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Referendum The day after. È andato alle urne un Paese la cui maggioranza elettorale è incazzata come non mai. Il messaggio chiaro è stato: non continuate a scassare le istituzioni, a perdere tempo e a farcene perdere accanendovi su feticci per la vostra incapacità o indisponibilità a riformare quello che quotidianamente non funziona perché l’avete occupato voi fino all’ultimo posto. O cambiate o siete spacciati

The day afterdi Tonino Dessì
Dirò fin dall’apertura della giornata alcune cose sgradite, delle quali mi libero adesso, perché tanto prima o poi l’avrei fatto ugualmente.
Ieri i talk show hanno ricominciato a popolarsi di politicanti con le loro analisi tutte volte a spiegare come si può o meno rabberciare la situazione politica, fare una legge elettorale “che coniughi rappresentanza e governabilità”, rassicurare l’Europa e i mercati e via dicendo.
Qualche dissennato riparla del PD, anzi di Renzi, del 40 per cento “da cui ripartire”.
Mattarella “congela” Renzi fino all’approvazione della legge di stabilità, come se fosse, questa, un atto di ordinaria amministrazione e non un insieme di disposizioni e di decisioni di contenuto economico-finanziario che incidono su individui, famiglie e corpi sociali. Vorrò proprio vedere il rinnovo dei contratti pubblici, le misure sulle pensioni, le misure fiscali, il fondo sanitario, la scuola, i vari ottantacinque euro e le altre regalie promesse, il rilancio dell’occupazione, i vaucher: insomma, che “qualità” avranno le decisioni economico-finanziarie di fine anno.
E successivamente sarà la volta della legge elettorale, dopo le decisioni della Corte costituzionale: sarà proposto un altro marchingegno partitocratico a tutela della vera casta?
Ieri poi ho letto la miseranda dichiarazione di Pigliaru che si rifugia a Bolzano (austroitaliani intelligenti, sardi coglionazzi), facendo finta che il NO non abbia preso la batosta catastrofica che ha preso in tutte le Regioni speciali. “Il risultato evidenzia la necessità di decisioni e provvedimenti che la Giunta prenderà al più presto”. Roba da matti.
Intanto c’è ancora una parte di benpensanti del SI e del NO che giustificano o qualificano il proprio voto sul parametro “pro o contro Grillo”, manco stessero parlando di una malattia dermatologica.
Credo che non si sia capito molto, ancora, di quello che é successo domenica.
È andato alle urne un Paese la cui maggioranza elettorale è incazzata come non mai. Il messaggio chiaro è stato: non continuate a scassare le istituzioni, a perdere tempo e a farcene perdere accanendovi su feticci per la vostra incapacità o indisponibilità a riformare quello che quotidianamente non funziona perché l’avete occupato voi fino all’ultimo posto. O cambiate o siete spacciati.
Bene: continuate a illudervi che possa continuare il tran tran, la melassa, l’indistinto chiacchiericcio.
Io consiglio anche agli analisti di verificare, nei flussi elettorali, quale può esser stata l’influenza dei “riservisti”. Cioè di quegli astensionisti da anni cronicizzati i quali stavolta hanno deciso che era loro diritto e dovere intervenire.
Tempo fa, un velenoso Scalfari apostrofò il pentastellato Di Battista dicendogli: “Voi siete il partito che prende i voti degli astensionisti”.
Intendeva degli astensionisti politici, che però avevano votato.
Ora, immaginatevi, se riprende la solita solfa paludosa, che potrebbe succedere se altri “astensionisti” incazzati decidessero di votare alle elezioni politiche, per un partito che, piaccia o meno, ha sostenuto la difesa della Costituzione riqualificando la propria identità e la propria base politico-culturale senza poter esser più confuso pretestuosamente con i vostri rassicuranti babau preferiti, Brunetta e Salvini. Ci sarà un’occasione prossima, forse imminente, in cui il voto, al PD, a Brunetta, a Salvini, al M5S sarà ben distinto e distinguibile, dentro un quadro costituzionale democratico saldissimo e ormai fuori pericolo.
Ecco: io mi attenderei magari, da questo momento in poi, di leggere meno banalità e più riflessioni di una qualche maggior consapevolezza.
Buona giornata.
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Un diluvio: 18 milioni di NO
di Ottavio Olita su il manifesto sardo.

“Credevo che piovesse, non che diluviasse”: è un proverbio umbro entrato nel linguaggio dalla politica italiana – per sconfitte o vittorie, a seconda dei casi – fin dal 1948 grazie all’importante esponente democristiano Attilio Piccioni.

Il diluvio che ha spazzato via la cosiddetta ‘riforma costituzionale’ è rappresentato da questi numeri: 18 milioni di NO, contro 12 milioni di SI’, vale a dire il 50 per cento in più: il 60% contro il 40%; in Sardegna addirittura il 72,2%; a Cagliari un dato intorno al 74%, così come ad Oristano. E queste incontrovertibili percentuali fanno riferimento ad una massiccia partecipazione popolare al voto, per di più per un referendum per il quale non era previsto un quorum: il 68,4% degli aventi diritto.

