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IL PAPATO SI RINNOVA ED È DI NUOVO PROTESTA
di Raniero La Valle
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Notizie da
Chiesa di tutti Chiesa dei poveri
Newsletter n. 76 del 20 marzo 2018
QUESTI PAPI
Cari Amici,
per gli arruolati al partito antipapista la testimonianza dell’ex papa Benedetto XVI a sostegno di papa Francesco, a conferma della sua sapienza teologica e della continuità del suo pontificato con quello precedente, è arrivata come una sciagura. Così hanno cercato di azzerarla, svelando che nella lettera dell’ex papa c’era anche una riserva per uno dei teologi che aveva collaborato alla collana pubblicata dalla Libreria Editrice Vaticana per i primi cinque anni di pontificato. Ma per quanto la critica a uno degli autori della collana potesse essere fondata, ciò nulla toglie alla notizia principale, che sta nel rifiuto del precedente pontefice di prendere le parti o addirittura la guida della fazione anti-Bergoglio. La quale, dalla casamatta del blog dell’Espresso, annuncia ora per il 7 aprile a Roma una specie di Convenzione antagonista per pubblicare le Tesi di una nuova Protesta.
Tornando alla Chiesa, c’è da dire che questo strascico polemico seguito alla limpida presa di posizione dell’ex papa Benedetto, ha avuto il merito di portare alla ribalta, come oggetto di riflessione, la natura stessa del papato, anche al di là del giudizio sull’oggi. E ciò proprio perché è stato papa Benedetto a far cadere l’ostacolo che impediva un ripensamento della natura e del modo di esercizio del primato petrino, e perciò impediva la riforma del papato, condizione e volano della riforma della Chiesa.
L’ostacolo era che nel corso del secondo millennio cristiano il papato era stato fortemente mitizzato, quasi messo al posto di Dio. La manifestazione più vistosa nel Novecento se ne ebbe nella figura ieratica di Pio XII, il “Pastor Angelicus”; poi, dopo la parentesi di Giovanni XXIII, la mitizzazione giunse ai fasti di papa Wojtyla, che si disse avesse sconfitto da solo il comunismo e che le folle plaudenti volevano “santo subito!”.
Ma è in Paolo VI che il mito giunse alla sua massima crisi. Egli se ne era fatto custode, quando al Vaticano II aveva imposto (e aggiunto in via “previa”) una sua interpretazione restrittiva al documento conciliare sulla collegialità episcopale, per toglierne qualsiasi ombra che potesse offuscare la dottrina del primato e scolorire la figura del papa; e il 1 settembre 1966 in una sosta ad Anagni dove Bonifacio VIII aveva ricevuto il mitico schiaffo francese, rivendicò i meriti di quel ruvido papa “che più degli altri aveva affermato la più piena e solenne autorità pontificia” nel quadro concettuale “dei due poteri, uno spirituale l’altro temporale” disposti però su una “scala dei valori” per cui lo spirituale doveva prevalere sugli altri, e infiammò i fedeli così: “Questa comunità (la Chiesa) è organizzata e non può vivere senza l’innervazione di una organizzazione precisa e potente che si chiama la Gerarchia. Figlioli miei, è la Gerarchia che vi sta parlando, è il Vicario di Cristo che oggi è davanti a voi… Posso domandarvi, figlioli carissimi, questa grazia che voi certamente non mi rifiutate: amate il Papa, amate il Papa, perché senza alcun suo merito e senza certamente alcuna sua ricerca gli è capitata questa strana singolare vocazione di rappresentare Nostro Signore. Non guardate a noi, guardate il Signore di cui rappresentiamo…”, e la frase non finì per gli applausi. Ed è certamente per la forte coscienza di questa rappresentanza ricapitolata in lui che papa Montini compì i suoi gesti più estremi, come la Humanae Vitae, disattesa dalla Chiesa, o la decapitazione e riduzione al silenzio della Chiesa di Bologna.
Ma il mito si rovescia in tragedia quando Aldo Moro, nonostante la supplica montiniana alle Brigate Rosse che lo hanno rapito, viene ucciso. E nella preghiera agli agghiaccianti funerali di Stato che Moro aveva detto di non volere, Paolo VI si mostra sgomento perché lo scambio con Dio non ha funzionato, e lo interpella con un lamento che assomiglia più al “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” di Gesù, che alle rimostranze di Giona a Dio che si era pentito di voler distruggere Ninive e non l’aveva fatto. In tale lamento Paolo VI rompe nel grido e nel pianto la sua voce e si duole, quasi incredulo, con Dio: “Tu, o Dio della vita e della morte, Tu non hai esaudito la nostra supplica per la incolumità di Aldo Moro, quest’uomo buono, mite, saggio, innocente ed amico”; e tanto ne fu il dolore, che dopo pochi mesi Paolo VI morì.
E infine giunge Benedetto XVI, “il papa teologo”, che pone soavemente l’atto più eversivo del mito, con le sue dimissioni da papa, demitizzando in tal modo il papato. E proprio da lì comincia la riforma della Chiesa.
Ma in quale direzione? La disputa intorno alla lettera di Ratzinger su Bergoglio è stata su chi fosse il papa più teologo, o sul negare che Francesco fosse teologo. L’errore di questa disputa stava nel presupposto secondo cui il necessario predicato del papa è “professione teologo”. Certo deve saperne di teologia, però la professione di Pietro non era teologo, ma pescatore. Così lo prese Gesù, e con lui anche gli altri. Del resto anche come pescatori lasciavano a desiderare, e se non era per Gesù che faceva gettare le reti e distribuire i pesci, le folle restavano digiune.
