Tag Archives: Remo Siza RdC aladin aladinews aladinpensiero

ReI più che RdC

4b4f540d-43f2-4a88-96fa-4be064daf582Il reddito di cittadinanza: molti limiti e qualche opportunità
Remo Siza | 14 Gennaio 2019 su
welforum-it-logo
Due sistemi di intervento?
La recente istituzione del Reddito di cittadinanza e le maggiori risorse previste per il finanziamento di una misura nazionale di contrasto delle povertà potrebbe per certi versi superare i limiti e le difficoltà attuative che ha incontrato il ReI. Il decreto istitutivo presenta, però, ancora incertezze organizzative non secondarie che attenuano significativamente la sua capacità innovativa, criticità dei soggetti ai quali è affidato l’attuazione delle disposizioni, semplificazioni gravi nel rappresentare la condizione di povertà e le sue esigenze di welfare.
Il decreto intende superare l’impianto organizzativo del ReI che affidava principalmente alla rete territoriale dei servizi sociali la regia della presa in carico, il compito di costituire il punto di accesso alle prestazioni, la valutazione delle esigenze del nucleo familiare, la predisposizione del progetto personalizzato.
Il reddito di cittadinanza attribuisce un ruolo cruciale ai Centri per l’impiego e alla loro capacità di orientamento, di formazione, di sollecitazione dei comportamenti più appropriati. Ai Centri per l’impiego dovranno far riferimento le persone capaci di inserirsi nel mercato del lavoro lasciando alla rete dei servizi sociali locali le persone non immediatamente occupabili, con problematiche sociali e di salute più estese e severe.

Le risorse disponibili, l’ampliamento della platea dei beneficiari e la previsione di un patto personalizzato sottoscritto e condiviso dal beneficiario sono fatti positivi e possono rappresentare una opportunità importante per la costruzione di una misura nazionale di contrasto della povertà. Allo stesso tempo, ci auguriamo che il dibattito parlamentare sia un’occasione per approfondire alcuni aspetti e apportare le integrazioni e le modifiche che ci sembrano necessarie per superare le non secondarie criticità.

In primo luogo, solleva molti dubbi la decisione di creare due sistemi d’intervento (i Centri per l’impiego, la rete dei servizi sociali locali). Il provvedimento non precisa in modo adeguato i soggetti che dovranno certificare la distinzione tra le due forme di povertà – quelle occupabili, quelle che necessitano di intensivi interventi sociali – sebbene costituisca uno snodo centrale per capire se saranno assicurati interventi appropriati ad entrambi i gruppi sociali: la specializzazione dei due sistemi in molte regioni italiane richiede tempo e risorse finanziarie e professionali adeguate. La rete dei servizi sociali può diventare il luogo in cui si riversano, o si rimpallano, le persone maggiormente problematiche o un’area accogliente di assistenzialismo per le persone non disponibili a occupare posti di lavoro molto distanti dalla propria residenza. Se la valutazione non è condotta con la dovuta perizia e professionalità, sulla base di criteri ben definiti, i rischi di discrezionalità, discriminazione e esclusione sono molto elevati.

Più in generale, queste disposizioni rischiano di introdurre una nuova dualizzazione nel sistema degli interventi. In Italia, storicamente la dualizzazione ha riguardato principalmente la protezione dalla perdita del lavoro e ha prodotto una differenziazione delle protezioni di sicurezza sociale assicurata agli insiders – i dipendenti pubblici, i lavoratori delle grandi imprese ed alcuni settori dell’industria – e agli outsiders – gli occupati in piccole imprese, nel settore edile, nel commercio, una parte considerevole dei lavoratori autonomi – che ricevono misure di sostegno molto basse in caso di disoccupazione.
Il rischio è che il provvedimento piuttosto che superare le inique dualizzazioni esistenti ne riproponga di nuove in un altro ambito di welfare costituendo due sistemi di contrasto delle povertà, orientati da principi molto differenti e livelli di cura e promozione sociale non comparabili. Il primo sistema che gestirà la parte più rilevante dei richiedenti il reddito di cittadinanza, è prevalentemente costituito dalla rete dei servizi sociali locali. In molte aree territoriali prive di personale e adeguati finanziamenti questa rete rischia di configurarsi in termini assistenzialistici penalizzando per molti aspetti le povertà più severe: l’erogazione di sussidi economici accompagnati da progetti di inserimento molto deboli rischiano di diventare la pratica più diffusa.

