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Per una cultura della cura, della bellezza e dell’incontro.

verdePer una cultura della cura, della bellezza e dell’incontro.
Dalla Laudato si’ alla Fratelli tutti

di S.E. Mons. Erio Castellucci
Arcivescovo di Modena, Vescovo di Carpi
Vicepresidente della Conferenza Episcopale Italiana

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“Un solo Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della
terra, di tutte le cose, visibili e invisibili”. Non solo dunque
degli esseri umani, ma di tutte le creature. Il Credo
convoglia in poche parole interi brani della Bibbia: dal
primo capitolo della Genesi, con il suo ritornello: “era cosa
buona/bella”, ai Salmi (cf. in particolare i Salmi 8, 102 e
144). Per questa comune origine, la Scrittura stabilisce tra
gli esseri umani e gli altri elementi creati delle connessioni
strette, quasi tessendo un’unica tela. E se solo con san
Francesco il filo di questa tessitura cosmica sarà esplicitato
con il linguaggio della “fraternità/sororità”, già la prima
pagina biblica nella quale compare la parola “fratello” –
quella drammatica di Caino e Abele – si stabilisce un
legame stretto tra l’uomo e la terra.
“Sono forse io il custode di mio fratello?” (Genesi 4,9). Tra
le migliaia di domande della Bibbia, quella rivolta da Caino
a Dio – che gli aveva chiesto dove fosse suo fratello Abele –
è la più drammatica di tutte. Esprime nello stesso tempo
menzogna, indifferenza e cinismo. Caino sapeva benissimo
dov’era suo fratello, perché l’aveva appena ucciso e lasciato
steso al suolo. Colpisce, nel breve episodio, la ripetizione
del termine “suolo” per ben sei volte. Caino, del resto, era
un “lavoratore del suolo”, cioè un agricoltore. Ad un certo punto, sembra che nell’assassinio di Abele
sia stato gravemente offeso non solo il fratello ucciso e nemmeno solo il Signore, ma anche il suolo.
Dio infatti dice a Caino che dovrà andare “lontano dal suolo che ha aperto la bocca per ricevere il
sangue” di Abele; e gli riferisce che anche il suolo protesta contro la sua mano omicida: “quando
lavorerai il suolo, esso non ti darà più i suoi prodotti”.
L’intero creato, insieme al Creatore, si rivolta contro il crimine fratricida. Dunque, fin dalle narrazioni bibliche iniziali, grandi parabole intese a svelare non dei fatti storici ma il cuore umano,
“tutto è connesso”: Dio, l’uomo, il suolo. Del resto proprio questa parola, “suolo”, in ebraico adamàh,
contiene la parola “uomo”, adàm. E il termine con il quale Caino tenta di discolparsi, “custode”, in
ebraico shomèr, ricorre come verbo pochi capitoli prima (2,15), quando Dio pose Adamo nel giardino
perché lo coltivasse “e lo custodisse” (shamàr). L’uomo è dunque custode del fratello e del giardino, è
guardiano del proprio simile e della terra. Adamo e Caino, usurpando il posto di Dio, saranno cattivi
custodi del creato e dei fratelli. Quando si lascia incustodito il suolo, ne soffre anche il fratello; e
quando si maltratta il fratello, anche il suolo si affligge.
Le Scritture ebraiche e cristiane leggono in profonda connessione la custodia della natura creata e la
custodia della società umana. Ma solo san Francesco, come già accennato, arriverà a chiamare con lo stesso termine, “fratello” e “sorella”, l’una e l’altra. Il Santo di Assisi definisce per primo il legame tra tutti gli esseri non solo a partire dalla fede nell’unico Creatore, ma anche a partire dalla fede nell’unico Padre: se il Credo proclama Dio “Padre Onnipotente”, prima ancora che “Creatore”, significa che tutto il creato origina da questa paternità e che tutte le creature – e non solo quelle animate e
intelligenti – sono legate dalla figliolanza e, sono legate tra loro dalla fraternità/sororità. “Frate” per lui non è solo il compagno che condivide il battesimo e la vita religiosa, ma è anche il sole, il vento, il fuoco. “Sora” per lui è Chiara, è ciascuna donna, ma è anche l’acqua, la terra, la luna. La “rete fraterna” intessuta da San Francesco indica già, con singolare profezia, gli elementi del creato che oggi vengono valorizzati come fonti di energia pulita: sole, aria, acqua, vento, terra… e poteva farlo per quello sguardo con il quale “contemplava nelle cose belle il Bellissimo” (San Bonaventura, Leggenda maggiore, X: FF 1162).
