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L’OCCUPAZIONE CREATIVA COME RISPOSTA ALL’AUTOMAZIONE: IL PIANO D’AZIONE DI NESTA
Pubblicato il 17/04/2017 su Il Giornale delle Fondazioni
di Valentina Montalto *
Un nuovo studio della fondazione inglese Nesta www.nesta.org.uk sul rapporto tra l’economica creativa e il futuro dell’occupazione nell’era dello sviluppo tecnologico, oltre alla diagnosi e alle prospettive, propone cinque concrete linee di azione per il paese, molto con l’obiettivo di creare un milione di nuovi posti di lavoro creativi entro il 2030, che vanno dallo sviluppo di un sistema educativo multidisciplinare (STEAM), alla creazione di nuovi fondi per sviluppare cluster creativi e per sviluppare di contenuti e servizi digitali innovativi, a nuovi strumenti di finanziamento come il venture capital da parte di organizzazioni come l’Arts Council England, Creative Scotland e il British Film Institute (BFI) al fine di investire in progetti altamente innovativi e attirare ulteriori fondi per l’arte, alla creazione di una lotteria nazionale a sostegno dell’industria dei video giochi.
Creare più occupazione creativa per contrastare il calo di produttività dell’economia tradizionale, favorire così la crescita di un’economia ad alto valore aggiunto e a basso rischio di automazione: è quanto il centro inglese di ricerca e innovazione Nesta propone nel documento “The Creative Economy and the Future of Employment”[1].
Con la lucidità e la chiarezza che lo contraddistingue, Nesta tratta una delle questioni cruciali dell’economia contemporanea, ossia il dilemma di conciliare innovazione e occupazione facendo fronte ai rischi della robotizzazione, cogliendone le opportunità abiltanti.
Di questo tema se ne parla incessantemente negli ultimi anni. L’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), per esempio, ha avviato il progetto di ricerca Future of Work[2] per studiare le implicazioni della digitalizzazione; McKinsey lo scorso luglio ha pubblicato uno studio sulle occupazioni a più alto rischio di computerizzazione[3], mentre la Commissione Europea lavora a diversi studi e strategie per formare la forza lavoro del futuro[4].
Nesta ha il merito di focalizzare l’attenzione sulle potenzialità dei settori creativi come risposta a un mercato del lavoro in trasformazione, con numerosi dati alla mano, frutto di anni di ricerche.
Nel Regno Unito l’economia creativa genera più di 2,8 milioni di posti di lavoro. 2 milioni di questi lavori sono in occupazioni creative – dai professionisti della pubblicità ai programmatori, dagli attori agli sviluppatori di video giochi – che sono altamente qualificate, competenti e promotrici di innovazione[5].
Si tratta di professioni che non solo contribuiscono allo sviluppo di un’economia nazionale ad alto valore aggiunto e innovativa, ma che possono evitare la perdita di posti di lavoro sostituiti dalle macchine. Nello studio “Creativity vs. Robots”, Nesta mostra infatti che la creatività è inversamente proporzionale all’innovazione tecncologica: l’87 per cento dei lavori altamente creativi sono a basso o zero rischio di automazione, rispetto al 40 per cento di lavori nell’economia nazionale.
Questi risultati non dovrebbero sorprendere: è evidente che le macchine possono emulare gli esseri umani solo nel caso di azioni ripetitive, il cui risultato finale è chiaro e programmabile fin dall’inizio. Diverso è il caso di compiti che richiedono capacità di comprensione, adattamento e innovazione – elemento che contraddistingue la maggior parte delle occupazioni creative.
Ma c’è di più. Investire in occupazione creativa non solo potrebbe contribuire alla ripresa economica, ma potrebbe favorire lo sviluppo di una società – almeno in parte – più appagata. Un altro studio svolto per conto di Nesta[6] spiega infatti che le occupazioni creative si caratterizzano per un più alto livello di soddisfazione, di senso di utilità e di felicità rispetto alla media. Si tratta però anche di occupazioni con più elevati livelli di ansia. I maggiori livelli di benessere sono associati ai lavori artistici, di artigianato e design mentre i lavori nei settori della pubblicità, film, TV e radio, editoria e IT sono associati a più bassi livelli di benessere.
