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SENZA UGUAGLIANZA NON C’È LAVORO, NÉ SENZA LAVORO UGUAGLIANZA

copia-di-eu_direct_loc_4-5_ottobre_ok_001-2_2_21-2logo76 Ricostruire il fondamento.
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La questione del lavoro, nella specifica forma della sua assenza e precarietà, dovrebbe essere il primo e determinante tema della campagna elettorale. Le ragioni del suo degrado e la sua rifondazione costituzionale in un “manifesto per l’uguaglianza” di Luigi Ferrajoli
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Luigi Ferrajoli

l-ferrajoli-manifesto-egÈ uscito presso l’Editore Laterza un importante “Manifesto per l’uguaglianza” di Luigi Ferrajoli in cui viene ridisegnato un modello di società che sia effettivamente ispirato ai valori della Costituzione, oggi così largamente disattesi e traditi. Pubblichiamo di questo libro la prima parte del capitolo V dedicata al lavoro.

Articolo uno: lavoro e sovranità popolare quali fondamenti della Repubblica
Il principio di uguaglianza, quale è espresso dall’articolo 3 della Costituzione italiana, è il principio costitutivo della democrazia. C’è però un altro articolo della Costituzione che definisce l’identità democratica della Repubblica. E’ l’articolo 1, che la definisce sotto due aspetti, entrambi strettamente connessi all’uguaglianza e corrispondenti ad altrettante dimensioni della democrazia: la dimensione sociale, espressa dal fondamento della Repubblica sul lavoro, e la dimensione politica, espressa dal principio della sovranità popolare. Il testo di questo primo articolo – “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione” – è il frutto del felice compromesso tra tutte e tre le culture – quella cattolica, quella social-comunista e quella liberale – dal cui incontro e confronto è nata la Costituzione repubblicana[1].

Grazie a questi due principi costitutivi dell’identità della Repubblica – il lavoro e la sovranità popolare – la Costituzione italiana segna una svolta rivoluzionaria nella storia del costituzionalismo. Nel costituzionalismo liberale, italiano e europeo, il lavoro era svalutato e i lavoratori, al pari delle donne e dei poveri, erano esclusi dai diritti politici. È questo un tratto comune a tutto il pensiero liberale, anche il più avanzato. Basti ricordare la tesi di Kant secondo cui “cittadino”, ossia titolare del “diritto di voto”, doveva considerarsi solo chi è “padrone di sé (sui iuris) e quindi abbia una qualche proprietà… che gli procuri i mezzi per vivere” e non anche, quindi, il lavoratore dipendente che, “per vivere”, debba vendere ad altri “l’uso delle sue forze”[2]. Ma si ricordino anche le parole di Benjamin Constant: “coloro che l’indigenza mantiene in un’eterna dipendenza e condanna a lavori giornalieri non [sono] né più illuminati dei fanciulli in merito agli affari pubblici, né più interessati degli stranieri a una prosperità nazionale di cui non conoscono gli elementi e di cui godono i vantaggi soltanto indirettamente”[3]. Perfino John Stuart Mill, che pure sostenne il suffragio universale, escluse dal voto gli analfabeti, coloro che non pagano le tasse e gli assistiti dalla pubblica carità e propose il voto plurimo e differenziato sulla base delle differenze di classe[4]. Di qui il suffragio ristretto[5], che esclude, scrisse Kant, “tutte le donne e in generale tutti coloro che nella conservazione della loro esistenza (nel mantenimento e nella protezione) non dipendono dal proprio impulso ma dai comandi degli altri (al di fuori del comando dello Stato)”[6]. Sono tesi e norme che rivelano un’esplicita antropologia della disuguaglianza: la svalutazione, al tempo stesso, delle donne e dei lavoratori, le une e gli altri squalificati come inferiori.

L’incipit della Costituzione italiana ribalta questa concezione, facendo del lavoro il principale fattore della dignità della persona e introducendo, insieme, il suffragio universale quale corollario della sovranità popolare. I due principi vengono affermati simultaneamente, essendo tra loro connessi ed entrambi conseguenti al principio di uguaglianza. Cambia grazie ad essi, fino a capovolgersi, il significato sia del lavoro che della sovranità.

