Tag Archives: Referendum NO Gonario Sedda Aladinews democraziaoggi
Votiamo NO nel referendum costituzionale!
Gli slogans di Renzi: semplici, confusi e menzogneri
Per Matteo Renzi [Enews 427, 16 maggio 2016] «il referendum di ottobre sarà su argomenti molto semplici». Qualche considerazione su due di essi.
1. «Se vince il Sì diminuiscono le poltrone; se vince il no restiamo con il Parlamento più numeroso e più costoso dell’Occidente».
Certo, se vince il Sì diminuiscono le “poltrone” e se vince il NO rimane l’assetto dell’attuale Parlamento italiano. È banale, molto banale! Non siamo più in fase interlocutoria. Senza una maggioranza qualificata sulle modifiche costituzionali è prevista la possibilità di ricorrere al referendum popolare. Ma resta da dimostrare che il nostro Parlamento sia il «più numeroso e più costoso dell’Occidente».
Comunque, prima di andare avanti, noto l’uso cialtronesco della parola “poltrone” al posto di “seggi dei rappresentanti del popolo”. Al politicante dell’antipolitica Matteo Renzi sfugge che le “poltrone” che resterebbero in caso dell’auspicabile vittoria de NO sono le stesse che gli hanno permesso di manomettere la Carta in chiave di restaurazione oligarchica e con maggioranze deboli e forzate.
Torniamo ai conti. Anche con una diminuzione dei seggi il Parlamento potrebbe restare numeroso per il paese o il più numeroso dell’Occidente. Dipenderà dall’entità della diminuzione dei seggi e dai termini del confronto rispetto allo stesso paese o al resto dell’Occidente.
- Nel Regno Unito (bicameralismo debole) le “poltrone” sono 1.439 (con 650 deputati).
- In Italia (bicameralismo paritario) i parlamentari sono 945 (con 630 deputati).
- In Francia (bicameralismo differenziato) i parlamentari sono 925 (con 577 deputati).
- In Germania (bicameralismo forte su base federale) i parlamentari sono 669 (con 600 deputati).
- In Spagna (bicameralismo differenziato) i parlamentari sono 614 (con 350 deputati).
- In Austria (bicameralismo debole) i parlamentari sono 245 (con 183 deputati).
- Negli USA (bicameralismo differenziato) i parlamentari sono 535 (con 435 deputati).
Ora, a uno sguardo sbrigativo o a “volo d’uccello” (come si usa dire dalle parti di Rignano sull’Arno) e tenendo conto del peso non molto diverso della popolazione, tra Regno Unito, Italia, Francia e Germania, il “poltronificio” più virtuoso risulta quello tedesco (e tale resterebbe anche se non venisse cancellata la “giorgi-napolitanesca” riforma conservatrice a gestione renziana). Anche se nella Germania – federale e con sistema di voto proporzionale corretto – il numero dei seggi parlamentari è rimasto invariato (non è aumentato e neppure diminuito). Come dicevo sopra, invocare una generica diminuzione di “poltrone” dimostra poco o niente. La Riforma federale del 2006 ha modificato il procedimento legislativo, ma non la struttura degli organi (Bundestag e Bundesrat) né il numero dei loro componenti. Il potere di veto del Bundesrat è stato limitato con una nuova rimodulazione delle “leggi perfette” che richiedono obbligatoriamente la doppia approvazione. La Camera alta non è stata tuttavia sbeffeggiata né svuotata delle sue competenze e funzioni che sono state ridefinite, arricchite e persino aumentate.
Quando si fa qualche confronto – «il Parlamento più numeroso e più costoso dell’Occidente» – occorre individuare un criterio o un insieme di criteri che rendano giustificato e ragionevolmente decifrabile il confronto stesso. Così, assumendo come criterio la rappresentatività rispetto alla popolazione, il caso degli USA (con oltre 300 milioni di abitanti) è quello più virtuoso tra quelli considerati sopra (con un solo stato che supera gli 80 milioni di abitanti, alcuni stati più o meno sotto i 70 milioni e il resto sotto i 50) – ma ciò non vuol dire che sia “immediatamente” il più adeguato. Secondo tale criterio moltissimi parlamenti “occidentali” dovrebbero rispetto al caso USA subire una riduzione numerica fin quasi alla disfunzionalità oppure conservare più o meno lo stesso numero di componenti e restare “tutti” sovradimensionati, tutti eccessivamente numerosi. Dunque, confronti “scriteriati” fanno solo propaganda confusa.