Il papa non è lo scienziato di Dio, ma ne è il messaggero. Il termine stesso “teologia” del resto è esagerato. Non c’è una “scienza” di Dio, Dio non si può racchiudere nella nostra conoscenza, non sta lì, sta “in una brezza leggera”. Dice il vangelo di Giovanni: Dio nessuno l’ha mai visto, è il Figlio che lo svela, che lo racconta, che ne fa “l’esegesi”. Dunque a rigore c’è un solo teologo, che è Gesù, come un solo maestro, che è lui.
Perciò papa Francesco non deve passare al vaglio di un’accademia, e non sono su questo piano la continuità e le differenze col suo predecessore. Per questo è così affascinante la domanda su chi è veramente Francesco, e per quale forza sta cambiando, presso l’uomo moderno, l’idea stessa di religione.
Sono questi i temi dell’articolo che pubblichiamo, “Professione teologo o pescatore”, sui quali dovremmo continuare a discutere. Inoltre riprendendo il tema dell’innovarsi nel tempo dell’annuncio messianico cristiano, pubblichiamo un articolo di Carlo Molari sulla Parola che “non si conserva in naftalina”. Di papa Francesco pubblichiamo uno stralcio dell’ultimo discorso ai giovani.
Intanto, per la politica, la cosa più urgente da fare è di abolire, vista la perversione in corso, il reato di favoreggiamento all’immigrazione clandestina (art. 11 della legge Bossi-Fini).
Con i più cordiali saluti
www.chiesadituttichiesadeipoveri.it
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Su la Repubblica.it 2018
LA CONTINUITÀ DELLA FEDE
di Enzo Bianchi
Poche righe, essenziali nella loro schietta semplicità, per far tacere uno «stolto pregiudizio» e riaffermare una verità profondamente cattolica. Benedetto XVI ha voluto mettere nero su bianco quello che il sensus fidei presente nel popolo di Dio aveva capito da subito e che invece i pochi ma agguerriti oppositori di papa Francesco si ostinano a negare: «La continuità interiore tra i due pontificati». Sottolineare i cambiamenti, gli accenti, le differenze, le novità degli ormai cinque anni del pontificato di papa Francesco non implica una critica né tantomeno una contrapposizione rispetto a Benedetto XVI: solo una lettura distorta del ministero petrino, infatti, non riesce a vedere come la continuità riguardi la fede professata, mentre gli stili, i modi di presiedere, di essere pastore e manifestare la sollecitudine per le urgenze dell’umanità possono e, in certa misura, devono essere diversissimi, perché i doni del Signore sono diversi tra loro.
Nella sempre lucida e attenta sollecitudine per la Chiesa che lo anima anche dopo la rinuncia al ministero petrino, Benedetto XVI ha ritenuto urgente e doveroso far sentire la sua voce per il bene del popolo di Dio e la sua unità attorno al vescovo di Roma: come pastore che non cessa di avere a cuore il suo gregge, ha usato la sapienza teologica sua e degli autori dei saggi sul pensiero di papa Francesco per «opporsi e reagire» a fronde pretestuose di chi confonde la trasmissione del messaggio evangelico da una generazione all’altra con la nostalgia per forme che hanno perso l’aderenza alla sostanza dell’annuncio cristiano.
Così, nella lettera che Benedetto XVI indirizza al prefetto della Segreteria della Comunicazione del Vaticano non vi è cedimento alla bassa polemica dei detrattori di Bergoglio, bensì la conferma di come ogni vescovo di Roma presiede alla carità usando al meglio la policroma varietà di carismi che ha avuto in dono. Tra le righe si può tuttavia leggere anche una velata ironia da parte di Benedetto XVI che ricorda come la pretesa contrapposizione tra i due papi finisca non solo per negare autorevolezza teologica a Francesco, ma anche per considerare il suo predecessore « un teorico della teologia che poco avrebbe capito della vita concreta di un cristiano oggi».
Questa profonda lettura della continuità del magistero papale — che in termini di fede altro non significa che la certezza che lo Spirito santo non abbandona mai il popolo di Dio — era del resto emersa nell’intervista che Benedetto XVI aveva concesso ad Avvenire due anni fa e su un tema, quello della misericordia, che tanto preoccupa gli odierni «profeti di sventura». Papa Francesco è entrato nella «continuità interiore» dell’annuncio della misericordia proclamato solennemente da papa Giovanni XXIII nel discorso di apertura del Concilio, riaffermato da Paolo VI e da Giovanni Paolo II e ribadito dal cardinal Ratzinger prima e dopo la sua elezione al soglio di Pietro: Benedetto XVI, come papa Francesco, sa guardare all’umanità con occhi profetici, discernendola in attesa di chi la guardi, se ne prenda cura, la perdoni, la rialzi, le dia speranza. Questo magistero pontificio, in piena continuità, vuole incontrare gli uomini e le donne di oggi che sono in attesa soprattutto di misericordia perché questa sembra mancare nelle relazioni umane, sembra affievolirsi e non far più parte della grammatica umana. Ciò non significa negare o sottacere il retroterra teologico e accademico diverso tra i due papi, né la diversità di approccio nel rinnovare la tradizione cristiana, nell’applicare l’aggiornamento auspicato da papa Giovanni e dal Concilio. La differenza non deve fare paura, bensì mostrare la bellezza delle diverse sfaccettature che la Chiesa assume nel corso della storia e nel suo essere comunione che abbraccia comunità di fede sparse nei cinque continenti. Con buona pace di chi semina zizzania e si diletta a contrapporre la «formazione teologica o filosofica» alla capacità di comprensione della «vita concreta del cristiano» di oggi e di sempre. E con profonda gratitudine per «tutte le differenze di stile e di temperamento » che caratterizzano Benedetto XVI e Francesco.
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