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Testimonianze (dei nostri e di altri tempi): don Angelo Pittau
IL PRETE IERI OGGI DOMANI
i preti non sono fatti in serie
di Angelo Pittau, su Rocca
Sono stato ordinato presbitero il 1965, l’anno della conclusione del Concilio Vaticano Secondo.
Subito fui nominato viceparroco per circa due anni in un piccolo paese della Marmilla in Sardegna, Tuili, con circa millecinquecento abitanti.
Il parroco era rientrato dal Brasile dove insegnò teologia dogmatica nella facoltà teologica di San Paolo. Vice parroco a Tuili mi iscrissi all’università Pro Deo a Roma (l’attuale Luiss).
Appena finito gli studi alla Pro Deo partii prete Fidei Donum in Vietnam nella diocesi di Dalat. Insegnavo nella facoltà Teologica di Dalat, nel seminario diocesano e vivevo in un piccolo villaggio di Montagnard con un prete vietnamita della famiglia di Jesus Caritas, dei Piccoli Fratelli di Padre De Foucauld.
Lasciato il Vietnam, espulso, direi, per un libro non gradito al governo di Thieu: Vietnam una pace difficile, mi rifugiai in Francia a fare il prete operaio sempre con i Piccoli Fratelli del Vangelo.
Rientrai in Italia per problemi di salute. Mons. Luigi Bettazzi allora vescovo di Ivrea mi presentò al Cardinale Pellegrino. Il Cardinale Pellegrino mi affidò a un prete torinese, d. Piergiorgio Ferrero.
Ci diede l’incarico di fondare una parrocchia nella zona di Mirafiori Sud-Ovest, una periferia tra le periferie della Torino di al- lora.
C’erano gli ultimi, poi la droga, la lotta operaia, le Br (nacquero in quel quartiere), un’immigrazione di meridionali devastante, l’abbandono delle istituzioni. Dopo poco più di tre anni, distrutto accettai di tornare in Vietnam per testimoniare il genocidio delle popolazioni Montagnards sugli altopiani vietnamiti. Vissi come uno di loro in un piccolo villaggio di lebbrosi «Kala», tra i lebbrosi c’era Mons. Cassaigne ex arcivescovo di Saigon, anche lui lebbroso.
A Kala mi raggiunse la lettera del mio vescovo Mons. Antonio Tedde. Dovevo tornare in diocesi.
Tornato in diocesi fui nominato parroco di una porzione del mio paese natale Villacidro. Una parrocchia anch’essa di periferia, ancora tanti abitanti nelle casermette della seconda guerra mondiale, poi c’era la massa di operai con le loro famiglie venute a lavorare nelle fabbriche della zona industriale.
Adattai un piccolo garage di un trattore a chiesetta (ci lavorai io stesso come muratore). Cominciò così la parrocchia Madonna del Rosario: aveva circa quattromila abitanti. Ci sono restato parroco ventisette anni e sette mesi.
Un mio compagno di classe (praticamente dalle elementari sino all’ordinazione presbiterale), morì di Parkinson. Il vescovo di allora la mattina stessa della morte del mio compagno mi nominò suo successore nella parrocchia di San Nicolò a Guspini. Ci sono stato altri tredici anni, sino a settantacinque anni. Ai settantacinque anni mi sentii in dovere di dare le dimissioni, dimissioni che vennero accettate, anche perché avrei continuato nei numerosi impegni che la mia vita mi aveva obbligato ad assumere e che non mi potevo scrollare di dosso.
Oggi sono a Villacidro, collaboro con la parrocchia che mi ha accolto per il battesimo e in cui sono stato ordinato presbitero.
Sono vicario per la testimonianza della carità, direttore Caritas, della Pastorale del Lavoro, presidente di una Fondazione e di una associazione di volontariato con tre comunità per le dipendenze, due comunità psichiatriche, una casa per anziani, presidente di una Ong con progetti in Ciad, Cameroun, Tanzania, in America Latina e Caraibi.