È un’altra banalità la constatazione che se diminuisce il numero dei parlamentari (specificamente dei senatori) diminuisce anche la spesa. È la stessa banalità dell’affermazione che otto fagioli sono meno di dieci! Ma questa banalità non dimostra che senza la riforma retrograda sotto referendum il nostro parlamento resterà il più costoso dell’Occidente. Matteo Renzi non ha mai detto con sufficiente precisione quanto si risparmia in valore assoluto e quanto in percentuale sulle nostre spese totali per il Parlamento, non ha mai fatto riferimento palese alle spese per gli altri Parlamenti dell’Occidente, non ha proposto criteri per rendere confrontabili le spese nostre e altrui sulla base di aggregati omogenei, cioè non ha fatto nulla per essere in grado di affermare che il nostro è «il Parlamento … più costoso dell’Occidente».
Al nostro politicante dell’antipolitica interessa solo accreditare l’idea menzognera che tutti coloro che si oppongono alla sua riforma della Carta in chiave di restaurazione oligarchica siano contrari a una diminuzione del numero dei Parlamentari, che vogliano conservare il bicameralismo paritario e che non siano disponibili a prendere in considerazione una soluzione monocamerale neppure davanti alla sua proposta di “bicameralismo scemo”. Ad esempio, io trovo ancora troppo alto il numero totale dei parlamentari (630 deputati e 100 senatori) quale risulta dalla riforma costituzionale sotto referendum e troverei troppo alto anche il numero di 630 deputati nel caso di una soluzione monocamerale.
2. «Se vince il Sì, per fare le leggi e votare la fiducia sarà sufficiente il voto della Camera come accade in tutte le democrazie; se vince il no continueremo con il ping-pong tra i due rami del Parlamento».
Intanto occorre distinguere tra procedimento legislativo e il luogo dove nasce ed è sottoposto a verifica il rapporto fiduciario tra governo e parlamento. Il fatto che il voto di fiducia venga dato in una sola Camera (quella bassa dei deputati) o in entrambe non influisce di per sé sul procedimento legislativo, che dipende invece dal tipo di differenziazione delle due camere, dalle loro funzioni e dalle loro competenze. Dunque non è vero che, se vince il Sì, «per fare le leggi … sarà sufficiente il voto della Camera»; non è vero che ciò «accade in tutte le democrazie»; non è vero che “solo in Italia” con la vittoria del NO «continueremo con il ping-pong tra i due rami del Parlamento». Anche in Germania il ping-pong ha un peso non trascurabile e la stessa riforma renziana che pretende il Sì non lo ha eliminato prevedendo diversi procedimenti legislativi nel rapporto tra Camera e “Senato mostriciattolo”.
Per quanto riguarda gli USA basta prendere in mano un manuale di diritto costituzionale comparato per sapere che entrambe le camere del Congresso partecipano al procedimento legislativo in modo sostanzialmente paritario, essendo solamente la materia tributaria riservata all’iniziativa della camera dei rappresentanti (ma con la possibilità comunque da parte del senato di apportare emendamenti); che prima di arrivare alla firma del Presidente le leggi devono essere approvate da entrambe le camere “nell’identico testo”; che nel caso di difformità nei testi approvati nei due rami del Congresso e qualora non si arrivi a un accordo tra le due camere, si ricorre a una commissione per trovare un accordo su un testo comune. Tutto ciò nonostante che né la camera bassa né quella alta votino la fiducia all’esecutivo del Presidente.
Insomma, quello che M. Renzi vorrebbe far passare definitivamente con una sua vittoria nel referendum non accade affatto in tutte le democrazie del mondo.
——————————-
Referendum, Zagrebelsky: “Il mio No per evitare una democrazia svuotata”
di Ezio Mauro
La Repubblica 26 maggio 2016. Per l’ex presidente della Consulta Gustavo Zagrebelsky la riforma del Senato sommata all’Italicum “realizza il sogno di ogni oligarchia: umiliare la politica a favore delle tecnocrazie”
Professor Zagrebelsky, dunque più che a un referendum saremmo davanti a un golpe, come sostiene il fronte del “no” alla riforma che lei guida insieme a altri dieci ex presidenti della Consulta, e a molti costituzionalisti? Non lo avete mai sostenuto nemmeno davanti agli abusi di potere di Berlusconi e alle sue leggi ad personam: cos’è successo?
