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Nazionalismo: da rileggere e approfondire nei suoi diversi e spesso inediti modi di proporsi

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Nazionalismi, quante facce!

di Gianfranco Sabattini*

Negli ultimi anni, lo studio del nazionalismo ha subito una radicale approfondimento, attraverso un’estesa proliferazione di studi storici, antropologici, sociologici, politici ed economici; ad affermarlo è Benedict Anderson, filosofo della politica d’ispirazione marxista. In “Comunità immaginate, Origini e fortuna dei nazionalismi”, l’autore offre “suggerimenti per un’interpretazione più soddisfacente dell’’anomalia’ del nazionalismo”, partendo dal presupposto che “sia la teoria marxista, sia quella liberale si siano intristite in un tentativo tardo tolemaico” di spiegare gli aspetti politici e sociali connessi al nazionalismo, e che, proprio per questo, sia urgente riorientare l’approccio allo studio di questo fenomeno “in uno spirito, per così dire, copernicano”.
Ciò vale soprattutto per chi, da sinistra, affronta il problema della nazione e del nazionalismo, in considerazione del fatto che, come afferma Marco d’Eramo nella Prefazione al libro di Anderson, da Marx in poi “una volta la nazione è ridotta a puro epifenomeno del formarsi del mercato capitalistico e dell’ascesa della borghesia. Un’altra a demone collettivo, puro impulso irrazionalistico da esorcizzare. Un’altra volta ancora è un fattore da usare strumentalmente per fare avanzare la causa proletaria”. Diventa difficile capire i fenomeni di nazione e di nazionalità, quando di essi non esiste un’interpretazione univoca.
Secondo Anderson, la difficile interpretazione dei concetti di nazione, nazionalità e nazionalismo è dovuta al fatto che essi sono delle categorie culturali di un tipo particolare; per poterle meglio interpretare è necessario considerare come esse siano nate storicamente, “in che modo il loro significato è cambiato nel tempo, e perché oggi scatenino una legittimità così profondamente emotiva”. A tal fine, Anderson riconduce la formazione di quelle categorie culturali alla fine del Settecento, affermando che esse sono state la “spontanea distillazione di un complesso ‘incrocio’ di forze storiche discontinue”; ma che, una volta affermatesi, è stato possibile trapiantarle in “una grande varietà di terreni sociali, per fondersi ed essere fuse con un’altrettanto varietà di costellazioni politiche e ideologiche”.
Nella sua analisi, Anderson assume che la nazione sia “una comunità politica immaginata”, insieme “limitata e sovrana”. Immaginata, in quanto i componenti anche della più piccola nazione “non conosceranno mai la maggior parte dei loro compatrioti, né li incontreranno, né ne sentiranno mai parlare”; ciò nonostante, nella mente di ognuno degli abitanti “vive l’immagine di essere comunità”. Limitata, perché, anche la più grande nazione ha “comunque confini, finiti anche se elastici, oltre i quali si estendono altre nazioni”. Sovrana, in quanto il concetto è nato quando Illuminismo e rivoluzione hanno distrutto “la legittimità del regno dinastico, gerarchico e di diritto divino” (senza che ciò significhi che la nazione immaginata sia nata per semplice sostituzione del regno precedente, con “un mutamento fondamentale nel modo di percepire il mondo”), che ha reso possibile la percezione della nazione.
Infine, la nazione è immaginata come comunità, in quanto, malgrado le ineguaglianze che in essa possono essersi create, anche in termini approfonditi, viene percepita in termini di fraternità e di solidarietà; valori, questi, la cui interiorizzazione ha consentito “per tutti gli ultimi due secoli – afferma Anderson -, a tanti milioni di persone, non tanto di uccidere, quanto di morire, in nome di immaginazioni così limitate”. Tale considerazione, secondo il filosofo della politica, solleva l’aspetto centrale del nazionalismo, consistente nel chiedersi come sia stato possibile che quei valori (di fraternità e solidarietà), affermatisi all’interno di un fenomeno (la comunità) immaginato, abbiano potuto generare “un tale sacrificio”. Per rispondere all’interrogativo, secondo Anderson, occorre considerare le “radici culturali” del nazionalismo.