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L’intreccio tra la custodia per i propri simili e la custodia per l’ambiente non è certo un’invenzione
dei nostri tempi: quando papa Benedetto XVI parla di “ecologia umana” e papa Francesco di “ecologia
integrale”, danno voce ad una tradizione biblica e cristiana di millenni. E le due ultime encicliche di
papa Bergoglio dicono che “tutto è connesso” e che “tutti siamo connessi”.
“Sei proprio tu il custode di tuo fratello”: così sottintende il Signore nella sua risposta a Caino: “la
voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo”. La terra, bagnata di sangue, grida insieme all’innocente ucciso. “Il grido della terra e il grido dei poveri”, come li definisce papa Francesco
nell’enciclica Laudato si’ (24 maggio 2015, n. 49), si mescolano assieme. Già mezzo secolo fa, quando ancora pochi coglievano il rapporto tra questione ambientale e questione sociale, scriveva papa Paolo VI: «non soltanto l’ambiente materiale diventa una minaccia permanente: inquinamenti e rifiuti, nuove malattie, potere distruttivo totale: ma è il contesto umano, che l’uomo non padroneggia più, creandosi così per il domani un ambiente che potrà essergli intollerabile: problema sociale di vaste dimensioni che riguarda l’intera famiglia umana» (Octogesima Adveniens, 14 maggio 1971, n. 21). Nella sua prima enciclica, poi, papa Giovanni Paolo II rilanciò l’allarme, ricordando «certi fenomeni, quali la minaccia di inquinamento dell’ambiente naturale nei luoghi di rapida industrializzazione, oppure i conflitti armati che scoppiano e si ripetono continuamente, oppure le prospettive dell’autodistruzione mediante l’uso delle armi atomiche, all’idrogeno, al neutrone e simili, la mancanza di rispetto per la vita dei non nati» (Redemptor hominis, 4 marzo 1978, n. 8). Papa Wojtyła, in ventisette anni di pontificato, ritornerà decine di volte sulla connessione tra temi ecologici e sociali.
Così come Benedetto XVI, che vi dedica ampio spazio all’interno della sua enciclica sociale, arrivando
a dire: «il sistema ecologico si regge sul rispetto di un progetto che riguarda sia la sana convivenza in
società sia il buon rapporto con la natura» (Caritas in veritate, 29 giugno 2009, n. 51). Anche i grandi
documenti ecumenici, scritti insieme alle Chiese ortodosse e alle Comunità protestanti, hanno offerto
pregevoli contributi. Nel solco dei suoi predecessori, papa Francesco dedica un’intera enciclica all’argomento, prendendo in prestito le prime parole dal Cantico delle creature di San Francesco e
indicando come sottotitolo “la cura della casa comune”. L’idea della casa, òikos/oikìa, è contenuta nel termine stesso di “ecologia”, che significa “governo/gestione della casa”.
Proprio l’immagine della casa, insieme a quella del giardino e del suolo, ci aiuta a comprendere la
connessione tra uomo e natura, di cui lui è coltivatore e custode. Dio affida all’essere umano una “casa”, il creato, formata da abitazione, orto e giardino. Consegnando alla sua creatura più intelligente il resto delle creature, Dio non fa un rogito, non opera un passaggio di proprietà, ma fa semmai un
comodato, assegnando un bene con il compito di utilizzarlo responsabilmente e restituirlo in buono stato. Ed è questa responsabilità a definire il compito umano della custodia della “casa”: responsabilità verso il padrone, verso la famiglia che la abita e la abiterà, verso la casa stessa, giardino e orto compresi. Se l’uomo è l’apice della natura, consapevole di esistere come soggetto, fatto a “immagine e somiglianza” di Dio (cf. Gen 1,26-27), il resto della creazione non è semplice oggetto a disposizione dell’uomo, materia inerte che lui possa sfruttare a proprio arbitrio.
