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Il lavoro: cos’è e come sarà ai tempi dei robot. Che fare oggi e domani?

robot
Società 4.0. fine del lavoro umano?

di Nicolò Migheli
By sardegnasoprattutto/ 27 febbraio 2017/ Economia & Lavoro/

L’innovazione e il progresso tecnologico sono inarrestabili. In quello che chiamiamo convenzionalmente Occidente lo sono da almeno mille anni. Se qualcuno troverà profitto e convenienza in una nuova tecnologia, se essa corrisponde ad un qualche bisogno, anche non espresso, finirà con l’imporsi. I telefoni portatili sono un caso studio. Prima dell’avvento del cellulare solo in pochissimi avevano l’esigenza di essere sempre raggiungibili, è bastata l’innovazione delle carte prepagate per fare in modo che sia presente nelle tasche di ognuno di noi.

Un bisogno e qualcuno che in esso intravveda una occasione di profitto, fanno in modo che l’innovazione si imponga. È già così per l’automazione e la robotica. Siamo dentro una rivoluzione non solo scientifica, ma che già condiziona la nostra esistenza ed in futuro lo farà sempre di più. Il report dell’ONU Robot and Industrialization in Developing Countries, sostiene che il 66% dei lavori svolti nei paesi di nuova industrializzazione già oggi può essere sostituito da robot. Il che comporterà la fine delle delocalizzazioni ed il rientro di molte produzioni in Occidente. Tranne Cina ed India, dove si stanno facendo passi consistenti nel settore.

Secondo la società di consulenza McKinsey, solo il 5% dei lavori attuali non è robotizzabile. Se questo non è ancora avvenuto è perché, allo stato attuale, la robotizzazione comporta una perdita di qualità del lavoro svolto, le macchine non sono ancora in grado di comprendere e processare il linguaggio naturale umano. Più sale la complessità e l’alto valore aggiunto delle attività, minore è il rischio di automazione. Ora siamo ancora dentro la teoria dei colli di bottiglia: certe attività non sono robotizzabili perché il costo della elaborazione degli algoritmi è superiore al beneficio ottenuto, però negli ultimi trent’anni quel costo è diminuito costantemente, di conseguenza tra non molto il collo di bottiglia verrà eliminato.

Per cui un docente universitario robot, un cantante lirico, un sociologo o un scrittore cyborg sono dentro un futuro possibile. McKinsey nello studio citato afferma che negli Usa, già oggi solo il 4% dei lavori ha bisogno di creatività. Siamo dentro la distopia di Norbert Wiener che nel New York Times già nel 1949 aveva profetizzato con il dominio delle macchine una rivoluzione industriale di assoluta crudeltà.

Il sociologo Bruno Manghi che da oltre trent’anni studia l’impatto dell’automazione negli ambienti di lavoro, intervistato da Rai News 24 affermava che l’ottimismo della liberazione dal lavoro per merito delle macchine, tipico dei decenni scorsi, si sta trasformando nel pessimismo della scomparsa del lavoro e confessava la sua impotenza nell’immaginare soluzioni.

Il refrain che ha accompagnato il progresso tecnologico è stato: i lavori persi verranno riguadagnati in lavori di maggior qualità. Di conseguenza basta investire in istruzione, spostare l’asticella insomma, e i lavori non scompariranno. È pur vero che ci sarà bisogno di figure professionali nuove, che sappiano progettare e dialogare con macchine sempre più sofisticate, però quante saranno nel mondo? Visto che già oggi giganti come Google progettano intelligenze artificiali resilienti, che imparano dai propri errori, che si adattano all’ambiente e che tra non poco sapranno progettare intelligenze simili? In un articolo del The Guardian del novembre del ’15 si stimava che nel mercato della robotica in dieci anni è ipotizzabile una crescita dai circa 27 miliardi di dollari attuali ai 67 previsti.

Già oggi ne vediamo i frutti, quella che viene definita l’uberizzazione del lavoro umano fa passi consistenti: frammentazione delle attività date in appalto, smantellamento dei salari con l’imperversare dei micro pagamenti. Foodora che a Torino paga i suoi fattorini tre euro l’ora è sui giornali in questi giorni, ma i voucher di Renzi vanno in quella direzione.

Fino ad ora, gran parte dei consumatori hanno colto solo l’aspetto positivo della riduzione del prezzo e della comodità, ma tra non poco saremo in fase del Grande Disaccopiamento, secondo Brynjolfsson all’Harvard Business Review: non basta mettere più macchine nell’economia per garantire che la tecnologia arrechi benefici all’intero corpo sociale. Il successo dell’automazione non è automatico, non per tutti.

Il che pone problemi seri sulla tenuta delle società contemporanee in termini di PIL, sanità pubblica, previdenza sociale. Nessun settore verrà escluso da questa rivoluzione, neanche quello pubblico che fino ad ora ha risentito poco dell’automazione. Sono scomparse solo le dattilografe o poche altre figure professionali. Non a caso imprenditori di primo piano come Elon Musk di Tesla, Bill Gates ed altri propongono di tassare i robot.