Ho vissuto l’esperienza del Vietnam, della Croazia, Bosnia e Serbia, il terremoto dell’Irpinia ma anche di Haiti, ho gemellaggi nel Ciad.
In questo quadro è la mia esperienza di parroco, di presbitero, di uomo di fede in Cristo e nell’uomo. A pensarci bene «esperienza» è una parola che non dice per niente la realtà. Questa è la mia vita, la mia vita di presbitero.
Scrivo questo non certo per dire: «titoli», quanto lo ripeto per dire la vita che ho percorso in questi anni come presbitero. Ho fatto e realizzato credo molto ma mi vedo ragazzo sotto la mantella del mio parroco d. Isidoro Manias andando per le strade ciottolate della mia parrocchia con lui non solo a visitare i malati ma nelle case dei poveri (allora erano poco più che tuguri) ad incontrare i poveri a casa loro, ad essere con loro, a mangiare un po’ di brodo che noi stessi avevamo portato, a mangiarlo con loro. Un anno a Pasqua pranzai a Torino a casa di una giovane vedova, non aveva niente, portai due uova. La stessa cosa mi capitò per l’Epifania in Honduras a Olanchito: a pranzo un po’ di tapioca e un uovo.
Piango ancora per la grazia avuta in quei giorni. Celebravo per la comunità la mattina, la messa continuava in quei pranzi. Il presbitero, il parroco è essere con loro, come loro. Con loro lavorare duramente, un lavoro non riconosciuto, non pagato, disumanizzante. Un periodo di prete operaio lo passai in Francia vicino a Lione; mi assunsero in una impresa edile e mi misero ad alimentare una betoniera: cemento, ghiaia, acqua al ritmo della betoniera, delle sue fauci instancabili che divoravano la fatica delle mie braccia, la tensione del mio corpo, il martellare del cervello, il sudore che mi bruciava gli occhi. Presbitero, lavorando mi sentivo sacerdote pienamente sacerdote di Cristo e degli uomini.
Come ricordo le messe celebrate nella piccola cappella delle Piccole Sorelle del Vangelo a Kala in Vietnam: io, tre piccole sorelle e un vescovo malato di lebbra, vescovo di Saigon, si era ritirato nel lebbrosario invece di rientrare pieno di onori in Francia, si prese poi la lebbra che lo toccò al cervello rendendolo «ebete». Ebete diceva continuamente «bisogna amare i lebbrosi». Dicevo messa, gli davo l’eucarestia, piangevo come un bambino.
Ero presbitero ma lo ero per lui e con lui.
È stata così sempre nella mia vita piena di fragilità, di miseria, di peccati: presbitero con loro e come loro.
Nei quartieri di Torino operaio, con gli immigrati non accolti, sfruttati, umiliati. Una volta in un cantiere scavavo plinti, ero in una fossa profonda più di quattro metri, scese un ingegnere, mi vide sporco, sudato, con una maschera di polvere scura: mi disse che se avessi studiato non sarei così. Volevo urlare ma non per me ma per tutti gli emarginati e sfruttati.
Così anche a Villacidro coi giovani che non avevano nemmeno la terza media e non potevano aspirare ad un lavoro, nei corsi professionali.
O coi giovani preda della droga, imbruttiti dall’eroina, annientati dall’Aids, o con il cervello bruciato.
In parrocchia celebrando con i «buoni» fedeli ogni giorno mi sono sentito sempre (oggi come ieri) come questi poveri, emarginati, scordati, ultimi, piccoli. Presbitero con loro e come loro.
Oggi il problema più grande per me presbitero è questa sofferenza, questa ferita, questo dolore, questo pianto.
Questo mio e nostro limite per mettere argine al fiume di sangue delle guerre, a spezzare un pane per gli affamati, a curare le malattie che mietono vittime nei paesi sottosviluppati, a dare istruzione, educazione ai giovani del mondo, a costruire giustizia.