Nesta propone cinque azioni, molto concrete, con l’obiettivo di creare un milione di nuovi posti di lavoro creativi entro il 2030, che vanno dallo sviluppo di un (1) sistema educativo multidisciplinare che combini discipline scientifiche e artistiche la cui necessità è stata recentemente ribadita dal Ministro inglese al Digitale e alla Cultura[7], alla creazione di (2 e 3) due nuovi fondi (uno per sviluppare cluster creativi al di fuori di Londra secondo una logica “redistributiva”, e un secondo per supportare lo sviluppo di contenuti e servizi digitali innovativi), all’utilizzo di (4) nuovi schemi di finanziamento come il venture capital da parte di organizzazioni come l’Arts Council England, Creative Scotland e il British Film Institute (BFI) al fine di investire in progetti altamente innovativi e attirare ulteriori fondi per l’arte, alla creazione di una (5) lotteria nazionale a sostegno dell’industria dei video giochi.
* Valentina Montalto è una ricercatrice specializzata in economia della cultura e sviluppo locale. Attualmente lavora allo sviluppo del “Cultural and Creative Cities Monitor” (C3 Monitor) – uno strumento di valutazione che permette di monitorare e comparare la performance di circa 170 città culturali e creative in 30 paesi europei – presso il Joint Research Centre (JRC) della Commissione europea. In precedenza, ha lavorato come project manager/ricercatrice senior con KEA, società di ricerca e consulenza nel settore della cultura e delle industrie creative con sede a Bruxelles.
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[1] Bahkshi and Windsor (2015) ‘The Creative Economy and the Future of Employment.’ London: Nesta. Link: https://www.nesta.org.uk/sites/default/files/the_creative_economy_and_th…
[2] http://www.oecd.org/employment/future-of-work.htm
[3] McKinsey (2016) ‘Where machines could replace humans—and where they can’t (yet).’ Link: http://www.mckinsey.com/business-functions/digital-mckinsey/our-insights…
[4] Strategia su competenze e lavoro: https://ec.europa.eu/digital-single-market/en/skills-jobs; EPSC (2016) ‘The Future of Work – Skills and Resilience for a World of Change. Link: http://ec.europa.eu/epsc/publications/strategic-notes/future-work_en
[5] DCMS (2016)‚ Creative Industries: Focus on Employment.’ Link: https://www.gov.uk/government/uploads/system/uploads/attachment_data/fil…
[6] Fujiwara, Dolan and Lawton (2015) ‘Creative Occupations and Subjective Wellbeing.’ London: Nesta. Link: https://www.nesta.org.uk/sites/default/files/creative_employment_and_sub…
[7] https://www.gov.uk/government/speeches/matt-hancocks-speech-at-the-launc…
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Salviamo il Pianeta
di MARCO TEDESCO su eddyburg
«Domani si celebra la Giornata della Terra “E noi scienziati saremo in piazza contro Trump” spiega Marco Tedesco, glaciologo a New York», intervistato da Federico Rampini. la Repubblica, 21 aprile 2017
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RA noi c’è chi reagisce mobilitandosi. Chi cerca nuovi canali di comunicazione con l’opinione pubblica. E chi rimane paralizzato». Così lo scienziato italiano Marco Tedesco riassume i tanti impatti di Donald Trump sui ricercatori che si occupano di cambiamento climatico. Esperto della Nasa, docente alla Columbia University di New York nello Earth Institute (uno dei più importanti poli mondiali di scienze ambientali), Tedesco ha acquisito la sua fama negli Stati Uniti per esplorazioni e ricerche che spaziano dalla Groenlandia all’Antartide all’Himalaya. Tutte hanno in comune lo stesso tema: il cambiamento climatico. Sabato sfilerà nella manifestazione di New York, con partenza a Central Park.