Il Parlamento Europeo con 396 voti a favore, 123 contrari e 85 astensioni vota nelle settimane scorse una risoluzione con cui si propone di dare ai robot personalità giuridica. Lo fa per ragioni etiche. Se un’auto a guida autonoma causa un incidente, di chi è la responsabilità? Del padrone del veicolo? Del costruttore? Di chi ha fatto la manutenzione? È anche però il primo passo verso quello che alcuni definiscono reddito di cittadinanza, altri reddito universale. In Finlandia lo si sta già sperimentando con piccoli numeri.

Matteo Renzi torna dalla California e prospetta un lavoro di cittadinanza. Come spesso gli accade fa la figura dello studente che si presenta all’esame sulla base del sentito dire. Forse il segretario dimissionario del PD non ha chiari i termini del problema e fa confusione. Tutte queste proposte sono la via? Come Bruno Manghi confesso di non saperlo. Di sicuro il lato economico, benché decisivo, non è il solo ad essere importante.

È il concetto stesso di lavoro come autorealizzazione dell’individuo ad essere in crisi. Dalla Riforma Protestante in poi, questo, sia dipendente che autonomo, ha rappresentato l’identificazione dell’individuo rispetto alla rendita vissuta come attività parassitaria. Oggi assistiamo al contrario, la rendita, specie quella finanziaria, viene esaltata ed il lavoro mortificato da tasse e balzelli, da remunerazioni da fame. Un orizzonte che rischia di stravolgere le esistenze di tutti, di provocare rivolte che avranno bandiere luddiste se va bene.

Pensare poi che la nostra Sardegna, in quanto periferica e con attività che si crede non robotizzabili sia indenne, più che ingenuità è incoscienza. Un futuro di pastori cibernetici è dietro l’angolo.
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eddyburg
SOCIETÀ E POLITICA
Investimenti, progetti collettivi, tasse per i ricchi. L’anima del New Deal
di Laura Pennacchi, su eddyburg.

Un prezioso articolo che, cogliendo l’occasione delle ultime castronerie di Matteo Renzi, ricorda che cosa fu il New Deal e perché potrebbe essere oggi una via d’uscita dalle crisi che affligono il mondo di oggi: dal lavoro all’economia, dall’ambiente all’esodo. il manifesto, 1° marzo 2017
«L’anima del New Deal. Investimenti, progetti collettivi, tasse per i ricchi. Perché va ricordato Keynes a chi, come Renzi, vuole contrabbandare i famosi Job Corps, ripresi da Di Vittorio ed Ernesto Rossi, con il Jobs Act gonfio di bonus e sottrazione di diritti. Atkinson, per esempio, suggerisce di tornare a prendere molto sul serio l’obiettivo della «piena e buona occupazione» e un programma nazionale per il risparmio garantito

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Resisterò alla tentazione di parlare di frode per la spregiudicatezza con cui Renzi tenta oggi da un lato di qualificare come “lavoro di cittadinanza” le sue proposte di rilancio dell’occupazione (sostanzialmente una riedizione del Jobs Act, una riduzione della dignità del lavoro, la contrazione dei suoi diritti, una colossale decontribuzione a danno delle finanze pubbliche e a vantaggio dei profitti e delle imprese), dall’altro di inscrivere le sue idee complessive di politica economica nell’orizzonte di un rinnovato New Deal.

In tutta Europa è in corso una discussione molto seria e molto ardua su cosa preferire tra “reddito” e “lavoro” di cittadinanza” e personalmente ho argomentato perché opto per quest’ultimo[1].

La studiosa svedese Francine Mestrum, lamentando la mancata chiarezza da parte dei proponenti sui requisiti del reddito di cittadinanza, ha dichiarato che «sedurre le persone con slogan del tipo “denaro gratuitamente per tutti”, quando quello che si intende è in realtà un reddito minimo per chi è in stato di necessità, è vicino alla frode». Non userò una simile definizione per le ultime uscite di Renzi, ma alcune precisazioni sono, tuttavia, il minimo che l’habermasiana “etica del discorso” ci impone.

DiVittorio G _100L’anima del New Deal di Roosevelt – e così dovrebbe essere anche oggi – fu un grande piano di investimenti pubblici, straordinari progetti collettivi (quali l’elettrificazione di aree rurali, il risanamento di quartieri degradati, la creazione dei grandi parchi, la conservazione e la tutela delle risorse naturali) piegati al fine di creare lavoro in vastissima quantità e per tutte le qualifiche (perfino per gli artisti e gli attori di teatro) attraverso i Job Corps – le “Brigate del lavoro” ipotizzate anche da Ernesto Rossi e dalla Cgil di Di Vittorio –, identificando per questa via nuove opportunità di investimento e di dinamismo per il sistema economico.