E’ proprio questo il dato su cui riflettere maggiormente. Gli italiani delle massicce astensioni, della stanchezza, delle delusioni, dell’incertezza sul futuro hanno invece voluto affermare con forza la loro fiducia nella democrazia e nella Carta Costituzionale che la garantisce. Sono stati soprattutto i giovani a fare questa scelta: circa l’80% dei ragazzi al di sotto dei 28 anni ha votato NO, tanti dei quali hanno urlato nei cortei e nelle piazze ‘Non in mio nome’.

Chi avrà ancora il coraggio di dire che è la vittoria della ‘conservazione’ contro il ‘cambiamento’?

La battaglia del Comitato per il NO costituito da ANPI, ARCI, CGIL ed altre associazioni di base è stata condotta contro il tentativo di rottamare la Carta fondamentale della Repubblica Democratica e Parlamentare per dare il potere in mano al governo e al suo capo.

Gli italiani hanno capito che si trattava di bocciare l’idea, periodicamente rispolverata, di affidarsi all’Uomo della Provvidenza, all’Uomo Solo al Comando, alla limitazione dei propri diritti, per privilegiare una fantomatica ‘stabilità’ la cui assenza è stata scaricata dal Presidente del Consiglio, dalla sua Ministra delle Riforme e da talune forze politiche sulla Costituzione, invece di assumersene la responsabilità.

Certo, ora assisteremo alla corsa di alcuni Partiti ad appropriarsi della vittoria che invece appartiene esclusivamente al popolo italiano. I lembi della giacca di Mattarella saranno tirati da una parte e dall’altra, ma di chi è la colpa di tutto questo? Solo ed esclusivamente di Renzi e della personalizzazione di un tema che invece riguardava la democrazia italiana, non il suo personale futuro politico. La coorte di lacché che lo ha sostenuto ha fatto il resto, così come è insopportabile l’atteggiamento di quanti, di fronte ad un documento così pericoloso per le sorti della democrazia parlamentare, hanno preferito non prendere posizione, aspettando, magari, di salire oggi sul carro dei nuovi vincitori.

Tutti questi, se non vogliono definitivamente uscire di scena, che la smettano di parlare di ‘ondata populista’. Se il ‘popolo è sovrano’ lo è sempre, anche quando prende direzioni proprie, diverse da quelle sognate dall’establishment di turno.

In questo scenario si staglia nettamente la Sardegna: è stata la regione d’Italia nella quale, percentualmente, si è avuta la più alta adesione al NO.

Ben il 72,2% ha scelto una strada diversa da quella indicata dai governanti regionali. Governanti che hanno preferito guardare al loro partito politico, piuttosto che agli interessi dei sardi. Come si poteva accettare lo stravolgimento dell’articolo 117? Come si poteva far finta di nulla di fronte alla nefasta clausola della ‘Supremazia?’ Come si potevano giudicare credibili le assicurazioni dell’eternamente sorridente Maria Elena Boschi, contraddette da quello che c’era scritto nel testo da lei stessa proposto? (E a Cagliari il NO si è attestato sul 69,71%)

Tutti scenari negativi, dunque? No, tutt’altro. I lunghissimi mesi della campagna referendaria combattuta dal Presidente del Consiglio, dal Governo e dalla sua maggioranza a suon di slogans e con una insopportabile sovraesposizione mediatica – senza che mai siano intervenute le cosiddette autorità di garanzia – hanno consentito ai comitati per il NO sparsi in tutta Italia di ritrovare i cittadini.

Centinaia e centinaia di incontri, confronti, dibattiti hanno riproposto una partecipazione alla vita collettiva che negli ultimi trent’anni è stata progressivamente cancellata dalle forze politiche le quali hanno preferito i salotti – televisivi o alto borghesi -, i ‘vertici’ con i padroni del vapore, i Marchionne piuttosto che i Landini, le Camusso, i dirigenti sindacali regionali.

Questa grande, spontanea e umanissima mobilitazione non va dispersa. I Comitati – che dovranno inventarsi un nuovo nome – devono riuscire a dare continuità a questa voglia di discussione e di passione politica che si è risvegliata nel Paese. Anche per evitare che a qualcun altro venga ancora una volta l’idea di individuare un qualche Uomo della Provvidenza.

Figura alla quale qualche settimana fa, scrivendo del clima che si respirava nella battaglia referendaria, avevo voluto dare un avvertimento, citando un autore toscano, Andrea Casotti, che in una sua opera del 1734, ‘La Celidonia’, scrisse: Chi troppo in alto sal/Cade sovente precipitevolissimevolmente.
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Domenica si è espressa una grande sfiducia in chi ha voluto mettere mani alla Carta e in chi in Sardegna se ne è fatto testimone e araldo della rinuncia all’Autonomia. Per chi ha a cuore il nostro riscatto di sardi, il nostro bisogno storico di autogoverno, è un dato da cui partire. Va costruito, i segni sono forti. Bisogna coglierli.
serieta-signoriGli italiani e i sardi non amano le avventure istituzionali
di Nicolò Migheli

By sardegnasoprattutto/ Società & Politica/

Troppe interpretazioni sulle motivazioni del rifiuto delle riforme istituzionali finiscono per essere un velo che nasconde la motivazione principe di quel no. Renzi ha giocato tutto per il tutto e ha perso. Su di lui si sono scaricate tensioni che nulla avevano a che fare con i referendum. Presidente del Consiglio non eletto in parlamento, ha cercato l’ordalia che lo legittimasse davanti all’elettorato, l’ha avuta.