Certo c’è la fede. Ma presbitero spezzo il pane ogni giorno, lo consacro, mi nutro del corpo e sangue di Cristo. Perché Dio mio, perché? Quello che faccio è sempre troppo poco.
Come presbitero non mi è mai bastato il lavoro di parrocchia: messe, preghiere, liturgie, pastorale, catechesi, confessioni, visite ai malati, preparazione ai sacramenti e potrei continuare.
Ho scritto una poesia: Agar, respinta da Abramo, fugge nel deserto e vede il figlio morire, il figlio di Abramo.
Questo mondo, il mondo del presbitero, è un deserto dove i figli di Dio, il figlio di Dio muore e troppo spesso è ucciso.
Mi fa difficoltà anche la chiesa. Questa chiesa non cambia, non vuole cambiare. La chiesa dei preti, dei vescovi, dei papi ma anche la chiesa della gente, dei battezzati, quella chiesa che con stomachevole ritornello dicono «del buon popolo di Dio». Abbiamo avuto il Concilio, i sinodi, le riforme liturgiche, una nuova catechesi, le encicliche. Ma siamo sempre da capo. Siamo fatti bersaglio nei media e nell’opinione pubblica continuamente per gli scandali che spesso sono di ordine sessuale (pedofilia etc.) o di soldi. Come mai non c’è un’azione di prevenzione? È scontata la nostra fragilità ma non è scontata questa mancanza di vigilanza, di conversione.
E c’è il rovescio della medaglia. Quale linciaggio c’è per tanti uomini di chiesa che cercano di vivere l’oggi con coraggio, con profezia e con parresia. Non parlo solo di don Mazzolari, di don Milani, di Mons. Romero. Ci sono tanti poveri Cristi crocefissi perché vivono con coraggio la novità e la libertà del Vangelo. Questi scandali non si possono togliere?
In mezzo mondo passiamo come pederasti, assatanati di sesso, venditori di sacro, famelici di denaro, gonfi del ruolo. Si è ritornati alla sottana, ai pizzi, alle devozioni più strambe, agli esorcismi. Si ha fame di canoni, di regole, di liturgie spettacolari. È questa la conversione?
Alle donne si dà il ruolo di spazzare la chiesa, i laici si usano per moltiplicare i mangiatori di ostie. Non sono corresponsabili, sono zitti nelle liturgie, nelle assemblee… Quando un ritorno alle prime comunità dei «Santi», dei martiri, dei testimoni? Un ritorno all’essenziale?
Si è creduto di riformare la liturgia permettendo di far leggere ad un laico la parola: la legge non comprendendola e non facendola comprendere, la fanno «spiegare» ad un prete: il prete la mastica male, dice parole vuote.
Fare la comunione è diventata una piccola passeggiata, un prendere l’ostia. Potrei continuare ma mi indigno troppo.
La riforma del seminario è mettere «quelli che hanno la vocazione» in un quasi albergo a cinque stelle. Nessun sacrificio: non pagano per vivere in seminario, appena detto messa hanno subito casa, stipendio, ruolo, boria.
Non so se questo sia una mia difficoltà o un problema. È mia difficoltà: mi sono fatto prete con sacrificio, ho studiato duramente, sapevo che mi facevo prete per servire e servire gli ultimi. Questi si fanno preti per essere serviti.
Perché non si abolisce l’otto per mille? I preti lavorino e tornino a scuola: oggi hanno casa, stipendio, offerte e… non lo dico per carità di patria. In chiesa si affacciano per dire in fretta la Messa e poi spariscono. Non sono «in uscita» come si usa dire oggi.
Tutto questo fa difficoltà e problema. Ma per la chiesa il grosso problema non sono le vocazioni ma il seminario e la formazione che lì si dà. È la vergogna di essere campati vendendo fumo, stregonerie e parole vuote, o chiusi nel vecchiume. Conosco preti che fanno fatica a dire messa: arrivano all’ultimo minuto, si tolgono i paramenti, rientrando in sacrestia e poi spariscono sino al giorno dopo. Vorrei che tutto questo fosse non vero per non avere difficoltà, perché non ci fossero problemi. È bello fare discorsi profondi, spirituali, a volte anche mistici; è bello rincorrere gli aspetti psicologici, teorizzare sul mondo che cambia, che tutto è liquido o fare ricerche storiche.