Riprodurre oggi un’ispirazione e una progettualità di tal fatta è del tutto inconciliabile con il mantra al quale si è attenuto e si attiene Renzi, l’erogazione di bonus monetari e la riduzione delle tasse (specialmente a vantaggio delle imprese e dei ricchi, come è avvenuto con la cancellazione dell’Imu e della Tasi): perché mai se no, Roosevelt avrebbe portato le aliquote marginali sui più ricchi a livelli elevatissimi, mantenute tali anche per molti anni dopo la fine della seconda guerra mondiale?

Inoltre investimenti pubblici e creazione di lavoro richiedono di usare le istituzioni collettive come leve fondamentali.

Si tratta, infatti, di fare cose che fuoriescono dall’ordinario:
- Identificare fini e valori per dare vita a un nuovo modello di sviluppo (l’opposto dell’assumere gli esiti del mercato come un dogma naturale immodificabile e, conseguentemente, del limitarsi a compensare i perdenti e chi «resta fuori dal processo di innovazione», come dice Renzi).
- Dirigere l’innovazione orientandola verso bisogni e fini sociali (ricerca di base, rigenerazione delle città, riqualificazione dei territori, ambiente, salute, scuola, ecc.), l’opposto della “neutralità” e dell’ostilità per l’intervento pubblico (in nome del terrore del “dirigismo”) rivendicate dai consiglieri di Renzi.
- Lungi dal considerarlo un ferro vecchio, enfatizzare l’obiettivo della “piena e buona occupazione” rovesciando la logica: invece che affrontare ex post «i costi della perdita di impiego» (secondo il suggerimento di Renzi), fare ex-ante degli investimenti pubblici e della creazione di lavoro il motore di una crescita riqualificata.
- Considerare lo Stato come grande soggetto progettuale e come Employer of last resort, invece che il “perimetro” da assottigliare e depotenziare ipostatizzato dalle politiche di privatizzazione e di esternalizzazione care ai tardoblairiani odierni.

Qui va riscoperto Keynes e non per contrabbandare come keynesiano lo strappare “margini di flessibilità” all’”austerità” europea, senza rimettere drasticamente in discussione la logica del Fiscal Compact, per di più utilizzandoli per finanziare (in deficit) bonus e incentivi fiscali e non investimenti pubblici produttivi.

Richiamandosi a Keynes e a Minsky, nell’ultimo, bellissimo libro (Inequality) scritto prima di morire, il grande economista Tony Atkinson invoca «proposte più radicali» (more radical proposals) e denuncia l’insufficienza quando non la fallacia delle misure standard (quali tagli delle tasse, intensificazione della concorrenza, maggiore flessibilità del lavoro, privatizzazioni).

Il primo tabù che egli infrange è che la globalizzazione impedisca di mantenere strutture fiscali progressive e imponga che le aliquote marginali siano sempre inferiori al 50%. Propone, per l’appunto, che il ripristino della progressività – violata dalle politiche neoliberiste a tutto vantaggio dei ricchi – preveda per i benestanti aliquote massime del 55 e perfino del 65%.

Ed escogita tutta una serie di proposte “radicali”, tra cui di tornare a prendere nuovamente molto sul serio l’obiettivo della piena occupazione – eluso dalla maggior parte dei paesi Ocse dagli anni ’70 – facendo sì che i governi offrano anche «lavoro pubblico garantito».

Il suggerimento di Atkinson è di fare perno sulla «piena e buona occupazione» non in termini irenici, ma nella acuta consapevolezza che la sua intrusività – la sua rivoluzionarietà – rispetto al funzionamento spontaneo del capitalismo è massima proprio quando il sistema economico non crea naturalmente occupazione e si predispone alla jobless society.

E proprio collegata al rilancio della piena e buona occupazione è la proposta che «la direzione del cambiamento tecnologico» sia identificata come impegno intenzionale ed esplicito da parte dell’operatore pubblico, volto ad accrescere l’occupazione, e non a ridurla come avviene con l’automazione.

All’idea di rilanciare la piena e buona occupazione Atkinson collega altre proposte radicali: quella – memore di quando nel 1961 nel Regno Unito vigeva per i giocatori di calcio una retribuzione massima di 20 sterline alla settimana, pari alla retribuzione media nazionale – che le imprese adottino, oltre che un codice etico, un codice retributivo con cui fissare anche tetti massimi alle retribuzioni dei manager pure nel settore privato. O quella di un programma nazionale di risparmio che offra ad ogni risparmiatore un rendimento garantito (anche tenendo conto che, tra le cause dell’incredibile aumento delle disuguaglianze, c’è la sproporzionata quota di rendimenti finanziari che va ai redditieri superricchi).

[1] Vedi su eddyburg in particolare il recente articolo di Laura Pennacchi Perché al reddito di cittadinanza preferisco il lavoro, in “Il lavoro dentro e fuori dal capitalismo”
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Per correlazione: http://comedonchisciotte.org/allarme-onu-i-robot-sostituiranno-il-66-del-lavoro-umano/
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L’illustrazione è tratta dalla copertina della rivista Rocca, n. 10 del mese di maggio 2017
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