La ricerca Istat sulla spesa sociale ci dice che i Comuni dispongono per tutti i servizi sociali appena di 7 miliardi: nel 2016 solo il 7,6 per cento di questa spesa è destinata al contrasto della povertà. Cambiare le priorità e gli obiettivi per indirizzarli in maggior misura verso l’inclusione sociale delle persone in condizione di povertà significa, sostanzialmente, sacrificare gli impegni di spesa a favore di altri gruppi sociali (Ranci Ortigosa 2018). Considerate le risorse disponibili, il rischio è che per le persone in condizione di povertà più severa non si costruiscano percorsi di inclusione sociale efficaci.
Accanto a queste aree di povertà persistente si sviluppano povertà ancora più intense, proprie di chi è senza dimora. Le Linee di indirizzo per il contrasto della grave emarginazione adulta in Italia (Ministero del lavoro e delle politiche sociali 2015), rilevano che i servizi fanno fatica a progettare interventi capaci di farsi carico delle persone senza dimora e troppo spesso l’approccio che governa l’azione diventa di natura emergenziale. Il decreto non destina al finanziamento di interventi per queste persone in condizione estrema di povertà nuove risorse e non rimanda a successivi provvedimenti la definizione di interventi adeguati.

Fra assistenzialismo e tendenze punitive
Il provvedimento ondeggia tra l’assistenzialismo di alcune disposizioni e la rigidità di altre, in particolare, il sistema di sanzioni e revoche, la possibilità di segnalare attraverso piattaforme dedicate anomalie nei consumi e nei comportamenti, le regole stringenti sull’uso del contante. L’impostazione generale che orienta il provvedimento nel suo complesso indirizza l’attività dei Centri per l’impiego, prevalentemente, verso un welfare condizionale che lega i diritti delle persone ad un comportamento responsabile: l’accesso a molti servizi pubblici dipende dal comportamento individuale, dal senso di responsabilità del beneficiario, da comportamenti non moralmente riprovevoli. La responsabilizzazione non è più un obiettivo della relazione di cura, ma diventa un requisito di accesso alla misura.
Quale sia il destino delle persone che non sono in grado di lavorare a causa di comportamenti irregolari e alle quali è stato revocato il sostegno economico andrebbe in qualche modo definito. Naturalmente tutte queste norme si espongono ad un’attuazione molto rigida e punitiva oppure molto discrezionale, lasciando ai beneficiari ampi spazi per evitare sanzioni e revoche.

L’applicazione del principio di condizionalità a quasi tutti gli ambiti delle politiche sociali è un elemento centrale nel cambiamento del welfare in molti nazioni europee. In molti ambiti d’intervento, per cambiare il comportamento dei beneficiari è ritenuto sufficiente introdurre severe sanzioni e penalità nell’erogazione dei benefici e nelle relazioni di cura. L’adozione del principio di condizionalità è diventata una prassi scontata, come se ci fossero delle consistenti e indiscutibili evidenze scientifiche che la supportano. In realtà, molte ricerche hanno evidenziato il contrario. Una ricerca della Joseph Rowntree Foundation ha rilevato il divario crescente tra la retorica politica e le evidenze sugli effetti positivi delle sanzioni (Griggs e Evans, 2010). Altre ricerche (Watts et al. 2018; 2014) hanno mostrato che le evidenze scientifiche sugli effetti positivi delle sanzioni sono contraddittori e molto limitati in termini metodologici; soprattutto non giustificano la grande espansione delle sanzioni dal 2007 a questi ultimi anni. Il sistema di sanzioni rischia di promuovere piuttosto che la crescita delle persone, distacchi e allontanamenti dalle relazioni di aiuto delle persone che presentano maggiori difficoltà e che persistono nell’assumere comportamenti riprovevoli, o non superano condizioni di dipendenza.

Le disposizioni del decreto istitutivo del reddito di cittadinanza riprendono con naturalità questi orientamenti introducendo, almeno in termini formali, una condizionalità significativa, prevedendo sanzioni molto severe, sospensioni e decadenze dai benefici previsti per chi non rispetta accordi e prescrizioni. A dire il vero, il reddito di cittadinanza per definizione non dovrebbe prevedere alcuna discrezionalità: il “citizen’s basic income” oppure “basic income” è definito dal Basic Income Earth Network come un reddito monetario, erogato a intervalli regolari (per esempio, mensili), su base individuale senza alcuna verifica di requisiti e incondizionale in quanto non è richiesta la disponibilità a lavorare o altro impegno. In tutte le nazioni che lo hanno sperimentato, seppure in ambiti locali (Finlandia, Olanda, Germania) si chiama così solo questa specifica forma di sostegno economico ben distinta dalle ben più diffuse esperienze di reddito minimo basate su vincolanti requisiti di accesso. Il fatto che anche in questa occasione l’Italia si presenti un po’ confusa nelle definizioni normative non sembra una preoccupazione condivisa.

