuna.
il rifiuto fatto legge
Con questo non vogliamo dire che non esista differenza tra rifugiati, richiedenti asilo e migranti «semplici»; ma che proprio le differenze tra i vari status, le diverse condizioni e aspirazioni, dovrebbero portarci a politiche specifiche. Invece adesso sono accomunati da un’unica legge: il rifiuto.
Non c’è modo per entrare legalmente in Europa, né per chi cerca asilo né per chi cerca lavoro. E la mancanza di varchi legali e ufficiali – come corridoi umanitari, o chiamate per lavoro, o persino i ricongiungimenti familiari che quasi tutti i Paesi stanno inasprendo – ha alimentato quel mercato unico e nero del trasporto clandestino che a parole si dice di voler combattere.
Con l’estate del 2017, però, una svolta c’è stata. Si sono ridotti gli sbarchi in Italia, sia a luglio che ad agosto; e sul finire del mese più caldo quattro capi di governo di un’Europa stanca, insicura e litigiosa su tutto hanno trovato un grande accordo e armonia di intenti, nello spostare la propria frontiera a Sud, nel meridione della Libia, in Ciad, in Niger, in Mali: incaricando i Paesi titolari di quei confini di contenere i flussi migratori. Macron, Gentiloni, Merkel e Rajoy, i leader del nucleo forte dell’Europa, gli eredi dei padri fondatori, hanno concordato nel vertice di Parigi l’outsorcing dei rifugiati e degli immigrati, sperando così di allontanare il malcontento, le tensioni, le paure.
Non è una novità: è stato questo il «modello Merkel», dato che, dopo aver dato una grande prova di maturità e solidarietà con le porte aperte ai rifugiati siriani che si erano messi in fila sulla rotta balcanica, la Germania ha chiuso le frontiere ricacciando i profughi in Turchia, e pagando fior di quattrini (e riconoscimenti) a quel governo per tenerseli. Sarà questo, in contesti istituzionali ben più problematici di quello turco – che già di per sé qualche problema lo pone, per il rispetto della democrazia e dei diritti umani – il modello della nuova frontiera d’Europa, della cintura di sicurezza africana. Già sperimentato nei mesi di luglio e agosto, con le sue crudeltà: ma i reportage sulle condizioni inumane dei campi di «accoglienza» in Libia, così come le notizie sui metodi delle brigate paramilitari che hanno tenuto a bada i migranti nella regione di Sabratha, non hanno la stessa diffusione delle micronotizie che, da una parte all’altra dell’Italia, testimoniano le difficoltà e i problemi quotidiani della presenza degli stra- nieri ma allo stesso tempo li montano e li esasperano.
il nuovo modello europeo
Spogliandoci per un attimo dalla nostra prospettiva eurocentrica ed egocentrica, dovremmo però ragionare sugli effetti del nuovo modello europeo, quello che sposta il muro più in là. Interrogarci sulla sua efficacia: la chiusura della rotta balcanica dopo l’accordo turco ha riaperto quella libico-siciliana, e a catena la chiusura di quest’ultima sta riaprendo quella spagnola; ma riusciremo mai a controllare tutto, in mare e in terra?
Sarebbe bene indagare sulle rischiosissime condizioni istituzionali e politiche: quali poteri, partiti, fazioni e tribù stiamo sostenendo? In sé, come ci dicono i numeri citati all’inizio di questo articolo, lasciare i Paesi più poveri e istituzionalmente fragili a gestirsi da soli il problema delle persone rifugiate, sfollate e migranti non è un fatto nuovo. La novità è la benedizione ufficiale dell’Europa democratica, ricca e illuminista su questa realtà. Ma anche ammesso che dentro i nuovi centri di raccolta-detenzione davvero si faccia una trasparente valutazione su chi ha diritto a chiedere asilo, e a questi si dia un biglietto per l’Europa (ipotesi che, nelle condizioni date, pare lontanissima dalla realtà), dobbiamo chiederci: e tutti gli altri? Saranno assistiti dall’Unhcr, rimandati indietro con la forza, rimarranno a vegetare in enormi campi che, come già in tante parti dell’Africa, sono venuti a creare delle città di fatto, senza storia e senza futuro?
Roberta Carlini
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MIGRAZIONI
spostando
il muro più in là
Roberta Carlini su Rocca n. 18/2017