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L’equivoco, tragico, che tanto disagio causa nel mondo moderno, è sorto dall’illusione che la natura
fosse una cava più che una casa: una miniera inesauribile di materiali da estrarre e utilizzare senza criterio. Quando l’uomo si fa predatore della natura, anziché suo custode e coltivatore, la casa si
trasforma in cava, il rispetto in profitto, la responsabilità in utilità. Un antropocentrismo esagerato,
divenuto negli ultimi secoli una sorta di narcisismo, saldatosi con le diverse fasi della rivoluzione
industriale, ha fatto scivolare talvolta l’uso delle risorse naturali in abuso; specialmente l’estrazione e il consumo dei combustibili fossili, senza un’adeguata regolazione, ha immesso progressivamente nell’atmosfera dei gas nocivi che l’hanno inquinata e hanno incentivato quell’effetto-serra che risulta
la causa principale dell’aumento della temperatura media nel nostro pianeta, determinando il fenomeno del surriscaldamento globale, riconosciuto dalla comunità scientifica come dato da ricondurre, almeno in parte, all’attività dell’uomo. Gli effetti, che in altre epoche si misuravano in migliaia o addirittura milioni di anni – le “ere geologiche” – sono ora percepibili su una scala di decenni: scioglimento dei ghiacciai, fenomeni atmosferici estremi, squilibri nella fauna e nella flora con la rapida scomparsa di specie animali e vegetali, disagi di intere popolazioni, compresa la lotta per l’acqua potabile, i conflitti per l’accaparramento delle risorse e le migrazioni climatiche.
Il legame tra il comportamento umano nei confronti dell’ambiente e nei confronti dei propri simili è evidente a chiunque non voglia chiudere gli occhi davanti alla realtà, ai dati e alle statistiche. È
evidente, oggi più di qualche decennio fa, che il problema non è semplicemente tecnico, ma etico: si
tratta di guadagnare non solo strumenti meno inquinanti, ma soprattutto comportamenti più responsabili. Le annuali Conferenze internazionali sul clima rendono evidente come la sfida riguardi proprio l’etica: anche per questo i loro orientamenti spesso cadono nel vuoto, perché incontrano poi nei singoli Stati delle politiche maldisposte verso l’assunzione di impegni che implicano sacrifici, cambiamenti di stili e abitudini, e quindi appaiono impopolari e tutt’altro che premianti, anzi punitivi, dal punto di vista elettorale.
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Le società impostate su logiche prevalentemente economiche e finanziarie, come quelle imperanti
nell’Occidente capitalistico o nell’Oriente dei grandi paesi emergenti – soprattutto Cina e India –
faticano ad accettare culturalmente e ad integrare programmaticamente il valore della sobrietà, anzi
il vantaggio della sobrietà: perché non procura un beneficio immediato, ma un giovamento su larga
scala e su tempi lunghi. Dove prevale la logica del consumo e del profitto immediato, difficilmente si
fa strada il senso della responsabilità verso gli altri popoli e le future generazioni.
In queste società la natura non solo non viene considerata una casa da custodire, ma nemmeno una
semplice cava di materiali da estrarre; diventa piuttosto una cassa, un conto corrente alimentato dalla
speculazione, da una logica di mercato e da una finanza spregiudicata. Impressionano certo i dati
assoluti legati alla fame nel mondo, che colpisce ancora più di 820 milioni di persone, e quelli legati
alla sete, che ne coinvolge più di un miliardo. Ma questi dati, insieme ad altri indicatori delle povertà
planetarie, potrebbero suscitare una reazione simile a quella di Caino: “sono forse io il responsabile
delle ingiustizie nel mondo?”. È più utile, per rendersi conto delle sperequazioni legate all’uso delle
risorse, considerare l’impronta ecologica, ossia l’area della superficie terrestre in grado di fornire le
risorse occorrenti per il consumo quotidiano e lo smaltimento dei rifiuti. Per avere un termine di
paragone, si pensi che se l’impronta ecologica di un abitante degli Stati Uniti è 8,2, quella di un
abitante del Bangladesh è 0,7. Limitandoci al tasso di inquinamento, si può ricordare che un cittadino
nordamericano immette nell’atmosfera mediamente tanta anidride carbonica quanto due cittadini
europei e 160 cittadini etiopi. Si intuisce l’inadeguatezza di un approccio puramente demografico alla
questione ecologica: «incolpare l’incremento demografico e non il consumismo estremo e selettivo di
alcuni è un modo per non affrontare i problemi» (Laudato si’, n. 50).