Il lavoro – secondo il suo modello costituzionale, oggi letteralmente dissolto e capovolto, come vedremo più oltre – non è più una merce, ma un valore. E’ il valore costitutivo della dignità della persona, che in quanto tale forma un presupposto di diritti fondamentali: non solo di tutti i diritti della persona, ma anche dei diritti conferiti al lavoratore dagli articoli 35-40 della Costituzione nei confronti dei datori di lavoro, oltre che della sfera pubblica, primo tra tutti il diritto a una retribuzione “sufficiente”, come dice l’articolo 36, “ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.

La sovranità, d’altro canto, non è più quella figura anti-giuridica che era la potestas legibus soluta in capo a un soggetto o a una pluralità di soggetti – il sovrano monocratico o il Parlamento – dotati di poteri illimitati, dato che nello Stato costituzionale di diritto tutti i poteri costituiti sono sottoposti, appunto, al diritto e nessuno di essi è sovrano. “La sovranità appartiene al popolo”, dichiara l’articolo 1, cioè a tutti in quanto persone e cittadini. Essa è dunque, anzitutto, una garanzia negativa: significa che non appartiene a nessun altro, e che quindi nessun potere costituito – nessun Presidente eletto dal popolo, nessun Parlamento – può usurparla. Ma il popolo non è un soggetto unitario. È l’insieme di tutti i cittadini che lo compongono. E allora, come garanzia positiva, la sovranità popolare equivale alla somma di quei frammenti di sovranità che sono i poteri e i contro-poteri nei quali consistono i diritti fondamentali di cui ciascuno e tutti sono titolari. Equivale, in breve, all’uguaglianza quale uguale valore di tutte le differenze d’identità per il tramite dei diritti di libertà e quale riduzione delle disuguaglianze materiali per il tramite dei diritti sociali.

Tutti noi, popolo, siamo così posti, dalla Costituzione, al di sopra dei poteri costituiti. In che senso “al di sopra”? Nel senso che tutti noi siamo partecipi della sovranità. E lo siamo perché le norme costituzionali, e perciò i diritti che la Costituzione ci attribuisce, sono rigidamente sopraordinate, quali limiti e vincoli, a tutti i poteri costituiti e a tutte le altre fonti dell’ordinamento.

La rigidità della Costituzione e la sfera del non decidibile
Vengo così a un secondo e ancor più rilevante aspetto rivoluzionario dell’articolo 1 e, in generale, dell’intera Costituzione italiana e delle altre costituzioni del secondo dopoguerra: la rigidità della Costituzione. Cosa vuol dire rigidità costituzionale? Vuol dire la collocazione della Costituzione – e perciò, nel caso della Costituzione italiana, del lavoro e del popolo da essa assunti quali fondamenti – al vertice dell’ordinamento e della gerarchia delle fonti; con la conseguenza che una legge successiva con essa in contrasto non è in grado di modificarla, come accadde con le leggi fasciste del 1925-’26 che stracciarono lo Statuto albertino perché privo appunto di rigidità o comunque di garanzie della rigidità[7], ma ne rappresenta al contrario una violazione, cioè una legge invalida, costituzionalmente illegittima, destinata ad essere annullata dalla giurisdizione costituzionale.

È questa la forma giuridica che hanno assunto il patto pre-politico di convivenza e, insieme, il “mai più” opposto al fascismo e al nazismo; i quali, non dimentichiamolo, avevano preso il potere con mezzi legali conquistando la maggioranza parlamentare, e con mezzi legali, a maggioranza, avevano soppresso la democrazia. Fu proprio per impedire il ripetersi di simili suicidi della democrazia che il costituzionalismo del secondo Novecento ha operato questo mutamento strutturale dei sistemi politici: la rigida sopra-ordinazione a qualunque altra fonte delle sue norme sostanziali – il valore del lavoro, il suffragio universale, il principio di uguaglianza, la dignità della persona, la pace e i diritti fondamentali, di libertà e sociali – quali limiti e vincoli inderogabili imposti a qualunque maggioranza e, più in generale, all’esercizio di qualunque potere. Grazie a questa rigidità, la costituzione disegna quella che ben possiamo chiamare la sfera del non decidibile: la sfera del non decidibile che, cioè di ciò che nessuna maggioranza può decidere, a garanzia dei diritti di libertà, e la sfera del non decidibile che non, cioè di ciò che qualunque maggioranza non può non decidere, cioè deve decidere, in attuazione e a garanzia dei diritti sociali alla salute, all’istruzione, alla previdenza e alla sussistenza. Grazie alla prima sfera, quella del non decidibile che, la Costituzione impone un passo indietro delle istituzioni pubbliche a garanzia dei diritti di libertà, che in quanto aspettative negative di non lesione implicano il divieto di lederli o di ridurli. Grazie alla seconda sfera, quella del non decidibile che non, la Costituzione impone invece un passo avanti delle medesime istituzioni a garanzia dei diritti sociali, che in quanto aspettative positive di prestazione implicano l’obbligo di attuarli e di soddisfarli.