Il sostegno economico e il progetto personalizzato
Il decreto e il dibattito che ha accompagnato la sua definizione hanno enfatizzato la centralità e l’efficacia del sostegno economico nel contrasto delle povertà, creando aspettative che probabilmente sarà difficile soddisfare con continuità negli anni. Gli operatori sociali sanno da tempo che per alcune condizioni di povertà l’erogazione di un beneficio economico non è un intervento appropriato: un disturbo mentale, una dipendenza grave da sostanze da abuso, l’impossibilità a produrre un reddito di una madre sola con figli minori possono essere affrontate efficacemente con altre misure di welfare che assegnano all’intervento di sostegno al reddito un ruolo meno centrale e riconoscono, invece, come snodo centrale la composizione di una pluralità di interventi in un progetto personalizzato.
L’appropriatezza di una misura di sostegno economico non è riferibile soltanto all’entità dell’ISEE o del patrimonio mobiliare e immobiliare. Essa si misura in relazione alla condizione complessa di deprivazione del nucleo familiare e alla sua corrispondenza rispetto alle complesse esigenze economiche, di salute, di relazione che esprime.

Dai benefici individuali agli interventi collettivi
Il Reddito di cittadinanza e il REI che lo ha preceduto, sono misure importanti per il contrasto delle povertà, attese da molti anni, ma sono misure non sempre efficaci. Se ci proponiamo di contrastare finalmente la povertà con misure nazionali di largo respiro e destiniamo a questo fine entità di risorse notevoli, è necessario essere consapevoli che ci sono forme e condizioni di povertà per le quali il beneficio economico e il progetto individuale non sono sufficienti. Gli operatori sociali che lavorano nelle infinite periferie delle nostre città sanno bene che le povertà più severe e con minor probabilità di superamento di questa condizione sono quelle strette tra processi di esclusione sociale e processi di integrazione sociale in quartieri degradati. Spesso queste relazioni di quartiere creano una pressione “verso il basso”, rinforzano valori e stili di vita che rendono difficile un migliore inserimento sociale: le azioni che possono aiutare le persone ad uscire dalla povertà, come l’istruzione e o il lavoro, si trovano quasi sempre al di fuori della comunità più ristretta (Siza 2018).
Gli interventi individuali di sostegno al reddito e i progetti individuali di inclusione possono costituire un supporto, ma accanto ad essi è necessario che gli operatori sociali propongano e sollecitino interventi collettivi che concentrano nelle aree più povere una pluralità di azioni, che coordinano politiche sociali e politiche del lavoro, interventi urbanistici, di tutela della salute, opportunità di istruzione, misure organiche a favore dell’infanzia.
Bibliografia in Appendice.
——————————————–
Per correlazione riprendiamo un intervento di Gianni Loy, apparso di recente nella rivista dei padri Cappuccini “Voce Serafica della Sardegna”

La povertà, Carestia di libertà
di Gianni Loy

Tra la fine degli anni 50 e gli anni 60, già esisteva la povertà, anche nella città di Cagliari. Erano elemosinanti fuori dalle chiese, o all’ingresso del mercato, o tra i tavoli del porticato di via Roma. Erano anche nelle grotte abitate del Buoncamino, o di Tuvixeddu, o nelle baraccopoli di case precarie che compensavano le macerie, ancora evidenti, dei bombardamenti del ’43. A quei tempi esisteva anche la carità cristiana: gli ospedali si reggevano grazie al lavoro gratuito delle suore ed ordini religiosi supplivano ai ritardi della scuola pubblica.

La povertà, la storia lo insegna, imponeva l’adozione di misure di aiuto, che potevano essere ispirate alla carità dei più generosi, laici o cristiani, oppure, cosa più recente e più opportuna, a politiche pubbliche di assistenza per i bisognosi. Nessuno, in ogni caso, negava l’opportunità, e per taluni il dovere morale, di aiutare i più poveri.

All’epoca esistevano anche i benpensanti. Cioè quelle persone, mosse da spirito caritatevole o ispirate da nobili principi di solidarietà, favorevoli, o almeno non contrarie, all’elemosina e all’assistenza pubblica. I ben pensanti, tuttavia, erano di larghe vedute, acuti nell’osservare i dettagli. Non sfuggiva loro che dai tetti delle povere case degli indigenti incominciavano a spuntare antenne televisive, cioè i poveri possedevano la televisione!
Non sfuggiva loro neppure il fatto che taluno dei mendicanti che ricevevano l’elemosina, piuttosto che entrare in un forno (così si chiamavano le odierne panetterie) si imbucavano in una bettola (così si chiamavano allora i drink bar) e spesso si ubbriacavano.
Tutto ciò offendeva la loro morale.

All’epoca, esisteva anche la mia educazione cristiana, germogliata nei quartieri popolari della città, consapevole di altre educazioni cristiane, per lo più riservate alla borghesia. Perché all’epoca (solo all’epoca?), come cantavano i Gufi, un gruppo milanese di cabaret: “c’è il Dio delle vecchiette e quello dell’élite … e tu ti preghi il tuo che io mi prego il mio”.