Questo è il primo Earth Day nell’èra Trump, il presidente che nega la scienza dell’ambiente. Come reagisce la comunità scientifica?
«Molti fra noi si danno da fare per proteggere dati preziosi che sono minacciati, per difendere la ricerca, e i diritti civili degli scienziati. C’è una corrente che esplora anche nuove strategie di comunicazione con l’opinione pubblica: per far capire che facciamo davvero scienza, e su questa base vogliamo dialogare anche con chi ha posizioni politiche o culturali ostili. Tra i più impauriti ci sono tanti giovani, per esempio dottorandi: nell’attesa di ciò che può succedere temono di vedersi chiudere le prospettive, i progetti su cui volevano costruire una vita di ricerche».
Quanto pesa l’aspetto economico, il taglio dei fondi?
«Il problema maggiore è l’incertezza. E non mi riferisco all’incertezza nei modelli matematici sul cambiamento climatico: con quella siamo attrezzati a misurarci… Di fronte alla mannaia dei tagli alla ricerca è come se fossimo su una spiaggia dove sta arrivando lo tsunami, ma senza vie di fuga e senza conoscere l’altezza dell’onda. È bloccata la National Science Foundation, la più grossa agenzia federale che finanzia la ricerca pura, non può selezionare progetti perché non sa quali risorse avrà. Dalla Nasa all’Ente oceanografico e atmosferico, si tagliano anche i satelliti del meteo. Vuol dire creare dei buchi di conoscenza, generare lacune, interrompere la copertura satellitare del pianeta da cui dipendono le serie temporali sul clima. Possono essere rovinati 40 anni di dati sulle emissioni carboniche ».
In America c’è una robusta tradizione di mecenatismo privato, non potrebbero intervenire gli imprenditori ambientalisti, rimediare di tasca loro?
«Possibile ma poco probabile. Il pubblico e il privato hanno ruoli diversi: è lo Stato che sostiene la ricerca di base, mentre le imprese preferiscono quella applicata che ha ricadute commerciali. E la comunità scientifica che seleziona i progetti a cui dare finanziamenti federali, ha i criteri più rigorosi».
Quanto danno può fare l’Amministrazione Trump all’ambiente in cui viviamo?
«Tanto, troppo. Anche l’aggiunta di una quantità relativamente limitata di CO2 rispetto agli scenari precedenti, può scatenare reazioni del clima i cui effetti si sentiranno molto a lungo. I processi di cambiamento climatico oltre una certa soglia raggiungono il punto di non ritorno, diventano incontrollabili. E lui sta accumulando decisioni dannose: dal via libera agli oleodotti, alla deregulation che elimina restrizioni sulle emissioni di centrali elettriche o automobili. Tutto questo aumenterà il fattore di stress sul pianeta. Va ricordato che con Barack Obama eravamo sulla buona strada, sì, ma non sulla strada ottimale. Vedo anche un altro attacco alla scienza: il tentativo di creare delle task-force cosiddette indipendenti, per mettere sotto controllo la comunità dei ricercatori. È un progetto che vuole spostare i finanziamenti verso think tank legate alle lobby del petrolio. Un’altra minaccia: la fuga in avanti verso la geo-ingegneria, il tentativo di manipolare il clima, con progetti controversi come il lancio di solfati che raffreddino l’atmosfera. Esperimenti pieni d’incognite, di pericoli, di conseguenze inattese».
Le sue ricerche sul campo la portano a vivere per mesi ogni anno alle latitudini più estreme, le zone ghiacciate del pianeta dove spesso gli effetti del cambiamento climatico sono allo stadio più esacerbato. Che conclusioni ne trae?
«È un susseguirsi di campanelli d’allarme, dall’Artico alla Groenlandia continuano ad esserci record battuti. Il permafrost, lo scioglimento delle nevi, i ghiacciai marini, le correnti nei fiordi, è tutto un sistema che ci sta dicendo quanto è avanzato l’impatto del cambiamento climatico »