Anche questa è stata una rivoluzione, che ha cambiato la natura e la struttura sia del diritto che della democrazia: una rivoluzione sul piano giuridico, e conseguentemente della teoria del diritto, giacché non era stata immaginata, dal vecchio positivismo giuridico, una fonte normativa superiore alla legge, cioè una legge sulle leggi; ma anche una rivoluzione sul piano politico, e conseguentemente della teoria della democrazia, giacché, essendo la legge concepita come espressione della volontà popolare, era a sua volta inconcepibile, dall’immaginario democratico tradizionale, che tale volontà potesse essere limitata o paralizzata da una legge precedente, sia pure costituzionale. Ricordiamo l’articolo 1 del titolo VII della Costituzione francese del 1791 secondo cui “la Nazione ha il diritto imprescrittibile di cambiare la sua Costituzione”, e poi l’articolo 28 della Costituzione del 1793, secondo cui “ogni popolo ha sempre il diritto di rivedere, di riformare e di cambiare la sua Costituzione” e “una generazione non può assoggettare alle sue leggi le generazioni future”: non può, secondo una classica formula, “legare le mani” del popolo futuro[8].

Il costituzionalismo rigido e garantista, dopo le lezioni impartite dai fascismi, ribalta questo argomento: proprio se vogliamo garantire il diritto di tutte le generazioni di decidere del loro futuro, e perciò la sovranità popolare delle generazioni future e gli stessi poteri delle future maggioranze, dobbiamo mettere al riparo dalle contingenti maggioranze la Costituzione o, quanto meno, i suoi principi supremi: il suffragio universale, i diritti di libertà e i diritti sociali, che del consapevole esercizio dei diritti politici formano il presupposto elementare. La rigidità, in breve, lega le mani delle generazioni volta a volta presenti per impedire che siano da queste amputate le mani delle generazioni future[9].

Ebbene, in forza di questo mutamento strutturale, cambiano le condizioni di validità delle leggi, le quali non riguardano più soltanto la forma (il chi e il come), ma anche i contenuti (il che cosa) delle decisioni legislative; non più solo le norme formali di competenza relative al chi e le regole di procedure relative al come, cioè al metodo di formazione delle leggi, ma anche i principi costituzionali sostanziali relativi al che cosa le leggi non devono ledere e al che cosa devono attuare, cioè i principi di uguaglianza, di libertà e di giustizia che esse non devono contraddire e, prima ancora, devono garantire. E cambiano, parallelamente e correlativamente, le condizioni, non più soltanto formali e procedurali[10], ma anche sostanziali della democrazia: la quale non risiede più nell’onnipotenza delle maggioranze, bensì nel loro potere limitatamente alla sfera del decidibile, cioè “nelle forme e nei limiti della Costituzione” come dice l’articolo 1, ossia nel rispetto e in attuazione dei diritti fondamentali dei cittadini. Solo in questo modo la Costituzione unisce e non divide. Solo così essa è patrimonio di tutti e non di una maggioranza: perché consiste nel patto dell’uguaglianza, quale precondizione della convivenza pacifica finalizzato a garantire tutti contro l’arbitrio di qualunque potere.

Oggi entrambi questi fondamenti della Repubblica, il lavoro e la sovranità popolare, sono in crisi. È in crisi la sovranità popolare, a causa del crollo della rappresentanza politica. E’ in crisi il valore e la dignità del lavoro, che le politiche liberiste di questi anni hanno nuovamente trasformato in merce. Le due crisi – l’una della dimensione politica o formale, l’altra della dimensione sociale e sostanziale della democrazia – sono tra loro in larga parte connesse, l’una come causa dell’altra, così come sono connesse le due dimensioni della democrazia e i valori costituzionali sui quali si fondano. E sono a loro volta connesse al ribaltamento della gerarchia democratica dei poteri: non più il ruolo di governo della politica sull’economia, legittimato dalla rappresentatività delle diverse forze sociali nelle quali si articola la sovranità popolare, bensì il primato dell’economia, la quale detta oggi le sue regole alla politica anche in danno dei diritti costituzionalmente stabiliti.