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QualEuropa?
EUROPA:
pilastro sociale e difesa comune
di Roberta Carlini, su Rocca
Una strana Europa, quella che si affaccia alle cronache in questo autunno del 2017. C’è il Paese leader, la Germania, additata da sempre come modello di stabilità granitica, sia economica che politica, che pur avendo votato da più di due mesi è ancora senza governo, avvitata in trattative che la rendono simile all’Italia più che al modello che da ogni parte viene invocato. Ci sono lettere che partono da Bruxelles, o che fanno notizia ancor prima di partire, come quella che chiede all’Italia un maggior rigore sui conti pubblici, a futura memoria e dettatura di un programma di politica economica del governo che sarà – le cui trattative, con tutta probabilità, dureranno ancor più di quelle dei partiti tedeschi. C’è l’accelerazione sulla difesa comune, con un patto di cooperazione strutturata permanente firmato da ventitre Paesi su ventisette. E la firma di altri solenni principi, messi nero su bianco nel nuovo «Pilastro» sull’Europa sociale: come se quell’aggettivo «sociale», al fianco del nome Europa che pure quel modello ha battezzato, necessitasse di un nuovo impegno, dimenticato com’è dopo il doppio passaggio di Maastricht e della grande crisi.
l’onda lunga dello choc di Trump
C’erano i ministri della Difesa e degli Esteri di ventitre Paesi, il giorno della firma del trattato di «cooperazione strutturata permanente» sulla Difesa (Pesco), a Bruxelles. Mancavano i ministri di Portogallo e Irlanda, che firmeranno a dicembre; mancavano, e mancheranno, i governi di Danimarca e di Malta; e manca ovviamente la Gran Bretagna: che, con la sua uscita dalla Ue, ha dato una spinta allo stesso processo di rafforzamento in tema di difesa. È stata infatti proprio l’onda lunga destabilizzante che è partita dall’elezione di Trump, con il suo motto «America first» e il suo ondivago disimpegno dagli affari europei; è proseguita poi con il voto della Brexit, facendo venir meno l’anello di congiunzione tra la potenza economica europea e il suo alleato atlantico. L’effetto geo-politico è evidente: nelle crisi locali – geograficamente definite, ma potenziali fonti di instabilità globale, come quella ucraina – l’Europa dovrà sempre più vedersela da sola, essere capace di una voce comune e non contare solo sulle decisioni e sugli armamenti statunitensi. Anche se ci vorrà del tempo, dato che la firma della Pesco ha solo iniziato un processo lungo, la direzione è chiara: rafforzare quel che l’isolazionismo americano e la defezione inglese hanno indebolito.
L’onda d’urto è stata tanto forte da portare i governi europei a riuscire in un passo che era stato tentato – con un fallimento – l’ultima volta sessant’anni fa, e mai più poi ripreso. Ma può il «nano politico» europeo parlare ora una sola voce, nelle crisi regionali e globali?
In realtà la politica di cooperazione sulla difesa è ancora ben lontana dal punto di arrivo e gli interessi nazionali, nella politica estera, predominano. Lo si è visto bene, guardando a due vicende che ci hanno coinvolto dolorosamente, con la crisi diplomatica con l’Egitto seguita all’omicidio Regeni e con la gestione della vicenda libica: in entrambi i casi, l’Italia è stata lasciata sola e la Francia si è messa sulla corsia di sorpasso, ad approfittare della situazione e decidere per suo conto. Niente garantisce che in futuro non sarà così. L’accordo sulla Difesa, come spesso succede nelle vicende europee, parte dall’economia sperando di arrivare alla politica. Lo dice il «Reflection paper» presentato a giugno dall’Alto rappresentante Federica Mogherini, che ha aperto la strada all’accordo di novembre: la spesa europea per armamenti è troppo frazionata e presenta numerosi sprechi. Questo perché ogni Paese sviluppa il suo sistema, con duplicazioni, difficoltà di coordinamento, sistemi d’arma che non si parlano. L’Unione europea, dice il documento, spende attualmente per la Difesa 227 miliardi di euro, ossia l’1,34% del proprio Pil; mentre gli Stati Uniti spendono più del doppio: 545 miliardi di euro, ossia il 3,3% del loro Pil. Ma negli Usa ci sono 30 sistemi d’arma, nella frazionata Europa se ne contano ben 178. Un ostacolo alla integrazione, uno spreco di economie di scala, un «costo-opportunità», recita il Reflection paper.
