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Lavoro e nuovo modello di sviluppo: a partire dal lavoro che manca e rischia di mancare ancor più nel futuro
MATERIALI PER IL LAVORO
Lavoro e nuovo modello di sviluppo: a partire dal lavoro che manca e rischia di mancare ancor più nel futuro
di Carlo Eduardo Carra, su Rocca 21/2017.
Lavoro, reddito e crescita sono le tre ruote dell’ingranaggio che ha fatto girare l’orologio della storia economica e sociale negli ultimi secoli. Questo modello di trasmissione circolare – il lavoro produce reddito,
il reddito crea consumi, i consumi alimentano la crescita, la crescita crea lavoro – sembrava destinato a perpetuarsi nel tempo e, con la globalizzazione liberista, ad estendersi al mondo intero.
In realtà così è stato fino a quando la libera circolazione di merci e persone si è estesa ad aree geografiche sterminate ed ha coinvolto miliardi di persone.
A quel punto, però, il circolo «virtuoso» dello sviluppo che crea sviluppo si è inceppato e la fase espansiva della globalizzazione ha subìto una battuta d’arresto.
Da allora la teoria della crescita infinita ha sempre meno sostenitori mentre crescono le ragioni dei teorici della decrescita e di coloro che sostengono che siamo entrati in una stagnazione di lunga durata se non addirittura secolare.
Comunque la si pensi rispetto a questi schieramenti non c’è dubbio che siamo di fronte a nuovi scenari ed a nuovi problemi: la disoccupazione ha assunto dimensioni enormi destinate ad aumentare ulteriormente e velocemente; la distribuzione dei redditi è contrassegnata da diseguaglianze crescenti e sempre più insostenibili; il modello di sviluppo mostra i suoi limiti ed i cambiamenti climatici ne mettono in discussione le stesse fondamenta.
il ruolo della politica e della cultura
Come rispondere a queste novità ed ai problemi che ne discendono?
Questi sono i grandi interrogativi ai quali sono chiamati a rispondere la politica e la cultura dei nostri tempi.
Naturalmente i problemi di cui parliamo non nascono improvvisamente oggi, ma erano già presenti nelle analisi della evoluzione del capitalismo sviluppate dai più grandi economisti. Che il progresso tecnologico avrebbe generato straordinari incrementi di produttività e quindi ridotto le ore di lavoro necessarie, lo avevano detto Marx prima e Keynes dopo. Quest’ultimo, estrapolando le tendenze allora in atto, aveva calcolato che «tra cento anni» il problema economico del mondo sarebbe stato risolto ed aveva avanzato la profezia che il lavoro si sarebbe ridotto a tre ore settimanali.
I cento anni scadono tra poco, nel 2028, ed anche se nel nostro dibattito il tema della riduzione delle ore di lavoro è sempre più di attualità, siamo ancora ben lontani dall’avverarsi di quella profezia.
La causa principale del fallimento di quelle previsioni è nota: l’autore si muoveva dentro il modello di sviluppo industriale, quindi dentro una ipotesi di crescita illimitata nella quale avrebbero potuto trovare spazio sia il miglioramento dei salari che la riduzione dell’orario di lavoro.
La storia, invece, ha preso un’altra strada ed il lavoro, i redditi, il modello di sviluppo da fattori positivi di evoluzione sono diventati nodi aggrovigliati da sciogliere.
nodi aggrovigliati
Cosa ha determinato questo mutamento? Due fenomeni innanzitutto.
Il primo è che è saltata la relazione lineare tra lavoro e reddito. In particolare: si è offuscato il confine tra lavoro dipendente e lavoro autonomo (vedi ad esempio fenomeno delle false partite Iva); si è attenuata la divisione tra lavoro e non lavoro (in termini di sicurezza, tipologia contrattuale e durata del lavoro esistono ormai tantissime sfumature intermedie che producono un andirivieni tra i due mondi); aumentano sempre di più i lavori che possono essere svolti sia con una retribuzione che gratuitamente per piacere o sensibilità sociale e crescono i casi in cui lo stesso lavoro può essere svolto sia da persone «occupate» che da persone «non occupate». In questo contesto lo stesso mondo dei disoccupati appare meno semplice di come viene definito e comprende anche soggetti che pur restando classificati, socialmente e statisticamente, come disoccupati, creano ricchezza per la collettività, si formano, svolgono attività creative, accrescono, così, il «capitale umano» della collettività.
Insomma la relazione tra lavoro e reddito si è riconfigurata in un ventaglio di forme diverse di lavoro e di remunerazione che vede intrecci, sovrapposizioni, sostituzioni dinamiche di ruoli e funzioni.
