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La necessità di una rivoluzione culturale in tutta la sinistra, anzi nel corpo della società, e quindi in noi stessi come persone
Comportamenti e stili di vita individuali.
di Luigi Pintor
Dall’intervista di Annamaria Pisano a Luigi Pintor (1977) riportata da Marco Ligas su “il manifesto sardo”, speciale del 16 maggio 2013. L’argomento è così sintetizzato da Marco: “riguarda la contiguità tra la scelta politica/ideale necessaria per il cambiamento della società e il comportamento di noi stessi come singole persone che deve essere funzionale al cambiamento ipotizzato”. Ecco la domanda di Annamaria e la risposta di Lugi Pintor.
Non credi che la collocazione sociale di molti che si ritrovarono nel Manifesto, la loro incapacità di far politica in modo sostanzialmente diverso da quella che era stata la loro attività all’interno del PCI, rendeva già dall’inizio difficile l’attuazione del progetto politico del Manifesto?
Questa la risposta
Se c’è una cosa che abbiamo predicato fino alla noia, è stata la necessità di una rivoluzione culturale in tutta la sinistra, anzi nel corpo della società, e quindi in noi stessi come persone e come forza politica ed organizzazione nascente. Con questa formula di importazione (avremmo anche potuto dire riforma intellettuale e morale, e magari esistenziale) intendevamo una quantità di cose, relative alla ricerca di una nuova scala di valori (un nuovo modo di vivere, di produrre, di consumare), a un modo diverso di fare politica (tutto fondato sulla partecipazione diretta, sull’autogestione dal basso, sull’aderenza alla realtà sociale ed all’esperienza di massa) e così via. Ma intendevamo anche e soprattutto (o almeno io intendevo) anche un nuovo “stile” individuale. Ossia un rapporto più stretto (senza per questo cadere nell’astrazione o nel moralismo) tra le idee che si professano da un lato e la vita che si conduce dall’altro, cioè la propria collocazione pratica.
Per dirla più semplicemente, o magari paradossalmente, io non posso impedirmi di pensare, per esempio, che due professori universitari che guadagnano nello stesso modo, subiscono nello stesso modo lo sfascio dell’Università, non insegnano di fatto nulla a nessuno, partecipano insomma di una stessa condizione e collocazione intellettualmente, socialmente e politicamente negativa, non si distinguano sostanzialmente l’uno dall’altro anche se uno manifesta idee di sinistra e l’altro di destra. Per me la loro identità, la loro “funzione comune”, pesa di più delle loro diversità, come l’identità di due tifosi di sport è più evidente dell’essere uno laziale e l’altro romanista. Nel dire che ognuno è la sua collocazione sociale, intendo dire che tutti siamo condizionati oltre misura nella mentalità e nei comportamenti, dalle abitudini, dalle pigrizie, dagli interessi materiali, dai privilegi grandi e piccoli che sono connessi al nostro ruolo sociale. E credo che nessuno possa operare in modo rivoluzionario se in pari tempo non mette in discussione, almeno tendenzialmente, se stesso, il proprio ruolo, la propria collocazione, insomma la propria vita: se non compie cioè una rivoluzione culturale, anzi più di una, con costante verifica del rapporto che si stabilisce o non si stabilisce tra ciò che si dice e si pensa e ciò che si fa. Ciò vale soprattutto per gli intellettuali, naturalmente, ma vale anche a livello operaio, contro il corporativismo o l’economismo.
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