Oggi possiamo misurare addirittura l’impronta ecologica dell’intero pianeta anche in termini
cronologici. Il 29 luglio 2019 è stato l’Overshoot Day, il “giorno del sorpasso”, che si calcola ogni anno mettendo in rapporto la biocapacità del globo, cioè l’insieme delle risorse generate dalla terra, con l’impronta ecologica dell’umanità, cioè il consumo totale di risorse per l’intero anno. In sette mesi, dal primo gennaio al 29 luglio, il pianeta ha dunque esaurito tutte le risorse naturali che è in grado di rinnovare in un anno. Nei successivi cinque mesi del 2019 l’uomo è vissuto “a credito”, consumando ciò che la terra non riesce a rigenerare. E non si tratta solo di cibo, ma anche di aria, terra e acqua: il sistema vegetale mondiale, attraverso la fotosintesi clorofilliana, può assorbire annualmente 20 miliardi di tonnellate di anidride carbonica, a fronte dei 36 miliardi immessi nell’atmosfera, aggravando il riscaldamento globale e i cambiamenti climatici. Ciò che più preoccupa è che l’Overshoot Day continua a retrocedere: nel 1971 cadeva il 21 dicembre, nel 1981 il 12 novembre, nel 1990 il 13 ottobre, nel 2000 il 23 settembre, nel 2018 il primo agosto… Sembra che l’intero pianeta stia prendendo la forma di Leonia, una delle città fantastiche descritte da Italo Calvino: «ogni anno la città s’espande, e gli immondezzai devono arretrare più lontano; l’imponenza del gettito aumenta e le cataste
s’innalzano, si stratificano, si dispiegano su un perimetro più vasto (…). Il risultato è questo: che più
Leonia espelle roba più ne accumula» (Le città invisibili, 1972).
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Negli incontri che si stanno moltiplicando dovunque e in tutte le sedi, anche nelle comunità cristiane
e in vista della Settimana sociale di Taranto, è facile che qualcuno esprima un senso di frustrazione e
impotenza rispetto ai dati e alle previsioni. Non mancano poi le accuse di catastrofismo da una parte
e di negazionismo dall’altra; etichette spesso cavalcate politicamente. Ma l’unico atteggiamento
costruttivo, in questo come in tutti i campi del vivere civile, è quello di una concreta progettualità.
Ciascuno, secondo le proprie competenze e i propri ruoli, può e deve fare qualcosa per rendere più
abitabile la nostra casa comune.
A cominciare da uno stile personale sobrio, sostenibile, sano. Tutto comincia sempre dalla conversione
dei singoli: il mare è composto di tante gocce: “sono proprio io il custode di mio fratello!”. La custodia verso l’altro e verso il creato, che diventa non solo rispetto ma vera e propria responsabilità, è uno stile globale, integrale: è impossibile custodire i fratelli abusando del creato o custodire il creato facendo violenza ai fratelli. Uno stile più attento ad evitare sprechi di energia e di materie prime e consumi inutili, a ridurre le immissioni di gas nocivi nell’atmosfera, a favorire il riciclo dei rifiuti secondo i criteri dell’economia circolare, fa bene alla propria salute psicofisica, oltre che al pianeta.
È chiaro che non basta: occorre ben altro. Ma il famoso e troppo usato “benaltrismo”, oltre che costituire un comodo alibi, dimentica che il bene “altro” comincia dal bene che compio io, da “questo”
bene. E quando il bene dei singoli si somma, in realtà si moltiplica: diventa bene “nostro”. La seconda
sfera d’azione, quindi, è quella educativa. È cresciuta negli ultimi anni, tanto da diventare per i cristiani un “segno dei tempi”, la sensibilità ecologica specialmente nei ragazzi e nei giovani. Il sistema educativo scolastico e universitario forma alla sostenibilità le persone – docenti, alunni, famiglie – facendo leva sui dati scientifici e sul senso di responsabilità etico di ciascuno. I risultati si vedono e vanno incentivati: l’educazione stessa, la cultura diffusa, plasma stili personali sobri e rispettosi verso il creato e verso gli altri.