È in questo mondo dalle mille sfumature che avanza l’idea di un reddito di cittadinanza, erogato a prescindere dalla prestazione lavorativa come diritto naturale di ogni cittadino.
Il secondo fenomeno è rappresentato dal fatto che la crescita, che costituiva la fase terminale ed iniziale dell’ingranaggio, non appare più garantita ed inarrestabile. Se negli anni sessanta il Pil cresceva mediamente sopra il 4%, negli anni settanta esso è cresciuto del 3%, negli anni ottanta del 2% e, con la crisi del 2008, i tassi di crescita si stanno stabilizzando attorno all’1-2%. L’affacciarsi alla storia di una fase non più di crescita, ma di sostanziale stagnazione di lungo periodo cambia radicalmente le fondamenta stesse della evoluzione profetizzata. Non si tratta di cancellare quelle intenzioni e quelle speranze liberatorie insite nella riduzione delle ore di lavoro e nel miglioramento del reddito, ma di ricollocarle nella concretezza della fase storica che stiamo vivendo e che vivremo. Insomma la riduzione dell’orario di lavoro a parità di retribuzione ed il diritto ad un reddito a prescindere dal lavoro debbono diventare obiettivi fatti propri dalle forze politiche e capaci di mobilitare aree consistenti di popolazione soprattutto in presenza di vincoli di bilancio sempre più rigidi che limitano e spesso paralizzano stati nazionali ed enti locali.
Questo è il grande problema dei nostri tempi: come rideclinare gli obiettivi di «meno ore a parità di salario» nel nuovo scenario dell’economia reale e finanziaria e, soprattutto, nella competizione tra aree sviluppate ed aree arretrate che si svolge sul terreno del contenimento del costo del lavoro e che va, quindi, in direzione opposta a quella auspicata presentando addirittura nuove forme di schiavismo con orari più lunghi e salari più bassi.
tre macro scelte e alcune proposte
Per contribuire al dibattito aperto su Rocca penso si debba lavorare all’interno di tre macro scelte:
a- Assumere la redistribuzione di quello che c’è e che si produce come asse centrale e prioritario: se prima si puntava a distribuire meglio i benefici della crescita, oggi dobbiamo operare sulla redistribuzione dei redditi e delle ricchezze esistenti. Compito, questo secondo, più difficile del primo, ma ineludibile.
b- Utilizzare al meglio le scarse risorse esistenti evitando di disperderle in mille rivoli magari rivolti alla ricerca di consensi di strati sociali ed elettorali. Bisogna, al contrario, concentrare le risorse su pochi e precisi obiettivi. Occorre, quindi, delineare una proposta organica di entrate e di spese nella quale sia visibile la relazione tra obiettivi di spesa e reperimento di risorse.
c- Quanto detto non significa affatto rinunciare all’idea dello sviluppo e della crescita. Significa solo che non si può aspettare una ripresa quasi automatica del modello di sviluppo passato che assicuri le risorse necessarie a perseguire gli obiettivi di riduzione degli orari e mantenimento dei redditi reali. Al contrario, significa che occorre investire per un modello di sviluppo che segni una discontinuità rispetto al passato, che non affidi alla spontaneità del mercato e delle sue leggi i settori produttivi sui quali puntare per una nuova fase di sviluppo, che rilanci una «funzione pubblica di orientamento» degli investimenti verso settori produttivi con capacità espansive e generatrici di occupazione. Volendo articolare con maggiore dettaglio queste linee generali vorrei sottoporre al dibattito in corso alcune proposte, naturalmente non tutte nuove, che siano coerenti con i tre macro obiettivi delineati.
redistribuzione del lavoro
Il lavoro è e resta un momento fondamentale per la costruzione dell’identità personale. Quando esso viene negato il tempo libero rischia di diventare tempo vuoto. Senza escludere politiche di sviluppo che saranno proposte in seguito, si dovrebbe puntare ad allargare la platea del lavoro ad orario ridotto per scelta volontaria (in Italia il part-time scelto è di gran lunga inferiore a quello dei principali paesi europei). Per questo si deve perseguire la riduzione degli orari di lavoro per creare nuova occupazione facendo politiche volte a far diventare il contratto di lavoro a tempo ridotto un normale contratto di lavoro, incentivando i contratti a tempo ridotto e disincentivando quelli più del normale. Allo stesso obiettivo di redistribuzione po- trebbero contribuire altre misure come ad esempio: abbassare l’età pensionabile e flessibilizzare l’uscita per consentire all’azienda nuove assunzioni; riarticolare l’imposizione fiscale e contributiva sulla base dell’orario di lavoro con aliquote più basse per orari ridotti, più alte per orari normali, molto più alte per il lavoro straordinario; detassare i contratti «aziendali» di solidarietà; istituire i «contratti territoriali di solidarietà» per consentire che nelle aziende sane si possano ridurre gli orari e concordare nuove assunzioni nel territorio; creare un «Fondo di sostegno alla redistribuzione del lavoro» i cui oneri do- vrebbero essere considerati investimenti da escludere, quindi, dai vincoli di bilancio. Naturalmente l’insieme di questi obiettivi richiede risorse, quindi maggiori entrate.