Succede quando si personalizza. Si è andati oltre le predicazioni salviniane e dell’M5S, oltre la frustrazione e il rancore di chi è vittima dell’impoverimento, dei giovani che sbarcano il lunario tra un voucher e l’altro, del malessere che si è impadronito di una società che non riesce più a sperare. Tutta questa cacofonia di messaggi, ha nascosto la verità. Gli italiani non vogliono che la loro Carta Fondamentale venga stravolta. Nel 2006, regnante Berlusconi era avvenuto lo stesso e con dati quasi identici. 20016: Sì 40,9%, No 59,1% – 2006 Sì 38,71% No 61,29%.

Anche allora quel referendum venne caricato di significati altri, anche allora si voleva che Silvio Berlusconi andasse via, ma l’ex cav. non si dimise. Renzi paradossalmente dovrebbe essere contento, è riuscito a fare meglio del suo mentore ed ha tenuto i voti che il PD ebbe alle ultime europee. La conferma del dato dovrebbe diventare lezione appresa. Non si può cambiare la costituzione in modo così profondo, si possono fare aggiustamenti come è avvenuto più volte negli ultimi sessant’otto anni, non si può procedere come elefanti in un negozio di chincaglierie.

Questo è alla fin fine il messaggio. È sperabile che in futuro passi questo desiderio insano delle classi dirigenti di mettere mano ad una Costituzione che nel bene e nel male ha assicurato al Paese decenni di stabilità. Sì stabilità, perché questo valore a cui sono sensibili i mercati è dato dalle istituzioni e non certo dai governi.

Nella Prima Repubblica, gli esecutivi duravano in media pochi mesi, ma l’Italia era uno dei paesi più stabili dell’Occidente, perché saldi erano i suoi ordinamenti. Ora chi in Italia e all’estero affastella il voto del NO in un indistinto populismo non vuole rendersi conto, o lo fa in maniera deliberata, che la ragione prima è stata la difesa della Carta. È responsabilità delle classi dirigenti avere trasformato una crisi della politica in crisi istituzionale.

Sono loro i populisti che facendosi forti di post-verità rilanciate da tutti i mezzi di informazione e dalle reti sociali, hanno tentato di scaricare sull’elettorato la loro contraddizione. Sono loro che si sono inventati la categoria del nemico da rottamare, non volevano con-vincere ma vincere, ed hanno perso. L’altro versante di interesse per noi, è come il referendum sia stato vissuto in Sardegna, che risulta la regione dove il rifiuto delle modifiche costituzionali ha raggiunto i valori più alti, questa volta maggiori anche del 2006. 2016, Sì 27,7%, No 72,3% – 2006 Sì 38,71%, No 61,69. Eppure la critica all’istituto regionale e alla sua autonomia in questi anni ha raggiunto quasi il parossismo.

Basti pensare alle campagne di stampa dove giornalisti di chiara fama hanno accusato le regioni di essere luoghi con la spesa senza controllo. Il disastro della regione siciliana usato come indicatore di un fallimento generale. Nonostante questo, e le critiche legittime che in Sardegna si fanno, alla fine la stragrande maggioranza dei sardi ha votato perché quell’istituto, benché incompleto e deficitario permanesse. Non è servito a nulla il racconto del Presidente Pigliaru e della ministra Boschi.

Nessuno ha creduto che il Titolo V rimanesse, o che l’autonomia venisse rafforzata. Anche nel voto sardo hanno pesato il malessere e le disattenzioni governative, la lontananza di questa giunta dai bisogni dei sardi, ma a mio avviso oggi come nel 2006 la difesa dell’autonomia è stato il collante unitario. La clausola di supremazia dell’interesse nazionale era presente nella riforma berlusconiana come in quella di Renzi, e in entrambi i casi rifiutata.

Oggi, rispetto al 2006 la Sardegna ha un problema in più, è governata da un presidente che ha agito e si è mosso per negare il suo ruolo e per impedirlo ai suoi successori. Posizione che non ebbero i presidenti delle provincie quando si fecero i referendum per la loro abolizione; loro lottarono fino all’ultimo per difendere l’ente che rappresentavano pro tempore. Tutto questo è populismo? Oppure è una sana difesa degli istituti democratici? È evidente che si tratta di democrazia, la migliore. Nessuno abbandona una casa imperfetta se non ha di meglio con cui sostituirla.

