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Quale lavoro?
Il 5 e 6 ottobre si terrà a Cagliari un Convegno dal titolo “Lavorare meno, Lavorare meglio, Lavorare tutti: il Lavoro fondamento della nostra democrazia”, promosso dal Comitato d’Iniziativa Sociale, Costituzionale e Statutaria. Aladinews in accordo con il Comitato è impegnato a sostenere l’organizzazione del Convegno, soprattutto attraverso la diffusione di materiali prodotti dagli stessi esponenti del Comitato o comunque da esperti o protagonisti delle iniziative di lavoro o, infine, ripreso con opportuna selezione dalla rete. Quello che segue è un articolo pertinente di Rosella De Leonibus, tratto dalla rivista Rocca della Pro Civitate Christiana di Assisi, che ringraziamo per la consueta disponibilità collaborativa.
Rosella De Leonibus, su Rocca.
Labor, in latino fatica, pena, sforzo, è la radice. Viene dal verbo labare, vacillare sotto un peso. Così dovevano apparire gli schiavi, schiacciati dai pesi che trasportavano, agli uomini liberi che intanto discettavano di politica e filosofia nel foro. Dal latino deriva direttamente, oltre che l’italiano «lavoro», anche l’inglese labour, mentre in Francia il lavoro si chiama travail e, così come in Spagna il trabajo, sembrerebbe connettersi ad una area di significato più creativa, attraverso il richiamo al travaglio di parto. Altre fonti invece collegano più crudamente il travail e il trabajo al tripalium, che invece era un antico strumento di tortura composto da tre pali. Travagghiari ancora oggi in Sicilia connota il lavoro faticoso e duro delle braccia e della schiena piegata. Quindi (F. Avallone, Psicologia del lavoro, Carocci, Roma 1998) il significato primitivo e arcaico del lavoro evidenzia fatica, sforzo, peso, fino al limite della costrizione (la corvée) e della tortura (i lavori forzati). Gli uomini «liberi» non lavoravano, era questione riservata a servi e schiavi, il lavoro.
Le altre, quelle che oggi chiamiamo professioni (libere), erano considerate appunto arti, liberali, contrapposte ai mestieri, più plebei.
da pena a diritto
Da allora, con l’avvento della società borghese e dell’industrializzazione, la pena del dover lavorare è diventata un diritto, e da elemento di disagio necessario per le classi subalterne il lavoro è diventato desiderio, investimento, creatività, fino all’affermazione di Sigmund Freud, che lega amore e lavoro nell’attribuire loro un ruolo centrale nella vita umana, e poi li utilizza come indicatori di benessere psichico e segnali di una avvenuta evoluzione verso l’adultità. Si arriva anche ad una idea di lavoro come nobilitante per l’umano, come attività capace di sacralizzare la vita, connessa all’idea di sacrificio e di slancio ideale, come dovere e come virtù, come contributo al progresso della nazione o al benessere delle generazioni future.
Oppure come merce, forza-lavoro generica e astratta da offrire sul mercato, in cambio di un salario. Tuttora, in molte parti del pianeta, è anche alienazione, pratica deumanizzante, riedizione in forma nascosta di antiche schiavitù. Essenza fondamentale dell’essere umano, il lavoro è anche, in senso ampio, l’attività attraverso la quale si diventa coscienti di sé e della propria intenzionalità, capace di creare il mondo e soddisfare anche bisogni di ordine superiore. È campo di esercizio dei diritti e del riconoscimento della soggettività civile. Qualcuno ne ha decretato l’imminente fine, e preconizza l’indebolimento dell’ideologia del lavoro come valore in sé. Altri, come il sociologo Domenico De Masi, ipotizzano una rivoluzione silenziosa dove il lavoro sia sganciato dal salario e venga offerto gratuitamente, al massimo in cambio di altri servizi o beni, con l’ipotesi di scalzare alla radice quell’economia mercantile che ha mercificato il lavoro e con esso gli umani che lo svolgono.
