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Editoriale
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Auguri a noi e al mondo
Gaza, i dannati della terra
C’è qualcosa di osceno nello stare qua a discutere se a Gaza sia in corso o no un genocidio: come se discutessimo della guerra del Peloponneso, o della crociata contro gli Albigesi. Fermare le atrocità in corso contro una popolazione assediata, affamata e bersagliata con crudeltà non è solo un obbligo morale e giuridico, è un presupposto imprescindibile se vogliamo restare umani.
Domenico Gallo 20.12.2024“C’è qualcosa di osceno nello stare qua a discutere se a Gaza sia in corso o no un genocidio: come se discutessimo della guerra del Peloponneso, o della crociata contro gli Albigesi. Perché questo sta succedendo ora: nel nostro tempo, a pochi chilometri da noi. Potremmo fermarlo, se davvero volessimo: in qualunque momento. Due milioni di persone sono chiuse in quello che è ora un enorme campo di concentramento: un esercito nemico li assedia, li affama, li uccide ogni giorno” Colgono nel segno le parole di Tomaso Montanari (il Fatto, 2/122/24). Dopo che il Sudafrica ha sollevato nei confronti di Israele l’accusa di genocidio dinanzi alla Corte internazionale di giustizia dell’ONU e dopo che la CIG il 26 gennaio 2024 ha emesso un’ordinanza ingiungendo ad Israele di fermare i massacri e consentire la fornitura dei beni essenziali per la sopravvivenza alla stremata popolazione di Gaza, si è rotto un tabù politico e linguistico. La parola genocidio è stata sdoganata nel dibattito pubblico ma è stata immediatamente soffocata e nascosta per il carattere dirompente che avrebbe potuto assumere nell’ordinamento politico. Voci autorevoli si sono levate per sconfessarla con motivazioni varie, a cui sono seguite polemiche e precisazioni. Qualche giorno fa è stato pubblicato un voluminoso rapporto di Amnesty International “Ti senti come se fossi subumano: il genocidio di Israele contro la popolazione palestinese a Gaza” che approfondisce con dovizia di particolari le condotte disumane di Israele e gli effetti devastanti sulla popolazione di Gaza. Il rapporto di Amnesty è una sorta di Bibbia che documenta tutti gli aspetti della tragedia in atto. Attraverso l’esame freddo dei dati statistici, il racconto dei ricercatori sul campo, le interviste ai testimoni, Il rapporto scoperchia la visione di un inferno. E’ difficile dire cosa sia più disumano, se le massicce stragi che in un anno hanno causato la morte di 42.000 persone, di cui 13.319 minori, oppure la sistematica distruzione di tutte le strutture indispensabili per la vita della popolazione civile, o lo spostamento forzato di 1.900.000 persone, costrette a concentrarsi in spazi ristrettissimi in condizioni igieniche insostenibili, o l’odissea delle partorienti e delle donne in gravidanza, o la condizione disperata delle famiglie che non possono sfamare i propri figli. Il rapporto di Amnesty, assieme a quelli della relatrice speciale dell’ONU Francesca Albanese, e al rapporto di Human Rights Watch pubblicato il 19 dicembre (Sterminio e Genocidio di Israele in Gaza) fanno cadere ogni velo di innocenza nell’opinione pubblica delle c.d. democrazie occidentali e fanno sì che non si possa più dire: noi non sapevamo.
A questo punto appare futile il dibattito volto a stabilire l’esatta qualificazione giuridica delle atrocità commesse da Israele contro la popolazione di Gaza: sarà la Corte Internazionale di Giustizia a dirci con la sua sentenza se le condotte di Israele integrino o meno gli atti vietati dalla Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio.
A fronte dell’enormità delle sofferenze inflitte alla sfortunata popolazione di Gaza, il problema è di evitare che il genocidio si compia ovvero sia portato ad ulteriori ed estreme conseguenze. La Corte Internazionale di Giustizia ha ritenuto plausibile il genocidio ed ha emesso delle misure provvisorie a carico di Israele (il 26 gennaio, il 28 marzo, il 5 aprile e il 24 giugno) volte a prevenire e a impedire il genocidio. Israele non solo non ha rispettato le misure imposte dalla Corte, ma ha incrementato le condotte più odiose, per esempio attraverso bombardamenti indiscriminati sulle scuole dell’UNRWA (dove trovano rifugio i profughi), attraverso la restrizione della consegna dei beni essenziali per la sopravvivenza di una popolazione assediata, attraverso i ripetuti assalti agli ospedali e al personale medico. Le ordinanze della CIG sono immediatamente esecutive e vincolano tutti gli Stati a adoperarsi per la loro implementazione. Lo scandalo è il silenzio internazionale sull’inadempimento doloso da parte di Israele delle ordinanze della CIG volte a scongiurare il genocidio. Nei confronti della Russia l’UE ha approvato 15 pacchetti di sanzioni invocando il rispetto di “un mondo basato sulle regole”. La regola delle regole nel diritto internazionale, che obbliga tutti gli Stati per il suo carattere di ius cogens, è proprio quella che proibisce il genocidio (che comprende anche il tentativo di genocidio e la complicità nel genocidio). Invero il silenzio serbato dalla UE e dalle cancellerie dei paesi occidentali che non hanno mosso alcun passo per censurare la disobbedienza di Israele alle ordinanze della CIG è un evidente disconoscimento del valore giuridico del ripudio del genocidio. Coloro che contestano l’attribuzione allo Stato d’Israele della responsabilità per atti di genocidio, dovrebbero – se hanno a cuore la reputazione dello Stato ebraico – preoccuparsi che Israele arresti la sua azione prima che quella soglia sia raggiunta o superata. Fermare le atrocità in corso contro una popolazione assediata, affamata e bersagliata con crudeltà non è solo un obbligo morale e giuridico, è un presupposto imprescindibile se vogliamo restare umani.