Ma poi l’ordinazione sacerdotale (adesso anche il diaconato) diventa una festa pagana, culto della personalità, consumismo, spreco.
Perché i vescovi permettono tutto questo? Da poco è apparsa nei giornali una grande foto: un seminarista che offre al papa uno zucchetto, il papa gli dà il suo. Grande festa, finisce nei media, lo zucchetto è messo come reliquia in un santuario. Povero papa, lui fa un gesto con semplicità, forse con umorismo. Gli altri lo sfruttano per le loro nostalgie lefebvriane. Essere un presbitero autentico è sempre stato difficile. Le difficoltà sono state tante, la formazione, il celibato (anche quello è una difficoltà), il mondo ecclesiastico, la comunità in cui si esercita il ministero, la cultura che si è creata ostile al clero, e potrei continuare.
Ho potuto superare le difficoltà, non farmi fermare dai problemi nei miei cinquant’anni e passa di sacerdozio, i miei quarant’anni di parroco. Oggi posso testimoniare è lo Spirito che mi ha dato il servizio di ministro ordinato ma è stata la comunità parrocchiale che mi ha fatto fedele e conforme a questo servizio.
Sono andato avanti, ma sentivo il popolo dietro, loro davano il ritmo al mio camminare. È il popolo che mi ha fatto fedele al Cristo, mi ha fatto servitore del Cristo e del popolo di Dio.
Mi sono trovato presbitero come se il popolo mi avesse scelto. So bene che è Cristo che mi ha chiamato ma mi ha chiamato attraverso la passione che ho dentro per mettermi a servizio del popolo, del popolo di Dio. L’identità del mio ministero sacerdotale certo l’ho ottenuta da Cristo ma è il popolo che ha facilitato questo cammino. C’è un’altra dimensione che ha determinato la mia modalità di essere presbitero e parroco.
Un qualcosa che non ho mai ostentato ma che mi ha dato la «forma» del mio essere presbitero e parroco.
È la necessità del Trascendente, del «cercare Dio», di sfidare l’invisibile, di mettere Cristo al primo posto, di lottare, conscio della mia fragilità, per questo Trascendente, questo Invisibile, questo totalmente Altro.
Da questo la mia intima coscienza di essere sacerdote, di offrire questo creato, questo mondo, questa umanità e con questo creato offrire me stesso e la mia comunità. Con tutte le mie perplessità e denunce (mi sento profeta) ho empatia, sono in comunione con il creato, con la mia comunità. Questo creato lo amo, lo consacro e lo offro a Dio: sacrificio gradito.
Per concludere vedendo come cambia il mondo, la società, capisco che anche la figura del presbitero deve cambiare, diverse saranno le relazioni, le modalità di porsi. Si deve vivere nell’oggi e non nelle nostalgie del passato. Ma nel cambiamento due punti credo devono restare fermi. Una è la relazione con la comunità. Si è presbiteri per la comunità, non si vive per noi stessi ma per servire, per dare la nostra vita per la salvezza del popolo: si è sacrificatori e vittime.
Questo è il mistero del nostro vivere da presbiteri.
L’altra è il nostro rapporto con il Trascendente. Il nostro volto deve essere bruciato dal fuoco dell’amore di Dio. Nel ricordino della mia tonsura (ho conosciuto anche quello) scrissi: «Dilectus meus et ego illi» lui è il mio amore e io sono il suo amore. Tutto questo è creatività: i preti non sono fatti in serie. È la fede vissuta sino allo spasimo che «forma» il prete.
Angelo Pittau
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Don Angelo Pittau Cagliari sabato 10 marzo 2018. A Donne e Uomini di buona volontà.
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