I fattori culturali che hanno portato alla nascita del nazionalismo sono molti e vari; ma il più importante, a parere di Anderson, è senza dubbio l’affermarsi nel XVI secolo dello spirito del capitalismo, e con esso del mercato, in particolare di quello dell’editoria, per soddisfare “un ampio ma sottile strato di lettori” in lingua latina. La saturazione di questo mercato è avvenuta in un arco di 150 anni, attraverso “la rivoluzionar spinta del capitalismo verso il volgare”, favorita da tre tendenze fondamentali. La prima è stata originata dal mutamento del carattere del latino, per essere divenuto sempre più arcaico e lontano da quello parlato tutti i giorni. La seconda è stata determinata dall’impatto della Riforma, la cui diffusione è avvenuta attraverso la traduzione delle famose “Tesi” luterane negli idiomi parlati all’interno delle diverse comunità. La terza tendenza, infine, è va ricondotta al consolidarsi degli idiomi volgari “come strumenti di accentramento amministrativo da parte di monarchie potenti e aspiranti all’assolutismo”.
Le tre tendenze hanno dato luogo a un processo alimentato dall’interazione tra sistemi di produzione ispirati allo spirito del capitalismo, da un lato, e progressi della tecnologia di stampa e consolidamento delle diversità linguistiche, dall’altro. In conclusione, secondo Anderson, il risultato del processo interattivo ha creato una “nuova forma di comunità immaginata” su cui poggiano le basi delle nazioni moderne, organizzate nella forma di Stati-nazione. La formazione di questi ultimi, tuttavia, non è stata – afferma Anderson – “assolutamente isomorfica con il “raggio d’azione di una particolare lingua”, in quanto molti di essi sono diventati anche Stati nazionali che hanno assunto la forma di imperi poliglotti, polireligiosi e polietnici.
Se gli storici, nel 2050, dovessero studiare quanto è accaduto agli imperi, sorti alla fine del Medioevo e nella prima modernità, non potranno non constatare, a parere di Anderson, la loro disintegrazione “accompagnata da un’esplosione di violenza e spesso seguita da decine di guerre civili o fra Stati”. Il primo Stato-nazione, sorto in Nord America da una rivolta contro la Gran Bretagna, era così diviso che ha dovuto poi sopportare la più sanguinosa guerra civile dell’Ottocento; sono seguite le faide civili dell’America Latina, originate dal collasso dell’impero spagnolo all’inizio dello stesso Ottocento, gli esiti del crollo degli imperi ottomano, asburgico e di quello germanico degli Hohenzollern, nonché gli esiti del crollo degli imperi asiatici di Cina nel 1911 e dell’India dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Sempre dopo 1945, si è verificata la disintegrazione degli imperi coloniali di molti Stati europei, anch’essa accompagnata da guerre civili all’interno dei nuovi Stati, oppure da guerre tra di essi.
In apparente alternativa agli effetti della disgregazione degli imperi dell’età moderna è stata – sostiene Anderson – la Rivoluzione russa del 1917, nella sua originaria forma internazionalista. Ciò perché, l’Unione Sovietica non ha visto se stessa come un “nuovo, immenso Stato-nazione”, ma piuttosto come un modello di organizzazione comunitaria, all’interno del quale il nazionalismo doveva essere superato come principio politico. Questa fase, però, non è durata a lungo, inizialmente a causa della decisone di realizzare il socialismo in un solo Paese, in condizioni di accerchiamento capitalistico, e successivamente, a seguito dell’invasione delle armate hitleriane; per questi motivi, è stato gioco forza per Stalin e gli altri comprimari della rivoluzione russa fare appello al nazionalismo, per giustificare i sacrifici imposti al popolo sovietico, sia per edificare il socialismo, che per resistere all’aggressione hitleriana. Inoltre, l’URSS, nelle peripezie del dopoguerra, ha dovuto constatare l’impossibilità di unire a se stessa gli Stati “comunistizzati” dell’Europa dell’Est. L’esperienza complessiva che il mondo ha vissuto, a partire dall’inizio dell’età moderna sino ai nostri giorni, è valsa ad evidenziare – secondo di Anderson – che il nazionalismo, associato ad una comunità (sia pure immaginata), che si identifica in un sistema di valori esclusivi, “può essere contenuto, ma non soffocato o superato per sempre”.
