Tag Archives: Migheli
Un po’ di serietà signori!
Lo sconcerto delle élite e la mediocrazia
di Nicolò Migheli
By sardegnasoprattutto / 2 luglio 2016 / Economia & Lavoro/
Il voto britannico del 23 giugno ha avuto sulle èlite europee l’effetto di un calcio in bocca. Se con il nuovo ballottaggio delle presidenziali austriache dovesse vincere un neonazista, le razioni stizzite e di incomprensione si ripeteranno. Si è passati dall’incredulità al rancore. Si è arrivati a mettere in dubbio il suffragio universale, a negare il voto ai poveri e quelli che non hanno studiato. La ragione una sola: non sono persone razionali, sono preda del primo populista che passa. Viene da chiedersi, dove erano tutti questi razionali in questi anni?
Dove era quella sinistra che aveva ragion d’essere nella difesa di poveri e diseredati? La risposta: in club esclusivi, o cercando di farsi accogliere nei circoli che contavano. Evidentemente le fabbriche, i campi e le officine avevano senso solo nelle residue canzoni, nei riti stanchi degli scioperi. Loro i razionali erano nel tempo, la globalizzazione non si può fermare, dicevano e scrivevano. Se il lavoro scompare, tanto peggio per il lavoro. Mi ricordano un aneddoto raccontato da Sergio Quinzio che trovandosi in un refettorio di un convento alla sua affermazione sul mistero della resurrezione della carne ebbe sorrisi compatiti e la risposta dell’abate: “Quindi lei crede alla resurrezione della carne?” Poi solo scuotimenti di testa divertiti.
Allo stesso modo la sinistra ha creduto che la scomparsa dell’Urss fosse una re-apocalisse, una rivelazione al contrario, in questo caso, la legittimazione della propria inutilità. Ancora con questa lotta di classe? Siamo in piena post modernità, le classi non hanno più senso, bisogna teorizzare le comunità di destino. Marx sostituito da Nietzscke, l’innamoramento per lo stato di eccezione di Carl Schmitt per i più colti, gli altri nei programmi tv a fare gli autori di talk schow o della televisione di intrattenimento pomeridiana, teorizzando che lo spettatore e l’elettore avevano l’intelligenza di uno scolaro di prima media che stava negli ultimi banchi della classe. Oppure a discettare di intraprenditorialità, la precarizzazione degli altri. Loro, garantiti dai legami familiari, dalle loro appartenenze di ceto. Loro sicuri e gli altri nei marosi dell’incertezza, vivendo di contratti di un giorno e di voucer.
La fuori tagli pesanti all’istruzione e la ricerca, la sanità per chi può pagarsela, loro no, i figli nelle migliori scuole europee e le cure della sanità privata. E poi ci si meraviglia se i demagoghi hanno praterie su cui liberare i cavalli del risentimento popolare. Bisogna seguire la corrente del fiume.
Ma, porca di una miseria, siete stati eletti per questo? Vi hanno votati perché voi rappresentaste noi, e non quei signori che frequentate nei salotti. Perché cambiaste lo stato delle cose. Perché vi ricordaste da dove venite Tutto diventa destabilizzante, la richiesta di maggior giustizia sociale, per la Sardegna di atti minimi come una politica linguistica coerente per un sardo ufficiale, il muso duro con Roma sui trasporti, sulla ennesima svendita del nostro territorio, sull’appalto della sanità ai fondi sovrani del Qatar.
Non vi stiamo chiedendo chissà quale indipendenza, ma dignità, la possibilità di guardarci allo specchio senza piangere. No! Non sia mai che a Roma qualcuno pensi che siamo separatisti come una volta quelli della Lega. La puzza di localismo sardegnolo è insopportabile nei circoli che contano. Come è potuto accadere tutto questo? Me lo chiedo e trovo risposta nel filosofo canadese Alain Denault, docente di scienze politiche dell’università di Montreal che ha scritto un libro dal titolo eloquente: Mediocratie, mediocrazia. Il governo della rivoluzione anestetizzante, l’atteggiamento che induce a posizionarsi sempre al centro, all’estremo centro. Persone mediamente preparate, mediamente competenti, soprattutto affidabili per il sistema.
Chi conosce le organizzazioni sa che sono intimamente conservative, rifiutano i troppo competenti e gli incompetenti. Sono destabilizzanti, i primi soprattutto. Tutto deve essere standardizzato, sostiene Denault, e quindi la mediocrità come modello. È avvenuto nelle università, nelle imprese, ed infine nella politica. Adeguarsi al pensiero dominante e alla incarnazione nel leader. Si può continuare così? Si può agevolare una reazione popolare che potrebbe essere terribile?
Lo stesso Henry Kissinger dichiara che l’Europa potrà salvarsi se avrà un atto di identificazione, uscire da una visione solamente contabile ed amministrativa della realtà. Se questo è vero per la Ue lo è ancor di più per la Sardegna. Dateci un’idea, una prospettiva, abbiate uno slancio. Ci accontentiamo di poco.
Per la Sardegna nostra patria
Le feste nazionali vorrebbero essere un momento di unità del popolo ma quasi mai lo sono. Il 14 Luglio è rifiutato ancora oggi da una minoranza consistente di francesi che si rifanno alla Vandea e alla controrivoluzione. La commissione incaricata di scegliere una data simbolo da far diventare sa Die de sa Sardigna discusse molto. C’era chi proponeva il 30 giugno in ricordo della battaglia di Sanluri del 1409, data in cui la Sardegna perse la propria indipendenza.