Oggi è l’aspirazione di tanti, più o meno raggiungile, è il sogno di una autonomia a lungo rinviata, la promessa di una soggettività piena, il completamento di una identità sociale che potrà finalmente non essere più monca e svolgersi finalmente anche sotto il profilo dell’integrazione sociale. È una sintesi dinamica, il significato connesso al lavoro, e lascia vedere in filigrana i modelli culturali, i valori, le norme sociali del contesto in cui si colloca. Perché condensa dentro il suo campo semantico sia le determinanti storiche e culturali che quelle bio-psico-sociali. Si definisce in rapporto alla natura, che ne viene trasformata (dall’homo sapiens che scheggia la prima pietra per farne un utensile, all’homo faber che determina il proprio destino), e agisce come struttura portante delle relazioni sociali.
Nello stesso tempo il lavoro è una attivazione, un movimento che ha un esito nella produzione di un bene o di un servizio, ed è un modo per esprimere le risorse personali di chi lo svolge, sia sul piano concreto del corpo che su quello immateriale dell’intelletto e delle emozioni. Attiva cambiamento, nell’ambiente e nella materia che dal lavoro viene trasformata, ma anche nella persona di chi lo compie, che affina le sue capacità, ed infine è un campo specifico di esperienza relazionale e sociale, caratterizzato da dinamiche tipiche. Si svolge con gli altri e per gli altri, entra nel quadro degli scopi collettivi e ne riceve l’impronta organizzativa. Luogo di conflitti e di alleanze, di confronti e tensioni, diventa esperienza quotidiana di mediazione tra aspirazioni personali e realtà esterna, tra progetto e realizzazione, banco di prova della capacità di risolvere problemi, superare ostacoli, prendere decisioni, cooperare.
teatro di vita
Nel teatro del lavoro, si incrociano sulla scena la persona, con il suo mondo psichico e valoriale; gli altri, con le emozioni, le motivazioni, i ruoli e le dinamiche che si attivano; la realtà esterna, fatta di contesti, organizzazioni, strutture sociali ed economiche.
Campo di esperienza del limite e delle possibilità, la pratica quotidiana di una attività lavorativa allena la responsabilità e la capacità di perseguire obiettivi e tollerare frustrazioni, riparare ad errori, ritentare dopo gli insuccessi. Sviluppa il sentimento di autoefficacia e la competenza a gestire una specifica gamma di relazioni non fondate su una base affettiva. Permette di imparare ad adattarsi ad un ordine dato, ma crea di tanto in tanto anche l’occasione per allenare la capacità di mettere in discussione questo ordine.
Nei contesti di lavoro si genera uno spazio privilegiato per costruire la propria identità, attraverso il movimento parallelo dei processi di identificazione e di individuazione. Chi sono io come persona specifica? Come posso essere riconosciuta/o e valorizzata/o per il mio apporto specifico al progetto comune? In quali azioni, persone, gruppi, contesti, mi posso identificare? Cosa posso investire di me stessa/o in questo spazio sociale creato dal lavoro? Come partecipo allo scambio sociale, al ciclo del dare e del ricevere?
In che modo posso rapportarmi alle rappresentazioni comuni della realtà con le quali mi trovo ad interagire? Sono parte di un gruppo? Mi posso identificare col mio gruppo di appartenenza lavorativa? Come mi riconosce il contesto sociale in quanto persona che svolge questo specifico lavoro? Quanto e come sento di appartenere ad una comunità sociale? In che modo sono capace di entrare in sintonia e in sinergia con gli altri per un fare coordinato comune?
Gratificazione narcisistica e nello stesso tempo limitazione del narcisismo, lavorare vuol dire sentirsi efficaci e presenti al mondo, ma anche separarsi da se stessi, dalle preoccupazioni personali, per impegnarsi in una storia più grande, diversa dalla propria (J. Barus-Michel, E. Enriquez, A. Levy (a cura di), Dizionario di Psicosociologia, Raffaello Cortina Editore, Milano 2003).
