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Una Chiesa incarnata
L’ aereo su cui viaggiavo aveva incominciato la discesa verso l’aeroporto di Managua. Una notte di una trentina d’anni fa, quando il Nicaragua era governato dai sandinisti, quando gli squadroni della morte imperversavano su quasi tutta l’America centrale, quando gli Stati Uniti sostenevano e finanziavano l’operazione “contras” nel tentativo di rovesciare il governo sandinista. Il libro di letture che mi accompagnava durante il volo era costituito dalle omelie di Monsignor Óscar Romero, barbaramente trucidato sull’altare da una delle bande che imperversavano nella repubblica del Salvador. Improvvisamente, le luci dell’aeroporto si spensero, l’aereo fu prima costretto a riprendere quota, quindi a cercare rifugio in un aeroporto vicino, proprio quello del Salvador. Fummo invitati a scendere. Avremmo dovuto passare la notte in un albergo della capitale per riprendere il viaggio verso Managua il giorno seguente. Ebbi paura, lo confesso, all’idea di dover subire un controllo della polizia di frontiera di uno degli stati più repressivi della zona. Di un governo che, verosimilmente, aveva ispirato l’assassinio di Monsignor Romero. Ebbi paura, e decisi di abbandonare sull’aereo il libro che stavo leggendo. Le prediche di quel monsignore, proveniente da una classe sociale non certo “popolare”, che quando aveva incrociato le sofferenze di un popolo oppresso dalla dittatura e dalla fame, aveva deciso, semplicemente, di seguire la strada della liberazione del suo popolo. Per questo, nonostante i più o meno espliciti inviti, o minacce, della autorità salvadoregne, aveva deciso di non tirarsi indietro nel denunciare le continue violazioni della dignità umana ed i crimini che venivano commessi quotidianamente in San Salvador. Sino a morire, come tanti altri. Sino a prevedere, o almeno a mettere in conto, la morte sua e quella di altri sacerdoti (sei gesuiti sarebbero stati trucidati dagli stessi squadroni della morte, qualche anno più tardi, nel 1989. E’ verosimile che Papa Francesco ne abbia un ricordo personale). Mettere in conto anche il sacrificio supremo.Del resto, così rifletteva Monsignor Romero prima della sua morte: “Sarebbe triste che in un Paese in cui si assassina così orrendamente non contassimo tra le vittime anche dei sacerdoti. Essi sono la testimonianza di una Chiesa incarnata nei problemi del popolo”. La ricordo, quella giornata, le ore di trepidazione passate a San Salvador prima di essere re-imbarcato verso Managua. Soprattutto, ricordo, come fosse ieri, il senso di vergogna che aveva accompagnato quel mio gesto, l’abbandono del libro dentro l’aereo, quella sorta di tradimento. Mi erano venute in mente le parole di Pietro prima che il gallo cantasse: No, non lo conosco. Ma non era vero che non lo conoscessi. Era come se lo rinegassi, proprio dopo essermi lasciato affascinare dalle sue omelie. In quell’angolo di mondo, dove la Chiesa vestiva abiti di sofferenza, e di speranza, dove ho visto un’arma, assieme ad altre offerte portata sull’altare del sacrificio di Cristo. La decisione di Papa Francesco, di procedere con la beatificazione di Oscar Romero, non ci assolve, non fa dimenticare dimenticare le nostre debolezze, ma rafforza la nostra speranza.
* articolo pubblicato anche sulla rivista “Il Portico”