L’impegno nella formazione personale e nell’educazione dei ragazzi e dei giovani diventa così una forza sociale, fa opinione, desta l’attenzione dei mondi economici e tecnologici. Questi ambiti planetari si
collocano ben oltre la nostra portata e tuttavia interagiscono con i diversi corpi sociali. Noi cittadini
abbiamo la possibilità di influire, quando ci organizziamo, sulle grandi scelte nei settori del
commercio, della ricerca scientifica e della tecnologia. Possiamo “votare con il portafoglio”, cioè
orientare acquisti e investimenti in modo da favorire i comportamenti virtuosi delle aziende, degli
enti di ricerca e delle banche. In non poche situazioni, ad esempio, le preferenze motivate dei consumatori e dei clienti hanno determinato scelte più sostenibili da parte dei produttori e degli
erogatori di beni.
Il mondo politico internazionale sta prendendo coscienza, ormai da decenni, della gravità rivestita
dalla questione ecologica e dalla sua connessione con la questione sociale. La Conferenza di Rio de
Janeiro nel 1992, il Protocollo di Kyoto nel 1997, la Conferenza di Parigi nel 2015, sono solo alcune
delle tappe più significative di questo cammino. Nel settembre 2015 le Nazioni Unite hanno approvato
l’Agenda 2030, che individua 17 obiettivi e 169 sotto-obiettivi per uno sviluppo sostenibile, attraverso
la lotta contro le povertà, le ingiustizie e il degrado dell’ambiente. Le amministrazioni locali, secondo le loro competenze e risorse, si stanno interrogando e muovendo su questa scia. L’Agenda 2030 è
perfettamente in linea con l’enciclica Laudato si’, pubblicata tre mesi prima. La Chiesa cattolica infatti si sta attivando a tutti i livelli, sotto la decisiva spinta del magistero degli ultimi pontefici, che richiede una migliore integrazione, nella formazione catechistica, della custodia dell’altro con la custodia del creato e l’adozione di criteri di sostenibilità anche nella nuova edilizia di culto e nella manutenzione delle strutture. La cura del creato è da tempo entrata anche nelle agende ecumeniche, dando vita a documenti e soprattutto ad esperienze – compresa l’annuale Giornata del Creato – che coinvolgono cattolici, ortodossi e protestanti. Ed ha fatto il suo ingresso solenne, soprattutto con la Dichiarazione di Abu Dhabi, nel dialogo islamo-cristiano.
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La consapevolezza che il creato è “la nostra casa comune” non potrà che farci bene. Quando trattiamo la natura come “cava” da cui estrarre materie prime, o “cassa” da cui guadagnare profitti, cadiamo nell’illusione di una “indifferenza” dell’ambiente rispetto ai nostri comportamenti. Essendo però il creato una vera e propria “casa”, le nostre azioni nei suoi confronti si riflettono su di noi. Se la casa è sporca, se teniamo le finestre chiuse anziché far entrare aria pulita, se gettiamo i rifiuti sul pavimento invece di portarli fuori, se sprechiamo acqua, luce e gas inutilmente, se lasciamo crescere
umidità e muffa, ne risentiamo prima di tutto noi, perché ci indeboliamo e ci ammaliamo; e ne
risentono i familiari, in casa con noi, specialmente quelli meno difesi come i piccoli, gli anziani, i più fragili. Questo succede troppo spesso nel mondo, “casa comune” dove lo sfruttamento e l’inquinamento fanno ammalare e indeboliscono soprattutto chi non ha sufficienti forze per difendersi.
L’impegno per la salvaguardia del creato è una piattaforma comune a cristiani, ebrei e membri di
altre religioni, a credenti e non credenti, a tutti gli uomini di buona volontà. Il grido del suolo e il
grido di Abele, sono gli orizzonti di impegno comune per un presente e un futuro sostenibile e dignitoso.