Meglio un’Autonomia imperfetta alla Nova Perfetta Fusione. La Sardegna oggi è governata da una giunta che non è riuscita a cogliere il sentire intimo di chi dovrebbe rappresentare e dovrebbe agire di conseguenza: dimettersi. Però non lo farà. I referendum sono cosa diversa dalle elezioni politiche o amministrative, quel 72,3% del No in Sardegna non è possibile intestarlo ad una forza politica, molti sono gli autori di quel successo.

Domenica si è espressa una grande sfiducia in chi ha voluto mettere mani alla Carta e in chi in Sardegna se ne è fatto testimone e araldo della rinuncia all’Autonomia. Per chi ha a cuore il nostro riscatto di sardi, il nostro bisogno storico di autogoverno, è un dato da cui partire. Va costruito, i segni sono forti. Bisogna coglierli.
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BUONA VOLONTà 10 DIC 16
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Gustavo

Le assurde priorità dei politici nostrani

imageSel e le percentuali. E la politica dov’e’ ?
di Ottavio Olita*
Giovedì 14 luglio, l’Istat fa conoscere cifre spaventose sulla diffusione della povertà in Italia: non ce n’è mai stata tanta, nell’ultimo decennio, e il dramma colpisce sempre di più i giovani.

Martedì 12 luglio: la tragedia dello scontro frontale fra i treni in Puglia dà ancora una volta la terribile dimostrazione del ritardo infrastrutturale del sud d’Italia. Ritardo che non si traduce più soltanto in servizi carenti, ma addirittura in decine di morti e feriti.

Luglio 2016 i dati statistici continuano a confermare l’enorme incidenza della disoccupazione giovanile e il numero crescente di quanti, delusi, non si mettono neppure alla ricerca di un impiego. Tutto questo mentre il jobs act viene sbandierato come soluzione dei problemi e contemporaneamente viene sottovalutato o ignorato del tutto il grave problema della dequalificazione professionale diventata quasi obbligatoria per chi vuole trovare un qualunque lavoro, oltre alla perdita di diritti elementari e al pagamento delle prestazioni con voucher.

In questa situazione, tu, uomo progressista, di sinistra, che credi fermamente nei doveri dello Stato verso i cittadini-contribuenti onesti, ti aspetteresti un duro atto d’accusa da parte di una delle forze politiche di riferimento, quale Sel. Invece cosa leggi? II dirigenti sardi di quella formazione politica lanciano un duro attacco contro Sinistra Italiana, denunciandone il fallimento. La rivendicazione è riferita al fatto che il 7,8 per cento ottenuto alle comunali di Cagliari dà a Sel il diritto-dovere di allearsi con il Pd – qualunque esso sia? – e con gli altri partiti con i quali governa alla regione e al comune.

Pura logica di potere. Ma la politica, dov’è la politica? Quella che non c’è e che ha spinto alla delusione la gran parte dei maggiori sostenitori di Francesco Pigliaru nella corsa a presidente della Regione; quella della eliminazione delle tasse aeroportuali dal primo settembre, a stagione estiva ormai conclusa; quella del gran pasticcio della Asl unica; quella delle modalità della lotta alla peste suina africana che fa imbestialire gli allevatori barbaricini. E quanto ancora si potrebbe raccontare!

Quel che conta è quell’8 per cento. Almeno fosse un riconoscimento del successo personale di Massimo Zedda! Neppure quello. Lo sbandieramento di quel 7,8 per cento equivale al pesante condizionamento che all’epoca della tanto deprecata prima repubblica partitini come il Psdi o il Pli, con segretari come Pietro Longo o Malagodi, mettevano in atto nei confronti della Dc per occupare posti di governo e sottogoverno.

Ma davvero Sel può credere che ottenendo una poltrona in più nella Pigliaru-bis e non ponendo precise questioni politiche, il governo regionale potrà migliorare? O può pensare che il pifferaio magico fiorentino potrà impunemente continuare ad affermare che prima di lui non c’è stato niente e che solo con lui le cose cambiano? E non intende chiedere, Sel, come ha fatto Sinistra Italiana, in qual modo questo cambiamento si attuerà in Italia? Forse con quella pericolosa riforma costituzionale che mette a rischio la futura democrazia? Ecco l’ultimo e più importante banco di prova. Finora silenzio. Ma non potrà essere così fino all’autunno. Non sarà che lo scontro con Sinistra Italiana abbia per finalità ultima proprio quella di prendere una posizione diversa su quel tema fondamentale? Spero di sbagliare.