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Processo Open Arms, ai confini del diritto
Ostacolare il salvataggio dei naufraghi vietando lo sbarco produce effetti lesivi nella sfera giuridica delle persone recuperate in alto mare. Per questo riteniamo sbagliata la sentenza di Palermo che ha assolto Matteo Salvini
Domenico GalloDicembre 21, 2024Alla scontata esultanza dei leghisti per l’assoluzione di Salvini si è unita quella di esponenti di spicco del governo, a partire dalla premier Giorgia Meloni, che ha espresso la sua “grande soddisfazione” per il verdetto. Questo giudizio, secondo Meloni, dimostra l’infondatezza delle accuse rivolte al vicepremier, sottolineando come la sentenza rappresenti una vittoria non solo per Salvini, ma per l’intero esecutivo. Comprendiamo l’esultanza della Meloni per questa “vittoria” dopo le tante batoste giudiziarie ricevute dal suo esecutivo, l’ultima il 19 dicembre dalla Corte di Cassazione che ha confermato il potere/dovere dei giudici di sindacare i decreti sui Paesi sicuri.
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Non comprendiamo, invece, le reazioni di chi, dal lato opposto, parte dall’assoluzione per censurare come controproducente l’intervento giudiziario in quanto rivolto a risolvere, attraverso la via giudiziaria, questioni politiche. E’ ben vero che non è concepibile una via giudiziaria per modificare un orientamento politico, ma la Costituzione, le leggi, il diritto internazionale dei diritti umani, tracciano delle regole che rappresentano dei limiti all’esercizio dei pubblici poteri. E’ compito di un altro potere (il giudiziario) assicurarsi che questi limiti non vengano violati. L’indipendenza della magistratura è garantita dalla Costituzione proprio per consentire ai giudici di sindacare gli abusi dei poteri pubblici e privati, a tutela dei diritti inviolabili dell’uomo. Quando un pubblico potere si avvia lungo una strada che produce discriminazioni, disprezzo dei diritti inviolabili di singoli o di categorie di persone, l’intervento giudiziario assume necessariamente – a prescindere dall’orientamento dei singoli giudici – una funzione contromaggioritaria. Di questa funzione non dobbiamo scandalizzarci, come fa la destra al governo, perché è un segnale di vitalità della nostra democrazia. Questo segnale non è venuto da Palermo. Anche se non conosciamo le motivazioni della sentenza, il dibattito processuale e la formula adottata ci danno sufficienti informazioni per capire il principio di diritto a cui si è ispirata la decisione. Alla luce delle intimidazioni rivolte ai giudici, il primo pensiero va al principio di diritto che Alessandro Manzoni esprime per bocca di don Abbondio: il coraggio se uno non ce l’ha non se lo può dare. Ma non è questo il punto dirimente. L’assoluzione “perché il fatto non sussiste”, non esclude la sussistenza del fatto materiale contestato (cioè di aver impedito di portare a termine il salvataggio dei profughi recuperati in alto mare dalla nave Open Arms, vietando lo sbarco), ma esclude che il fatto contestato sia qualificabile come reato. Se in ordine all’imputazione di sequestro di persona poteva sorgere qualche dubbio sulla corrispondenza con la fattispecie tipica di cui all’art. 605 del codice penale, l’assoluzione anche per il reato di rifiuto doloso di atti d’ufficio, dimostra che il Tribunale di Palermo non ha effettuato una valutazione di merito della condotta ascritta al Ministro, ritenendola insindacabile in quanto “atto politico”, come rivendicato dalla difesa di Salvini. Il nodo giuridico in questo processo verte proprio in ordine alla natura e alla delimitazione dei confini dell’atto politico, cioè di quegli atti delle autorità di governo che non sono sindacabili dal potere giudiziario. In un ordinamento democratico l’ambito di operatività dell’atto politico è minimo, mentre è massimo nelle dittature. La Cassazione ha chiarito quali siano i limiti dell’atto politico nel nostro ordinamento, da ultimo con la sentenza n.33398/2024 depositata il 19 dicembre, dove osserva che: “La nozione di atto politico è di stretta interpretazione ed ha carattere eccezionale, atteso che il principio di giustiziabilità degli atti del pubblico potere costituisce un profilo fondante della Costituzione italiana (Cass., Sez. Un., 1° giugno 2023, n. 15601) (..) Nella stessa direzione cospira l’art. 113 Cost., letto in connessione con l’art. 24 Cost. Essi esprimono il principio di legalità-giustiziabilità: le posizioni giuridiche soggettive esigono una tutela e, quindi, nessun atto riconducibile alla funzione amministrativa che produca effetti lesivi rispetto a tali situazioni può essere considerato non sindacabile.”
A nostro parere, ostacolare il salvataggio dei naufraghi vietando lo sbarco produce effetti lesivi nella sfera giuridica delle persone recuperate in alto mare. Per questo riteniamo sbagliata la sentenza di Palermo. Se l’Autorità giudiziaria allarga i confini dell’atto politico, viene favorita quella torsione autoritaria che caratterizza la politica attuale, non solo in Italia. Non è solo un problema di migranti, se cadono le barriere erette dalla Costituzione all’insindacabilità degli atti di governo, si possono verificare effetti paradossali. Basti pensare a quella – per fortuna isolata -ordinanza delle Sezioni Unite della Cassazione, depositata nel giugno del 2002, che ha dichiarato “atto politico” una strage compiuta dalla NATO a Belgrado in cui furono uccise 16 persone.
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