recupero evasione fiscale e progressività
Abbiamo alle spalle un lungo periodo in cui le politiche pubbliche sono state concentrate sulla spesa pubblica da tagliare e sulla pressione fiscale da diminuire. Le conseguenze di queste politiche sono state l’austerità che ha bloccato ogni possibilità di ripresa e di espansione e l’abbassamento delle aliquote fiscali sui redditi alti (mentre sono salite quelle sui redditi bassi).
È chiaro che con i livelli di evasione e di prelievo sulle diverse fasce di reddito esistenti, politiche come quelle accennate non sono perseguibili. Ancora di più, naturalmente, se dovessero prendere corpo ipotesi, come quella della aliquota unica e bassa, che non potrebbero che abbassare ulteriormente le entrate.
Anche per contrastare queste tendenze e la cultura che le supporta occorre che sugli obiettivi indicati di maggiore occupazione e redditi si realizzi una vasta condivisione che crei la controtendenza necessaria. Ed occorre rilanciare un principio base della nostra costituzione, quello della progressività fiscale, da applicare sia ai redditi che ai grandi patrimoni.
Solo da questa inversione culturale e politica possono derivare risorse consistenti da destinare alle politiche sul lavoro e sui redditi.
nuovo modello di sviluppo
Il nostro è un paese con caratteristiche positive (storiche, culturali, ambientali…) accanto alle quali convivono aspetti negativi spesso strettamente correlati (vetustà ed abbandono di centri storici, dissesti ambientali, abusivismo diffuso…). Questi aspetti apparentemente contradditori potrebbero costituire un motore sincronizzato di ripresa economica agendo su settori strategici, come ad esempio la manutenzione abitativa ed ambientale, che hanno effetti moltiplicativi sia verso i settori produttivi direttamente collegati (edilizia, chimica, metallurgia, legno…) che sull’intera economia (turismo, redditi, consumi…).
In Italia, inoltre, c’è un elevato tasso di risparmio. Non è perciò azzardato pensare ad un grande progetto paese che in- centivi organismi pubblici possessori di capitali immobiliari e privati cittadini ad investire nella manutenzione con incentivi e crediti pluriennali commisurati agli incrementi di valore ed ai benefici nel tempo.
Si tratta in questo senso di potenziare politiche di incentivi avviate facendole diventare più efficaci e potenziando le risorse ad esse destinate. Attorno ad una scelta strategica di questa natura si potrebbero sviluppare altre politiche integrative (vedi le più recenti proposte avanzate da Sbilanciamoci) come nuova spesa pubblica per servizi e conoscenza, investimenti in piccole opere, ricostruzioni, tagli e revisioni di spese sbagliate (come ad esempio gli incentivi del jobs act), finanziamento in deficit (moneta fiscale), tassazione delle transazioni finanziarie, tassa sulle grandi società dell’economia digitale, tassa di successione, politiche fiscali mirate sull’ambiente (sviluppo di beni e modi di produzione a basso impatto ambientale, mobilità integrata, riparazione e manutenzione dei beni esistenti), sviluppo delle tecnologie Ict puntando alla condivisione piuttosto che ai diritti di proprietà, welfare ed assistenza, incentivi a produrre apparecchi elettromedicali, laboratori, ecc. Ed infine la valorizzazione appena avviata con stanziamenti simbolici dei piccoli comuni che sono, nel nostro paese, un possibile serbatoio di futuro e non solo un residuo del passato.
Insomma bisognerebbe, penso, andare oltre i vizi ideologici di schierarci, per il lavoro o per il reddito, per rispondere all’emergenza o per pensare al futuro, e delineare un progetto organico, pluriennale dentro il quale collocare risposte diverse e distribuite nel tempo a problemi diversi e complessi.
Solo con un disegno di queste dimensioni si può coltivare l’ambizione di un nuovo circolo virtuoso nel quale lavoro, reddito e modello di sviluppo riprendano a girare ed a produrre futuro.
Aldo Eduardo Carra