Altri il 14 aprile quando ad Uras nel 1470 i sardi sconfissero per l’ultima volta gli aragonesi. Alla fine venne scelto il 28 aprile pur consapevoli che quel giorno portava con sé molte ambiguità. La Sarda Rivoluzione non ha mai avuto una buona pubblicistica. La cacciata del viceré Balbiano e della sua corte, venne letta da sempre come un fatto episodico; una ribellione dei nobili e dei borghesi per poter accedere alle cariche alte dell’amministrazione regia. Fin dagli inizi lo storico savoiardo Manno pose l’accento su chi aveva chiesto il perdono al re.
Ancora oggi, per alcuni, il tema è il tradimento di cui fu oggetto Giovanni Maria Angioy. Quell’episodio diventa il racconto della subalternità accettata. Un destino voluto che dovrebbe precludere qualsiasi autodeterminazione. Non viene ricordato che fu quella rivoluzione a determinare l’ingresso della Sardegna nella modernità; che fu l’unica rivoluzione europea, benché ispirata dall’illuminismo, a non essere stata promossa dai francesi al contrario del ‘99 napoletano. L’ostilità a quella data è ancor più forte in certa sinistra sarda che dovrebbe rivendicarla come sua. La rifiuta perché quel giorno è della Sardegna, ed ogni riferimento alla nazione dei sardi viene visto come pericoloso. Nazione come sciovinismo, come leghismo.
Si cita Antonio Gramsci ma si è segnati dal leninismo centralista riletto da Togliatti. Salvo poi impegnarsi per le cause di patrie altrui purché siano terzomondiste e antimperialiste. Un’ostilità che rasenta il pretestuoso. Un retroterra culturale che in maniera non esplicita anima la riforma della Costituzione voluta da Renzi. Il 25 aprile su Rai 1 Fabio Fazio ha ricordato la Liberazione. In quella trasmissione nessun cenno alle 4 Giornate di Napoli liberata dai suoi abitanti e non dagli alleati. Nessun riferimento alle repubbliche partigiane del nord d’Italia.
Un’attenzione a nascondere ogni possibilità di autogoverno realizzato che contrasti con le spinte all’abolizione delle autonomie. Un racconto che diventa fondante per il Partito della Nazione, quella italiana però. Quest’anno sa Die de sa Sardigna correva il rischio di vedere la Regione latitante. Solo l’insistenza dell’assessorato competente con un finanziamento esiguo e all’ultimo momento, ha evitato alla massima istituzione dei sardi la vergogna dell’assenza. Sa Die la giunta l’ha voluta dedicare al cibo, il Consiglio Regionale nella seduta solenne ha trattato di scorie nucleari.
Temi importanti per carità, ma che avrebbero trovato giusta collocazione in tante altre occasioni. Uno spostamento che nasconde il timore di affrontare le vere domande che pone il 28 aprile: siamo nazione? Chi è la nostra patria, l’Italia o la Sardegna? Visto che fino al 1847 abbiamo avuto storie differenti, quando gli interessi tra Italia e Sardegna divergono, quali debbono prevalere? La sera del 29 ottobre 1922 chiuso il congresso di Nuoro del Psd’A, si tenne una riunione drammatica. Quella sera un gruppo ristretto di dirigenti del partito si trovò a decidere se si dovesse resistere con le armi alla Marcia su Roma dei fascisti.
Era in ballo se si dovesse “fare come in Irlanda” e battersi per la Sardegna, o cominciare una lotta antifascista per liberare l’Italia. Vinse la seconda posizione, quella sostenuta dai dirigenti in gran parte ex ufficiali dell’esercito educati nella scuola italiana, rispetto al sentimento prevalente nel partito più vicino all’indipendentismo. La notizia dell’incarico di formare il governo dato dal re a Mussolini, fece cadere l’opzione militare. Questo dopo un congresso che aveva visto la più grande manifestazione antifascista dell’epoca in Sardegna.
Allora come oggi, quale è la patria dei sardi? I festeggiamenti di quest’anno hanno visto una messa solenne celebrata nella cattedrale di Cagliari davanti a una moltitudine di cittadini presenti. L’arcivescovo Arrigo Miglio nella compieta ha letto una preghiera dove si diceva “Preghiamo […] per la Sardegna nostra patria”. Era dal 1847 che in quella chiesa non veniva pronunciata quella parola rivolta alla Sardegna. Un segno forte che rimarrà negli anni a venire. La Chiesa, come spesso accade, fa affermazioni che la politica pavida teme. Quelle brevi parole tentano di inserire l’episcopato sardo sulle orme di quello irlandese, basco e catalano. Non è poco. Questo 28 aprile è stato riempito di segni di speranza.
La notizia del disimpegno della Regione ha mosso i cittadini e le associazioni. Molte iniziative, convegni, incontri nelle scuole ed infine le Barchette e sa Die in Tundu. Migliaia di sardi si sono trovati nell’isola e nel mondo a fare cerchi e a ballare. Migliaia di sardi hanno fatto barchette di carta da donarsi reciprocamente. In quelle barchette metaforicamente ci si metteva tutto quello che non va: furto di terre, scandali, inquinamenti, disoccupazione, abbandoni ed imposizioni varie. Sono stati atti in cui l’appartenenza ha superato l’identità. Sardi di nascita e sardi per scelta che condividono una presa di coscienza sul destino di un popolo e della sua terra.
Una dimostrazione che sa Die è entrata nel cuore. La politica dei partiti italiani come sempre non ha capito o non ha voluto capire, una parte della società sì. Non è un problema. Parafrasando Mitterand, la politique suivra.
* L’articolo di Nicolò Migheli viene pubblicato anche sui siti di FondazioneSardinia, Vitobiolchini, Tramasdeamistade, Madrigopolis, Sportello Formaparis, Tottusinpari e sui blog EnricoLobina e RobertoSerra, SardegnaSoprattutto.
—————————————-