Se la flessibilità diventa un imperativo esasperato, e da stimolo al cambiamento e al reinventarsi degenera in una corsa cieca sull’otto volante dell’incertezza e in uno scivolo infinito verso la palude dello sfruttamento.
Se il frammentarsi delle esperienze professionali in micro eventi estemporanei polverizza e decostruisce le competenze di chi lavora.
Se, a fronte di questa progressiva dequalificazione e svalutazione di fatto delle abilità e delle capacità di svolgere certi compiti, si gioca a carte truccate sul culto dell’eccellenza, si alimentano i desideri narcisistici e le illusioni delle persone, e nello stesso tempo si esaspera la competitività interna, trasformando in un inferno le relazioni nel gruppo di lavoro.
Se tutto ciò avviene in un contesto sociale che ha già allentato da un pezzo i propri legami, ha smarrito le proprie costruzioni simboliche, e si è già spinto molto avanti nel nascondere e travisare la realtà.
Se il confine di spazi e di tempi tra lavoro e vita privata sfuma sempre di più.
Se le comunicazioni nei contesti di lavoro diventano sempre più manipolative e sbandierano il mito di una unione fraterna e di una coesione familiare che servono solo a far ingoiare meglio realtà inaccettabili come il rinvio sine die del pagamento dello stipendio o la progressiva erosione di diritti tuttora formalmente garantiti dalla legge.
Se il ricatto, aperto o sottile, sostituisce la chiarezza, se una profonda competenza e una salda motivazione non sono più garanzia di nulla, non certo di sicurezza del posto di lavoro, ma neppure di una valorizzazione morale.
Se le formule con cui vengono definiti i compensi sono stabilite su base personale e lo stesso vale per i passaggi di mansioni e di carriera, e si cancella la dimensione collettiva e organizzativa dell’esperienza professionale.
senza più mediatori
Se la relazione tra persona che lavora e organizzazione non è più mediata da sog- getti collettivi o istituzionali «terzi», ma è diretta e totalmente asimmetrica, e so vrasta chi lavora già, o vorrebbe farlo, con il peso schiacciante dell’insignificanza del singolo, quando quest’ultimo è privo di mediatori sociali (la legge, le associazioni di categoria, le istituzioni pubbliche).
Se tutto questo assomiglia al quadro attuale, come farà Anna, che ha appena avuto un bambino, a reinserirsi nel lavoro, visto che il suo precariato è ormai cronico?
Se tutto questo è verosimile, a cosa si appellerà Giovanni che ha avuto la diagnosi di un tumore e dovrà assentarsi per mesi dal suo contratto a termine?
Che spazio troverà Luana, qualificatissima, che cerca una occupazione a quarantacinque anni, dopo quindici anni di lavoro autonomo che lei stessa ha creato e gestito, ma che negli ultimi tempi le ha mangiato tutti i risparmi?
Cosa troverà sul suo cammino Franco, che ha un problema psichiatrico ben compensato, e da due anni è alla ricerca di una borsa di lavoro che darebbe senso e valore alle sue giornate e alla sua vita?
Come si potrà difendere Valerio che, a più di cinquant’anni, verrà messo in cassa integrazione come anticamera del licenziamento per fare spazio agli apprendisti?
E Francesca, che ha studiato ed era motivatissima, che si sta spegnendo a forza di inviare curricula senza risposte e a forza di richieste vane di appuntamenti per colloqui, dove vorrebbe solo presentarsi per cinque minuti? Ora sta creando un piccolo video di autopresentazione con una animazione iniziale per essere vista e notata tra migliaia di altri. Ha imparato da sola a farlo, ed è venuto molto bene. Ma lei si sta avvilendo, non è nessuno senza un lavoro, e ogni altra scelta per la sua vita è in stand by.
Gianluca invece ha fatto la valigia. Lavora in Svezia, in una azienda d’avanguardia che produce protesi dentarie. Vive là da due anni, ha avuto un buon riscontro professionale, non mollerà, anche se è ancora molto solo.
Rosella De Leonibus
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