L’ultima considerazione è sconsolante. Ancora una volta si è persa l’occasione di favorire l’incontro invece di brandire l’arma dello scontro. Con quale scopo? Sconsolante e preoccupante perché è questa la strada che potrebbe portare il pifferaio magico fiorentino e la sua idea di una democrazia autoritaria a sconfiggere la voglia di partecipazione che sente ogni cittadino convintamente democratico. Chiusi nelle stanze del potere, in torri d’avorio impedite di aprirsi alla società, si rischia di diventare, politicamente, ciechi e sordi

* su il manifesto sardo
Ottavio Olita http://www.manifestosardo.org/wp-content/uploads/2016/07/ottavio-olita-1024×682.jpg

Interventi di pregio nel dibattito post elettorale

Boom-M5SNon è stato sconfitto solo Renzi

democraziaoggidi Tonino Dessì su Democraziaoggi

A tutti quelli che vanno dicendo che il M5S nazionalmente e a Napoli De Magistris hanno vinto grazie ai voti della destra, consiglierei intanto di ragionare su questi dati. Il Pd e quel che rimane del centrosinistra perdono in questo ballottaggio: Roma, Torino, Trieste, Pordenone, Savona, Novara, Grosseto, Isernia, Brindisi, Benevento,Carbonia, Olbia. Solo a Varese e Caserta strappano il comune al centrodestra. Il resto, comprese Milano e Bologna, sono riconferme. Nel dettaglio: a Milano Sala prende 262.800 voti contro i 245.350 di Parisi (Pisapia 5 anni fa fece 365.657 contro i 297.874 della Moratti); a Bologna Merola prende 82.650 voti contro i 68.500 della Bergozoni (5 anni fa fu eletto al primo turno con 106.070).
Il punto è che, nonostante le furbe strizzate d’occhio di Salvini e le aspettative di FI a Milano, gli elettori del M5S non votano a destra da nessuna parte e i voti degli elettori di destra se li prendono autonomamente, senza chiedere nè concedere politicamente nulla, mentre una quota consistente di elettori del centrosinistra ha mollato la coalizione: non certo tutti per astenersi.
Del resto, a Napoli il voto a Lettieri son stati dirigenti del PD campano, a chiederlo esplicitamente e a Cagliari la composizione delle liste e degli eletti di partiti come il Partito dei Sardi e il PSd’Az (rispettivamente un eletto ex finiano e uno ex CDU) ha messo in evidenza come nella coalizione vincitrice siano confluiti consensi di destra.
In campo nazionale gli sconfitti quindi sono in realtà tre: PD, Salvini e FI.
Direi che l’autonomia dell’elettorato pentastellato, persino più evidente, alla prova dei fatti, rispetto a quella pur formalmente ineccepibile dei suoi esponenti, si è rivelata decisiva in tutte e tre le sconfitte. Questa relativa autonomia dell’elettorato grillino dovrebbe far riflettere.
Nei giorni scorsi, infatti, ho pensato e scritto sull’opportunità di votare M5S come scelta autonoma, da parte di persone democratiche e di sinistra come me. Siccome non mi reputo una persona capace di intuizioni particolarmente originali, mi domando se questa scelta autonoma una gran parte dell’elettorato di sinistra “scomparso” non l’abbia già fatta per conto suo, senza troppe chiacchiere e senza aspettare nessuno di noi.
Non è possibile infatti che un movimento diventi in poco tempo una delle tre forze politiche principali del Paese -in una condizione di crescente astensionismo- senza prelevare voti da entrambi i tradizionali serbatoi del voto attivo residuato e moltissimi da quello che un tempo era voto di sinistra.
Noi conosciamo l’immagine degli elettori e degli attivisti grillini tramite la stampa e tramite i loro blog ufficiali e semiufficiali. Forse anche una certa immagine che loro hanno di se stessi dipende da quel tipo di canali. Tuttavia ormai bisogna chiedersi se non sia più che probabile una composizione culturale, sociale e politica del loro elettorato assai più composita di quanto a loro stessi fino a ieri non sembrasse. E se non ci si trovi di fronte a un voto “a tema” o “di scopo” e con mandato tanto imperativo quanto revocabile.
Il che deve anche far temere e perciò indurre a non ritenere auspicabili sia un eventuale fallimento della prova di governo locale da parte del M5S sia una sua omologazione sia una sua implosione, che potrebbero aprire, per un certo elettorato, strade e scelte più radicali ancora, rischio che mi è capitato di sottolineare in precedenti occasioni.
Mi pare di poter dire che anche in Sardegna la situazione sia analoga.
M5S sta ancora compiendo l’avvio di un radicamento con risultati che, partendo da quasi zero, sono comunque saliti in alcune città importanti alla doppia cifra. Porto Torres e Assemini hanno sindaci del M5S. Ora anche Dorgali e Carbonia. Non sono comunelli qualsiasi: tre sono centri che hanno vissuto e vivono la crisi industriale; uno è tra i maggiori centri agricoli, artigianali e turistici della Sardegna centrale. Qualcosa vorrà pur significare.
Il tutto ottenuto in una situazione caratterizzata dal deserto di ipotesi alternative credibili.
Il consenso ottenuto da Sardegna Possibile nel 2014, facilitato dalla scelta del M5S italiano di non consentire a una acerba e rissosa propaggine locale di presentarsi alle elezioni regionali, è stato stroncato dalla legge elettorale predisposta ad hoc dall’establishment proprio per prevenire un exploit pentastellato. Quell’ampio consenso è stato poi dissipato da un gruppo di soggetti promotori incapaci di reggere alla sconfitta successivamente al momento elettorale.
La restante galassia identitaria si articola tra ipergovernativi (subalterni a un quadro politico regionale che più renziano di così non si potrebbe, per di più alla vigilia del referendum su una proposta di riforma che, se passasse, affosserebbe le prospettive della specialità sarda in modo pressocchè irreparabile) e alleati con una frangia della destra in un cartello locale. Magri risultati per gli uni a Carbonia, dove il Presidente della Giunta era sceso a lanciare l’anatema “Se sbagliamo il sindaco, piani di rilancio a rischio”, pessimi per gli altri a Olbia, dove non arginano nemmeno la vittoria della destra vera, nella quale anzi al ballottaggio hanno finito per confluire.
Il fatto è che l’elettorato vuole alternative visibili, immediate e mette al primo posto l’obiettivo di dare spallate a situazioni ormai incancrenite e insostenibili, perciò non si fa incantare da soggetti che non stanno al passo con l’agenda, ma cercano piuttosto di ritagliarsi spazi di comodo, comunque subalterni, dentro il sistema dato.
Per ora null’altro si può dire, mi pare, se non che comunque il risultato elettorale fa ben sperare sulla vittoria del NO al referendum costituzionale. Non si tratterebbe di cosa da poco. Sarebbe sconfitto col voto popolare il secondo tentativo di stravolgere la Costituzione nei fondamenti organizzativi della democrazia repubblicana: la centralità di un Parlamento ampiamente rappresentativo e l’articolazione in soggettività istituzionali non comprimibili dallo Stato centrale. Ne seguirebbe immediatamente l’inapplicabilità dell’Italicum e l’impossibilità per il futuro di formare governi di minoranza. A quel punto, confermate le fondamenta della struttura costituzionale, tutti i giochi saranno più aperti e nessuna avventura sarà più consentita a nessuno.
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NO NO NOOO
Amministrative. Allarme rosso per il Pd
20 giugno 2016
di Ottavio Olita su il manifesto sardo