La mia educazione cristiana, a seguito di un impegnativo percorso, mi ha insegnato che la carità dev‘essere gratuita, mi ha insegnato che non ho il diritto di decidere come il destinatario della mia elemosina utilizzi l’obolo ricevuto, che non devo scandalizzarmi neppure se lo utilizza per ubbriacarsi… Una sorta di ipocrisia morale che, confondendo la povertà con la fame in senso materiale, avalla l’idea che solo i ricchi ed i benestanti possano permettersi divertimenti e vizi! Che repulsione il ricordo di quando, nello stesso collegio, i bambini e le bambine venivano etichettate, già nel vestire, per distinguere chi pagava la retta da chi non la pagava!

Che orrore abbiamo vissuto! O che viviamo?

Oggi, un’altra volta, quando si parla di reddito di cittadinanza, ecco i benpensanti di sempre, preoccuparsi di come “i poveri” dovranno spendere quelle somme. Che sia soltanto per i beni di prima necessità, che non lo utilizzino per compare un gratta e vinci o altri beni superflui. E siccome non è facile controllare come i destinatari di quegli aiuti sociali utilizzeranno quel “reddito”, ecco comparire le tessere, ghigliottine informatiche che impediranno ai “poveri” di dilapidare nei vizi o nel superfluo il generoso dono ricevuto da una società che, non essendo in grado di offrire un lavoro, avverte l’esigenza di mantenere in vita famiglie che scivolano verso la povertà. Pare che uno dei duunviri della Repubblica abbia già ordinato la stampa di 6 milioni, sì, seimilioni, di quelle tagliole informatiche, ancor prima di essere certi che il reddito di cittadinanza vedrà davvero la luce!

Ahinoi! Com’è accattivante il ragionamento perbenista che vorrebbe impedire un utilizzo “improprio” del sussidio! Com’è seducente la sirena benpensante che vorrebbe che i poveri non possano utilizzare il denaro ricevuto per alzare il gomito!

Ed invece?
Intanto chiariamo che la strada dell’assistenza è un ripiego, come non smette di ricordare a gran voce Papa Francesco. L’obiettivo principale dovrebbe essere la ricerca del lavoro, e non l’assistenza, perché solo il lavoro può garantire all’individuo quella dignità, valore laico e cristiano, che sta alla base di ogni convivenza.

In secondo luogo, come non comprendere che la povertà, prima ancora che bisogno economico, è emarginazione, esclusione, differenza. Perché mai i figli dei più poveri dovrebbero essere esclusi dal poter disporre di alcuni almeno di quegli status simbol indispensabili per poter appartenere al gruppo? Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, nell’attuale società, del pane si potrebbe persino fare a meno, ma degli strumenti di socializzazione no. Non è per caso che in alcune famiglie i genitori si tolgano, letteralmente, il pane dalla bocca perché i propri figli possano esibire quei simboli, spesso fatui, ma che permettano loro di integrarsi con i loro coetanei.

Ce lo ha ricordato, con tono accorato, Luigino Bruni su Avvenire. Ispirandosi ad Amartya Sen, ci ha ricordato che povertà “è una carestia di libertà effettiva”, cioè la mancanza delle capacità di fare e di essere, tra cui “il poter uscire in pubblico senza vergognarsi (di sé e dei giocattoli dei propri bambini)”.
Ed ha concluso che se quei 780 euri, o quello che sarà, “non diventeranno anche una maggiore libertà di comprare libri, giornali, di fare festa, un viaggio, di comprare un giocattolo, un braccialetto più carino per la fidanzata, una cena esagerata con gli amici più cari per dire che finalmente stiamo cambiando vita, e che abbiamo cominciato a sperare… quei redditi non ridurranno nessuna povertà o ne ridurranno gli aspetti meno importanti”.

Che differenza c’è tra una tessera da esibire ad ogni acquisto, per dimostrare che appartieni alla categoria degli assistiti, ai quali sono precluse tutte le spese che sappiano di svago o, peggio ancora, di possibile vizio, ed un marchio impresso in una parte del corpo che ammonisca la collettività della appartenenza razziale, religiosa, o sociale della persona? Dove sta la differenza tra passato e presente?

Mentre avverto imbarazzo e preoccupazione per queste derive, mi tornano alla mente le riflessioni di quando, da adolescente, ho maturato una diversa accezione della carità, che non è l’elemosina, ma quella virtù teologale che ci insegna ad amare il prossimo come noi stessi. Per questo, ancor oggi, ringrazio chi, tra le macerie della mia città, mi ha aiutato a crescere con tale convinzione.

« La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta » (1 Cor 13,4-7).
——————————–