“Nel “fronte del no” convergono preoccupazioni diverse, come è naturale. Vorrei però che si lasciassero da parte le parole a effetto. L’atmosfera è già troppo surriscaldata. Contesto la parola golpe, non l’allarme. Come si fa a non vedere che il potere va concentrandosi e allontanandosi dai cittadini comuni? Non basta per preoccuparsi?”.
Sono qui per sentire lei, e aiutare i lettori a capire. Dove vede questo disegno di esproprio del potere?
“Non penso a una “Spectre“, per intenderci. Vedo un progressivo svuotamento della democrazia a vantaggio di ristrette oligarchie. Per ora le forme della democrazia reggono, ma si svuotano. Si parla di post-democrazia e, se subentra l’autoritarismo, di “democratura“. Ripeto: non c’è da preoccuparsi?”.
Tutto questo per il referendum sulla riforma del Senato?
“Il Senato è un dettaglio, o un’esca. Meglio se lo avessero abolito del tutto. È all’insieme che bisogna guardare. Rispetto ai mali che tutti denunciamo (rappresentanti che non rappresentano, partiti asfittici e verticistici e, dall’altro lato, cittadini esclusi e impotenti) che significa la riforma costituzionale unita a quella elettorale? A me pare di vedere il sogno di ogni oligarchia: l’umiliazione della politica a favore di un misto di interessi che trovano i loro equilibri non nei Parlamenti, ma nelle tecnocrazie burocratiche. La conseguenza è che viviamo in un continuo presente. Il motto è “non ci sono alternative“, e così il pensiero è messo fuori gioco”.
Lei ha avuto responsabilità istituzionali, è stato presidente della Consulta: non ha mai sollevato questo allarme coi vertici dello Stato?
“Con “i vertici” ho poche occasioni d’incontro. Ma ne ricordo uno, al Quirinale col presidente Napolitano. Gli parlai dell’alternativa che si prospetta sempre, quando le condizioni sociali si fanno strette e il malessere aumenta, tra chiusure autoritarie e aperture democratiche: o la ricerca di nuove strade o l’insistenza su quelle vecchie che pesano sui gruppi sociali più deboli”.
Ad esempio?
“Pensi al modo abituale di tirare avanti esponendosi ai creditori. Il debitore finisce per cadere totalmente nelle loro mani. Nel diritto antico potevi finire schiavo. Oggi puoi essere spogliato. Si canta vittoria quando la finanza internazionale rifinanzia il debito pubblico e non si vede il nodo del cappio che si stringe. Eppure c’è l’esempio della Grecia che parla chiaro. Lo stato sociale è allo stremo e si sono chiesti in garanzia spiagge, isole e porti, se non anche il Partenone”.
Io sono più preoccupato per questi problemi che per la riforma del Senato: il welfare state, quella che abbiamo chiamato l’economia sociale di mercato, la democrazia del lavoro fanno parte della civiltà europea, non le pare?
“Anche per me questa è la vera posta in gioco. Guardi però che tutto nel nostro discorso si tiene, dal welfare al referendum. Sennò non si capirebbe, di fronte all’enormità dei problemi che abbiamo, tanto accanimento nei confronti del povero Senato. Il “sì” spianerebbe una strada; il “no” farebbe resistenza”.
Insomma, dalla crisi si può uscire con meno o più democrazia?
“Sì. La prima strada porta alla rottura dei vincoli sociali, diciamo pure alla distruzione della società, condannando i più deboli all’impotenza e all’irrilevanza. La seconda passa per un grande discorso democratico, franco, sincero, che non nasconda le difficoltà e chiami tutti a uno sforzo di responsabilità, ciascuno secondo le proprie possibilità, mobilitando le energie civili del Paese e recuperando sovranità”.
Anche lei pensa che l’Europa sia un nemico, come dicono ogni giorno gli opposti populismi?