Un elettorato in rivolta non deve essere ignorato. Il rischio è essere spazzati via dalla scena politica. Lo capirà, almeno stavolta, il Pd succube del renzismo? I segnali si erano già avuti il 5 giugno, giorno del primo turno delle amministrative. La controprova data dall’esito dei ballottaggi è da allarme rosso.

Che l’elettorato storico del principale partito della sinistra sia in rivolta non lo si evince soltanto dai risultati delle città capoluogo di regione; è molto evidente anche da quel che è accaduto nei comuni sardi. Carbonia, Sinnai, Monserrato ed Olbia ne sono l’esempio eclatante. In particolare Sinnai. La candidata ufficiale del Pd, sindaco uscente, è stata battuta dal rappresentante di una coalizione di sinistra, Matteo Aledda. Senza un sostanzioso apporto di elettori Pd quel risultato non ci sarebbe stato. E cosa dire, poi, di Carbonia, storico presidio dell’elettorato di sinistra, passato in gran numero ai Cinque Stelle?

Tutto questo non è soltanto il risultato delle politiche degli annunci, degli slogan, delle promesse che non si traducono in fatti reali. Questa situazione è stata determinata anche dalla progressiva, continua esclusione dei cittadini dalla partecipazione alla discussione e all’elaborazione dei progetti politici. Se l’unica occasione di espressione di volontà popolare che viene concessa è l’appuntamento elettorale, le risposte di chi non ha avuto la possibilità di parlare e quindi è deluso o insoddisfatto possono essere solo due: un voto contro o l’astensione.

E di quanto sta crescendo, progressivamente, il numero dei cittadini che, stanchi e amareggiati, non vanno più a votare? Dovrebbe essere il dato più preoccupante per ogni società realmente democratica. E invece pare che la cosa non venga presa nella dovuta considerazione. Un’altra salutare lezione dovrebbe derivare dalla lettura dei risultati nazionali. Piero Fassino, stimato e onesto ex segretario del partito, ha probabilmente pagato l’abbraccio mortale che gli ha offerto il suo erede, tanto amico e sostenitore di Marchionne, responsabile dell’esproprio della Fiat subito da Torino, e accanito avversario dei metalmeccanici e della Fiom.

E Napoli? Con l’improponibile pasticcio delle primarie che ha impedito al partito di avere un candidato credibile. Così Luigi De Magistris, con le sole liste civiche a sostegno, ha vinto grazie alla credibilità personale che ha saputo costruirsi nel corso del primo mandato. Quanti elettori Pd lo hanno sostenuto nello scontro con il candidato del centrodestra? Un bell’insegnamento dalla capitale del Sud, nettamente contrapposto a quanto accaduto a Benevento dove è ricomparsa ancora una volta la figura di un abile gestore di pacchetti di voti come Clemente Mastella.

