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RITORNANO I PASTORI

mps-1_2di Francesco Casula
Ritornano i pastori. Con gli attivisti del combattivo Movimento Pastori Sardi. Protestano contro la politica agricola della Regione sarda. “In due anni abbiamo perso più del 50% del nostro reddito – spiega Roberto Congia, uno dei dirigenti del MPS –, stiamo pagando errori fatti da altri, che hanno generato una crisi del mercato lattiero caseario che viene scaricato interamente sulle nostre spalle. A questo si aggiunge anche il dramma della siccità. Oltre ai danni subiti non abbiamo ancora certezza sugli indennizzi”.
Difficile non essere d’accordo. E ancor più difficile non solidarizzare con loro. Sposando in toto la loro lotta e la loro causa. Che è e deve essere di tutti i Sardi.
Il pastore infatti non è solo una delle una delle tante figure sociali e la pastorizia non è solo un comparto economico: le sue produzioni certo costituiscono ancora un nucleo fondamentale del nostro prodotto interno lordo, ma il mondo pastorale in Sardegna ha prodotto ben altro che latte, formaggi, carne e lana: ha dato luogo al pastoralismo e ai codici e valori che esso sottende e che in buona sostanza costituiscono il nerbo della civiltà e dell’intera cultura sarda.
Per intanto però occorre sottolineare che la pastorizia, come comparto economico, nonostante crisi e difficoltà, nella storia ha sempre retto e i pastori, ancora oggi, non sono una sorta di tribù sopravvissuta alla storia (Ignazio Delogu). Nonostante i reiterati tentativi storici di interrarli, liquidandoli insieme alla loro cultura etnica resistenziale.
“Uno dei tentativi più brutali fu rappresentato dagli Editti delle Chiudende che – scrive il compianto Eliseo Spiga, in La Sardità come utopia-Note di un cospiratore – irruppero sulle comunità, implacabili come un castigo di dio. In un ciclonico turbinio di inaudite illegalità, sopraffazioni e violenze, di persecuzioni, assassini, carcerazioni e torture… furono chiusi migliaia di ettari dei migliori terreni privati e comunali, pascoli e seminativi, case, ovili e orti familiari, strade e ponti, abbeveratoi e fonti pubbliche”.
I più danneggiati furono i pastori, abituati a pascolare le greggi in vasti spazi aperti e comuni ed ora costretti a pagare il fitto – spesso erosissimo – ai nuovi proprietari usurpatori: pastori che furono rovinosamente battuti e vinti. Ma non convinti, aggiungerebbe il nostro più grande poeta etnico, Cicitu Masala.
Un altro momento e snodo storico di attacco violento soprattutto alle condizioni di vita e di lavoro dei pastori fu rappresentato dalla guerra doganale dello Stato italiano con la Francia, culminata con la rottura dei Trattati doganali nel 1887. L’economia sarda fu colpita a morte. Fino a quel momento la spedizione verso i mercati francesi di alcuni fondamentali prodotti dell’economia sarda aveva, se non scongiurato, almeno contribuito ad allontanare la crisi che gli spiriti più consapevoli paventavano. Dopo i fatti del 1887 l’agro-pastorizia dell’Isola, privata d’un colpo dei suoi mercati tradizionali, precipitò al fondo di un baratro senza precedenti, costringendo i pastori a dipendere ancor di più dai proprietari dei pascoli, i printzipales, e dagli industriali caseari continentali ma soprattutto romani.
Lo denuncia e lo ricorda Gramsci in un articolo del 1919 sull’Avanti, fortemente critico nei confronti della politica italiana postunitaria, dal titolo inequivocabile: ”Gli spogliatori di cadaveri”, Una categoria di questi, che irrompono in Sardegna alla fine dell’800, dopo la rottura dei trattati doganali con la Francia, sono gli industriali caseari. I signori Castelli – scrive Gramsci – vengono dal Lazio nel 1890, molti altri li seguono arrivando dal Napoletano e dalla Toscana. Il meccanismo dello sfruttamento (“ed è un lascito della borghesia peninsulare non più rimosso”) è semplice: al pastore che deve fare i conti con gli affitti del pascolo e con l’esattore, l’industriale concede i soldi per l’affitto in cambio di una quantità di latte il cui prezzo a litro è fissato vessatoriamente dallo stesso industriale. Il prezzo del formaggio cresce ma va ai caseari e ai proprietari del pascolo. Non a chi lo produce.
Antonio Simon Mossa, il grande teorico dell’indipendentismo moderno sardo li chiama feudatari del latte, che si comportano da veri e propri strozzini, imponendo solo loro il prezzo. Tanto che uno degli obiettivi del neonato Partito sardo d’azione nel 1921 sarà proprio la battaglia contro sos meres continentales de su latte e la creazione di cooperative di pastori, per gestire loro, in prima persona, il prodotto del proprio lavoro.
Mutatis mutandis, non si sta ripetendo lo stesso meccanismo denunciato da Gramsci?
E la Regione Autonoma (?) della Sardegna che fa? Cosa aspetta Pigliaru e la sua Giunta? Che i pastori vengano annientati? Ma si rendono conto della posta in gioco?
Senza la pastorizia la Sardegna si ridurrebbe a forma di ciambella: con uno smisurato centro abbandonato, spopolato e desertificato: senza più uno stelo d’erba. Con le comunità di paese, spogliate di tutto, in morienza. Di contro, con le coste sovrappopolate e ancor più inquinate e devastate dal cemento e dal traffico. Con i sardi ridotti a lavapiatti e camerieri. Con i giovani senza avvenire e senza progetti. Senza più un orizzonte né un destino comune. Senza sapere dove andare né chi siamo. Girando in un tondo senza un centro: come pecore matte.
Una Sardegna ancor più colonizzata e dipendente. Una Sardegna degli speculatori, dei predoni e degli avventurieri economici e finanziari di mezzo mondo, di ogni risma e zenia. Buona solo per ricchi e annoiati vacanzieri, magari da dilettare e divertire con qualche ballo sardo e bimborimbò da parte di qualche “riserva indiana”, peraltro in via di sparizione.
Si ridurrebbe a un territorio anonimo: senza storia e senza radici, senza cultura, e senza lingua. Disincarnata e sradicata. Ancor più globalizzata e omologata. Senza identità. Senza popolo. Senza più alcun codice genetico e dunque organismi geneticamente modificati (OGM). Ovvero con individui apolidi. Cloroformizzati e conformisti.
Una Sardegna uniforme. In cui a prevalere sarebbe l’odiosa, omogenea unicità mondiale: come l’aveva chiamata David Herbert Lawrence in Mare e Sardegna.
Si avvererebbe la profezia annunciata da Eliseo Spiga, che nel suo potente e suggestivo romanzo Capezzoli di pietra scrive: “Ormai il mondo era uno. Il mondo degli incubi di Caligola. Un’idea. Una legge. Una lingua. Un’eresia abrasa. Un’umanità indistinta. Una coscienza frollata. Un nuragico bruciato. Un barbaricino atrofizzato. Un’atmosfera lattea. Una natura atterrita. Un paesaggio spianato. Una luce fredda. Villaggi campagne altipiani livellati ai miti e agli umori di cosmopolis”.
Sarebbe un etnocidio: una sciagura e una disfatta etno-culturale e civile, prima ancora che economica e sociale.
Apocalittico e catastrofista? Vorrei sperarlo.
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