“Per nulla. Ma l’Europa è una scelta, non un guinzaglio. L’articolo 11 della Costituzione prevede la possibilità che l’Italia limiti la sua sovranità a favore di organismi internazionali, ma a condizione che ciò serva alla pace e alla giustizia tra le Nazioni. Che cosa vuol dire? Che non è un’abdicazione incondizionata alla finanza, entità immateriale con conseguenze molto concrete, ma una partecipazione consapevole e paritaria a istituzioni democratiche sovranazionali. L’Europa dovrebbe significare più, non meno democrazia”.
Sta dicendo che l’Europa è un destino democratico da scegliere ogni giorno, non un vincolo di cui si smarrisce la legittimità?
“È l’opposto della semplificazione brutale dei nazionalisti. Anzi, un recupero dello spirito di Ventotene, un “plebiscito d’ogni giorno” dei popoli, non dei mercati. Invece si è pensato che unendo i mercati la politica avrebbe seguito. Ma gli interessi economici spesso sono ostili alla politica, e la riducono a intendenza. Speriamo che non sia troppo tardi”.
Ma secondo lei la politica accetta consapevolmente questa diminuzione di ruolo e di peso, o decide il rapporto di forza?
“C’è un pensiero unico in campo, tra l’altro responsabile della crisi. Perfino un riformista come Keynes è considerato un eretico. La politica, dicevo, si è ridotta a una dimensione puramente esecutiva, con interventi tampone, incapace di un pensiero autonomo e prospettico. L’implosione è sempre in agguato”.
Professore, non è troppo pessimista?
“Non parlerei di pessimismo, ma di prudenza, una virtù che nel governo delle società non è mai troppa. A parte tutto, la riforma è scritta malissimo, illeggibile, talora incomprensibile”.
Sta facendo un problema di forma?
“Di sostanza, prego, perché una costituzione democratica ha innanzitutto l’obbligo della chiarezza. Il linguaggio dei riformatori rivela due difetti: semplificazione e radicalità, brutalità e ingenuità”.
Si può essere brutali e ingenui al tempo stesso?
“Certo. Prenda lo slogan: la sera delle elezioni si saprà chi ha vinto. Non le sembra che riveli una mentalità al tempo stesso sbrigativa e ingenua? In quel giorno ci saranno vincitori e vinti e vae victis!“.
Ma lo slogan non indica anche un rimedio alla palude, all’eterna tentazione del consociativismo?
“A patto di non considerare la vittoria come un’unzione sacra che permette di insultare chi non è d’accordo: sindacati, professori, magistrati, pubblici amministratori, con l’idea che siano avversari da spegnere. Un governante saggio non dovrebbe crearsi il nemico perché, appena le cose incominceranno ad andare male, sarà chiamato a pagare un conto salato”.
Ma nel Paese dell’eterno democristiano, non è meglio un legame diretto tra il voto e il governo?
“Perché “diretto” sarebbe “non democristiano“? A me pare che proprio l’idea del vincitore e dello sconfitto alimenti una vocazione tipica da noi: il timore d’essere lasciati nel campo della sconfitta. Così, c’è stata e c’è una vocazione potente a salire sul carro del vincitore. E questa non è forse la forma peggiore del consociativismo, addirittura preventiva?”.
Lei teme l’abuso del vincitore?
“Si è parlato della Costituzione vigente come il frutto ormai superato della “paura del tiranno“. Il tiranno, nel senso del fascismo, oggi non c’è più. Ma il vento che tira in Europa e nel mondo non ci rende avvertiti di altri, nuovi pericoli? Tanto più che le istituzioni che saranno sottoposte a referendum varranno per il futuro e non sappiamo chi potrà avvalersene”.
Ma ci sono costituzionalisti, come il professor Cassese, che non vedono nella riforma un rafforzamento dell’esecutivo: è così?
“Nessuno può essere certo delle sue previsioni, ma il gioco combinato della “velocità” nella politica e dell’elezione come investitura trasformerà chi vince in arbitro indiscusso del sistema. Già ora il Capo del governo è anche Capo del suo partito, e la minoranza interna è schiacciata sotto il ricatto permanente del voto anticipato”.
Anche De Mita per un breve periodo fu segretario della Dc e capo del governo: perché nessuno lo paragonò a un tiranno?
“Semplice: perché c’erano i partiti e una legge elettorale proporzionale con le preferenze. Oggi i partiti sono dei monoliti, col solo compito di sostenere il Capo. E, di nuovo, tutto si tiene: con la legge elettorale vigente in Parlamento siederanno i fedelissimi”.