Il Sud, ancora una volta combattuto tra nuova e vecchia politica. Ma probabilmente il responso più significativo della bocciatura della politica renziana viene proprio da Milano, dove il candidato del centrosinistra ha vinto. Perché? Perché lì la contrapposizione con il centrodestra, una parte del quale governa il paese insieme con l’ineffabile Presidente del Consiglio, è stata netta e inequivoca. Nello scontro frontale e diretto gli elettori non hanno avuto difficoltà a scegliere.

Altro che Partito della Nazione, dunque! L’Italia ha bisogno di collocazioni politiche chiare, di scelte precise per poter capire. In questo senso è molto utile la riflessione avviata, proprio su questo giornale, da Marco Ligas relativamente all’esito del voto di Cagliari e al successo personale di Massimo Zedda. La lezione che gli elettori di mezza Italia hanno voluto impartire è netta e un abile politico, come Massimo Zedda si è rivelato, non stenterà a capirla anche per il suo futuro politico.

Ora attendiamo le valutazioni che la direzione del Pd darà di quanto è successo il 19 giugno. Forse ancora una volta ci sarà un colpo al cerchio ed uno alla botte. Ma a cosa servirà? Tra pochi mesi, in ottobre, ci sarà l’importante appuntamento con il Referendum Costituzionale che, per volontà dello stesso Renzi, poi parzialmente ritrattata, rischia di trasformarsi in un plebiscito su di lui. Un partito cosciente della gravità della situazione dovrebbe guardare più ai rischi futuri per la Democrazia impliciti in quella riforma piuttosto che alla sorte del Segretario-Presidente.

Poi, nel 2018, salvo al momento imprevedibili anticipazioni, ci saranno le Elezioni Politiche. Per ricostruire un rapporto con la base elettorale, per rilanciare un forte spirito di partecipazione e per definire programmi politici, lasciando da parte slogan e demagogia, bisogna mettersi a lavorare subito cercando di riallacciare tutti i rapporti con gli alleati veri, quelli con i quali storicamente si è dialogato, non gli opportunistici legami per governare a tutti i costi.
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Piovono Rane
di Alessandro Gilioli su L’Espresso Blog
20 giu È finita l’aria serena dell’Ovest

Se Aristotele ci diceva che non c’è effetto senza causa, i risultati delle elezioni ci dicono sempre che ogni effetto ha più cause: insomma che è sciocco individuare un unico motivo di una stessa ondata. Il che è tanto più vero quando si tratta di elezioni amministrative, quindi le tendenze nazionali (che pure ci sono) si mescolano a situazioni locali.

Però qualche ipotesi si può farla, a iniziare dal confronto con l’onda molto diversa di due anni fa, quella delle europee con il Pd oltre il 40 per cento.

Già nei giorni successivi a quel voto chi non era ipnotizzato aveva abbastanza chiaro il fatto che il risultato di Renzi fosse gonfiato da un mix di cause coincidenti: un’assenza di accountability quasi virginale (era premier da soli tre mesi, insomma non doveva ancora render conto di niente); la narrazione ancora fresca del nuovo contro il vecchio (quindi la possibilità di incanalare nei suoi consensi una fetta del desiderio diffuso di cambiamento); la provvisoria chance di assommare questi voti nuovi a tutto il corpaccione storico del Pd (cioè l’abbrivio di provenienza Pci, il 20-25 per cento che votava Pd senza se e senza ma). Più gli ottanta euro, certo.

Tutte e quattro le concause di cui sopra si sono esaurite, in questi due anni.

Inevitabilmente ora il premier deve rendere conto dell’azione di governo e della situazione economica; l’immagine da rottamatore nuovista si è trasformata in un prevalente percepito di establishment, quindi il contrario di due anni fa; il corpaccione storico del voto Pci-Pds-Ds-Pd si è sfrangiato non solo ai vertici, ma anche in una parte degli elettori; e l’effetto 80 euro è decisamente finito, pure con qualche beffa.

Di tutto questo l’elemento più rilevante è probabilmente lo iato (se non l’abisso) tra narrazione e realtà. Cioè tra l’immagine dell’Italia che il capo del governo brandisce e la vita vera, quotidiana, di milioni di persone, soprattutto quelle più giovani, in questo Paese.

Io capisco l’esigenza di ogni premier di esibire ottimismo e di inoculare fiducia, ma quando il distacco tra gli illusionismi e la realtà diventa troppo ampio, l’effetto è quello opposto. Si insinua cioè il forte dubbio, in molti, di essere presi per i fondelli.

Detta diversamente:
se io faccio suonare le trombe per ogni striminzito decimale di Pil in più (a fronte di una crisi dalla quale ad andar bene si uscirà tra 15 anni);
se io utilizzo la mia macchina mediatica per enfatizzare oltre ogni limite accettabile dati sull’occupazione quanto meno altalenanti (e sempre catastrofici per gli under 40) che considerano “occupato” anche chi lavora un’ora al mese nel ristorante di papà;
se io deformo la realtà attribuendo al Jobs Act falsi effetti taumaturgici, gabellando per un effetto della licenziabilità quei posti di lavoro che invece lo Stato ha di fatto comprato con le decontribuzioni, cioè con i soldi di tutti noi;
se io faccio finta che non esista la realtà di una generazione senza speranza, di quaranta-cinquantenni che campano a voucher, di anziani che scoprono di doversi indebitare fino al decesso per non dover lavorare fino al decesso:
beh, se tutto questo accade e io vado in tivù o in rete a fare il brillante, rovesciando solo pernacchie a chi disvela coi numeri questo falso imbellettamento del reale, ecco, prima o dopo il conto arriva.