Lo stesso si può dire per moltissimi aspetti della vita pubblica e dell’economia europee, a cominciare da quello dei sistemi fiscali, la cui concorrenza reciproca apre grandi possibilità per chi vuole evadere ed eludere le tasse – come lo scandalo dei Paradise Papers, negli stessi giorni, si incaricava di mostrare.
Ma sulla difesa si è scelto di intervenire, e con urgenza: ci sono soldi, contratti, linee di produzione; quello delle armi resta l’unico campo nel quale una politica industriale – necessariamente comune – e un interventismo pubblico sono elogiati e non disprezzati, con l’ideologia che ha guidato l’Unione messa temporaneamente da parte in nome di interessi superiori: «se l’Europa vuole competere nel mondo, avrà bisogno di mettere in comune e integrare le proprie migliori capacità tecnologiche e industriali», si legge nel documento. Obiettivi e parole più legate al mondo dell’economia che a quello della geopolitca: è vero che le due cose inevitabilmente vanno insieme, ma è anche vero che, in assenza di strutture istituzionali che portino democraticamente a una politica comune, il rischio è che sia solo il business a trainare le decisioni. Oltre allo sviluppo dei sistemi d’armamento comuni, il nuovo patto prevede che l’Europa parli con una voce unica anche nelle «operazioni esterne», con gli interventi nelle aree di crisi.
un pilastro traballante
Molta minore attenzione ha ricevuto, nello stesso periodo, un’altra notizia proveniente dalle istituzioni europee. Anche questa definita, dai protagonisti «di portata storica». Nel vertice di Goteborg del 17 novembre è stato approvato dai capi di governo il «Pilastro sociale» dell’Unione, ossia un programma in venti punti per rafforzare l’Europa sociale. I venti punti fanno riferimento a tre grandi aree, che sono «pari opportunità e accesso al mercato del lavoro» (si va dall’istruzione alla parità di genere al sostegno attivo all’occupazione), «condizioni di lavoro eque» (dove si ribadisce il binomio flessibilità più sicurezza, si parla di salario minimo, di partecipazione dei lavoratori, di ambiente di lavoro, di conciliazione tra lavoro e famiglia), di «protezione sociale e inclusione» (reddito garantito, assistenza sanitaria per tutti, alloggi, accesso ai servizi essenziali…). «Non è una poesia, ma un programma politico», ha detto il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker presentandolo.
L’enfasi è tutta politica: di fronte alla crescente protesta o disaffezione per l’unificazione europea, si cerca di correre ai ripari tornando ai principi istitutivi del welfare europeo, che sono purtroppo lettera morta in molti Stati, o perché non ci sono mai arrivati – come molti Paesi del Sud –, o perché sono stati messi in discussione dalla crisi fiscale e da quella economica. Ma che credibilità ha un’Unione che ribadisce questi principi, anche adeguandoli alle novità dei tempi come l’innovazione tecnologica e la parità di genere, ma non ha né dà strumenti per attuarli? In mancanza di un bilancio e di un governo comuni, la costruzione del «pilastro sociale» è lasciata agli ingegneri dei singoli Stati, che ben poco potranno fare se la stessa Unione con una mano dà – o meglio, scrive – diritti, con l’altra li toglie per mancanza di fondi e per le politiche di austerità. Ma almeno da domani, o da dopodomani, i governi che vogliono cambiare strada avranno un principio, anche giuridico, al quale appellarsi.
Roberta Carlini
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—————-documentazione———————–
Proposta di proclamazione interistituzionale sul pilastro europeo dei diritti sociali
(…) testo della proclamazione interistituzionale sul pilastro europeo dei diritti sociali approvato dal Coreper il 20 ottobre in vista della sessione del Consiglio (EPSCO) del 23 ottobre 2017.
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- L’accordo del 17 novembre 2017.
- Il LIBRO BIANCO SUL FUTURO DELL’EUROPA.
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———-Per correlazione———–
La governance unitaria dell’area euro pilastro della crescita inclusiva dell’Unione Europea
1 dicembre 2017
[Gianfranco Sabattini su il manifesto sardo]
Dopo le celebrazioni dei sessant’anni dell’UE, celebrate a Roma nel marzo scorso, è stato rilanciato l’antico tema dell’Europa a più velocità, presentato ora nella forma di “pluralità di cooperazioni rafforzate”, o di “integrazione differenziata”. Queste formule, ancora più che nel passato, sono proposte oggi al fine di favorire la convergenza dei sistemi economici dei Paesi membri, considerata strumentale rispetto alla ripresa del processo di unificazione politica dell’Europa. (segue)