Lei ritiene Renzi capace di tutto questo?
“Non voglio personalizzare. Tra l’altro oggi c’è Renzi, domani può venire chiunque. I governi passano, le istituzioni restano”.
Ma la società non vuole un superamento del bicameralismo perfetto?
“Lo voglio anch’io, ma non in questo modo. Ridurre procedure e costi è positivo. Ma tutto ciò non va cavalcato in termini antiparlamentari, perché saremmo all’antipolitica. Di un parlamento vitale si ha sempre bisogno. Anzi avremmo bisogno che rappresentasse il meglio del Paese, come si diceva una volta: ridotto nel numero e più competente”.
Le ricordano sempre che Ingrao si schierò a favore di una sola Camera: cosa risponde?
“L’idea di Ingrao era la “centralità del Parlamento“. Voleva una Camera sola per promuovere la politica in Parlamento, non per umiliarli entrambi”.
E’ questa la vera ragione del suo “no”?
“E’ fondamentalmente questa, unita a ragioni specifiche. Il Senato è ridotto, ma non abolito. Il bicameralismo rimane per una serie di materie che possono innescare seri conflitti. È previsto che siano risolti dalla trattativa tra i due presidenti. Ma è lecito patteggiare sul rispetto delle regole? Le incongruenze tecniche sono molte. Non invidio chi dovrà scrivere la nuova legge elettorale del Senato. Non si capisce da chi saranno scelti i nuovi senatori: se sono “designati” dagli elettori non possono essere “eletti” dai Consigli regionali. Sa cosa le dico? Non mi dispiace non insegnare più il diritto costituzionale il prossimo anno, perché non saprei come spiegare ai miei studenti non una materia, ma un guazzabuglio”.
Più facile spiegare la fiducia al governo da parte di una sola Camera, non crede?
“Questo è giusto, e utile. Non sono affatto contrario a un governo che governi. Ma dentro un sistema che respiri democraticamente a pieni polmoni”.
Dal governo non può venire niente di buono?
“Perché? Sono buone le unioni civili, l’autonomia dai vescovi, la prudenza sulla Libia, il rifiuto della politica del “a casa nostra” verso i migranti. Vede che non ho pregiudizi? Ma non mi piace che una discussione sulla Costituzione si trasformi in un plebiscito sul governo. La Costituzione non è a favore né contro qualcuno, non si vince in questa materia e non si perde. Nessuno si gioca tutto sulla Carta, tutti ci giochiamo qualcosa e forse molto”.
Professore, non l’ho mai sentita richiamare i grillini, come fa con il Pd, ad una responsabilità comune sul destino del sistema: come mai?
“Potrei dirle che l’antipolitica è figlia della cattiva politica. Ma è giunta l’ora che i Cinque Stelle si emancipino dalle idee elitistiche e accettino la logica parlamentare. La vera arte politica sta nel creare le condizioni dello stare insieme. Il che non vuol dire rinunciare alle proprie ragioni, ma cercare di diffonderle oltre i propri confini. Dire questo non significa nostalgia del vecchio ordine, ma desiderio di buona politica”.
A proposito di vecchio, cosa risponde a chi usa questo termine come un insulto contro di voi?
“Anche noi siamo stati giovani, senza averne merito, e anche loro diventeranno vecchi, senza colpe per questo. Ma, non era la destra che polemizzava coi vecchi?”.
Sì, ricorda gli attacchi a Spadolini, Rita Levi Montalcini sbeffeggiata in Senato: dunque?
“C’è traccia di futurismo nella rottamazione. I giovani hanno sempre ragione, i vecchi devono tacere. Sono battute, dice qualcuno. Ma vede: così si smarrisce il sentimento del passaggio generazionale, la trasmissione dell’esperienza. Si vuole rompere la tradizione in nome di un presunto Anno Zero. Certo, l’eccesso di tradizione spegne. Ma tagliare ogni radice per il peso della memoria espone al vento. Vivi nell’oggi e improvvisa”.
————————
Martedì 31 maggio, alle ore 10.30 Conferenza Stampa del Comitato di Cagliari per il NO nel Referendum costituzionale, presso la saletta-stampa del Consiglio regionale della Sardegna, in via Roma, Cagliari.