Ed è arrivato.

Personalmente, con rispetto, mi ero permesso di suggerire inutilmente al Pd e ai suoi comunicatori di andarci molto più piano con la grancassa di balle: «Quando andranno a sbattere contro questa complicata realtà, le radiose aspettative di rapida guarigione vendute sul mercato mediatico dal presidente del Consiglio otterranno l’effetto opposto. Cioè delusione e senso di impotenza, quindi rabbia crescente». Ecco, ci siamo. Non è che ci volesse chissà quale lucidità d’analisi. Bastava un po’ di buon senso. E magari qualche frequentazione dei bar, dei giardinetti, dei negozi, degli autobus.

E fin qui le principali cause nazionali, quelle che emergono dal cosiddetto “voto politico” sui partiti e i leader nazionali.

Poi ci sono dinamiche che invece sono internazionali, cioè paneuropee e pure nordamericane: una gigantesca, trasversale e confusa rivolta contro l’establishment politico ed economico. Una guerra alle élite e allo status quo dichiarata dell’ex ceto medio impoverito, dall’ex “aristocrazia operaia” iperprecarizzata, dalle giovani generazioni furiose per il futuro rubato.

Togli alle persone reddito, stabilità, speranza e dagli in cambio la sensazione che la democrazia si stia svuotando perché nel mondo comandano quattro banchieri e tre algoritmi: cosa ne esce, se non un’incazzatura globale?

In questo quadro diffuso, ad esempio, non sembra esattamente un caso che tra le quattro maggiori città italiane il Pd abbia tenuto soltanto in quella dove la crisi c’è, certo, ma il benessere non manca, i servizi pubblici funzionano e il maggior partito anti-establishment non ha saputo organizzarsi.

Le dinamiche di Milano quindi sono state – a questo giro – non metaforiche del resto del Paese, ma eccezionali rispetto a esso.

Essendo il Pd vissuto come partito dell’establishment, non è strano che ce l’abbia fatta laddove il desiderio di rovesciare l’establishment è un po’ minore. Come a Milano e più in generale nei centri storici, ad esempio.

Poi entra in gioco, appunto, il terzo gruppo di concause, quelle locali.

Di cui Roma è l’emblema perfetto: qui centrodestra e centrosinistra hanno fatto talmente schifo, che Raggi ieri avrebbe vinto anche se avesse passato il sabato a picchiare passanti a caso con l’ombrello. Di nuovo, non c’era bisogno di raffinate analisi per capirlo, bastava girare per strada, parlare con le persone. Il “sentiment” era di un’evidenza solare.

A tutto ciò si è aggiunta una candidata donna con un’immagine di novità e freschezza – piaccia o non piaccia – più gli errori catastrofici del Pd gestito da Orfini: dal modo in cui ha affrontato Mafia Capitale all’estromissione notarile di Marino, dalla sponsorizzazione dei poteri edilizi di Caltagirone e dintorni fino al delirio dell’ultima settimana, un tentativo di “character assassination” dell’avversario che ha ottenuto esattamente l’effetto opposto a quello voluto.

Di certo, in conclusione, c’è che adesso in Italia sono saltate definitivamente le geometrie politiche che hanno caratterizzato lo scontro politico per oltre un ventennio.

Ce ne sono di nuove, confusamente basate sulla dialettica tra establishment e anti establishment, con quest’ultima area che tuttavia viene interpretata da soggetti diversi in luoghi diversi – principalmente M5S, ma anche De Magistris e le liste civiche che hanno vinto a sorpresa come a Latina e altrove, e Salvini non è affatto morto. Del resto anche negli Stati Uniti il sentimento anti establishment ha creato sia Trump sia Sanders. E in Gran Bretagna sia Farage sia Corbyn.

Quelle nuove sono geometrie provvisorie, probabilmente. Perché essere “anti-establishment”, appunto, di per sé non rappresenta un pensiero omogeneo: sicché questa galassia si definirà nelle sue diversità e perfino nei suoi opposti. E adesso è anche un po’ al governo, quindi a sua volta passibile di accountability, col tempo.

Siamo in un interregno, insomma. Con nuove chance e nuovi rischi: come sempre, quando finisce un sistema.

Un mix di possibilità e di rischi che va oltre non solo Roma e Torino ma anche oltre l’Italia – e ormai perfino anche oltre l’Europa.

Ci avevano detto che, caduto il comunismo, “la storia era finita”: che avremmo sonnecchiato per chissà quanti decenni avvolti dall’“aria serena dell’Ovest”.

Che sciocchezza che era.