Constatata l’ineliminabilità del nazionalismo, quali sono – si chiede Anderson – le implicazioni sul piano conoscitivo e su quello politico? A suo parere, quanto vissuto con il crollo degli imperi moderni poliglotti, polireligiosi e polietnici, dovrebbe suggerire la necessità di rimuovere dalla cultura politica quattro pregiudizi. Il primo è che la disintegrazione delle realtà statuali disomogenee (dal punto di vista linguistico, religioso ed etnico) sia di per se sufficiente ad eliminare tutti i possibili esiti negativi delle “patologie” intrinseche a quelle realtà. Il secondo pregiudizio riguarda la relazione che si suppone esista tra capitalismo, mercato e grandezza degli Stati, per cui accade spesso che, da posizioni di destra e di sinistra, si assuma che i piccoli Stati, con limitate disponibilità di risorse materiali e di forza lavoro, siano scarsamente dotati per adattarsi alle condizioni di operatività del capitalismo mondiale; si tratta di un modo di pensare proprio dell’ideologia nazionalistica che, nel corso della prima metà del secolo scorso, è valsa ad affermare l’idea che uno Stato, per tutelare la propria comunità nazionale, deve crescere e resistere alla concorrenza degli altri Stati competitori attraverso la conquista, a spese degli Stati più deboli, uno “spazio vitale” all’interno del quale realizzare l’autosufficienza. Il terzo pregiudizio è la convinzione che le imprese multinazionali possano rendere obsoleto il nazionalismo; convinzione del tutto inconsistente, in quanto manca di considerare che le imprese multinazionali sono per lo più localizzate negli Stati che egemonizzano il mercato mondiale, quindi propensi, per ragioni nazionalistiche, a contrapporsi alle imprese multinazionali degli altri Stati. Infine, il quarto pregiudizio è che il nazionalismo sia stato sconfitto dalla presunta esistenza di una connessione tra capitalismo e rapporti pacifici tra gli Stati, cosicché il libero mercato mondiale sia l’antidoto di tutte le manifestazioni patologiche del nazionalismo.
Quest’ultimo, lungi dall’essere stato sconfitto, nei tempi moderni ha acquisito, con il crescere dei flussi migratori, anche un carattere nuovo. Gli esseri umani – afferma Anderson – “trascinati nel vortice del mercato, non sono semplicemente un’altra forma di merce”; essi racchiudono in sé “memorie abitudini, credenze e usi culinari, musiche e desideri sessuali. E queste caratteristiche che, nei Paesi d’origine, sono portate con leggerezza e quasi inconsciamente, acquistano un risalto drasticamente diverso nelle diaspore della vita moderna”, sino a rendere difficili, a causa delle dimensioni del fenomeno migratorio, tutte le forme tradizionali di assimilazione graduale degli immigrati all’interno dei contesti di accoglimento. Di fronte allo smarrimento procurato dagli ambienti sociali alieni, è stato inevitabile che gli immigrati solidarizzassero tra loro, raggruppandosi in ghetti etnicamente omogenei, al fine di “difendersi” dall’insofferenza manifestata nei loro confronti da parte della popolazione dei Paesi ospitanti. Dal lato opposto, la formazione di questi ghetti ha prodotto, e continuerà a produrre, una crescente etnicizzazione simmetrica delle popolazioni autoctone.
L’interazione tra le due forme di identificazione valoriale ha dato luogo al manifestarsi di crisi ricorrenti nei rapporti tra immigrati e cittadini dei Paesi ospitanti, valse a mostrare che il nazionalismo, come categoria culturale esclusiva, non è stato affatto rimosso dai reiterati tentativi di integrazione dei “diversi”; anzi, esso è servito per dare forza e giustificazione alle ragioni delle due etnie contrapposte.
In particolare, conclude Anderson, è possibile che quello degli immigrati sia un nazionalismo di tipo nuovo, in quanto praticato da soggetti che, benché residenti in uno Stato in cui vivono e lavorano, si difendono, nel conflitto che li vede contrapposti ai cittadini dello Stato ospitante, sulla base di un’identità politica fondata sulla loro “Heimat”, ovvero sui valori propri della loro patria d’origine.
Ciò origina un problema di difficile soluzione per i Paesi che accolgono gli immigrati; problema che non si può certo presumere di poter risolvere in modo certo e definitivo con la concessione della cittadinanza ai nuovi arrivati. L’incertezza e i dubbi sulla risolvibilità del problema dell’integrazione degli immigrati, attraverso la concessione della cittadinanza, non sono dovuti a xenofobia o a razzismo, ma agli interrogativi sollevati dal fatto che cittadini allogeni di seconda o terza generazione di alcuni Paesi europei sono stati “facile preda”, sul piano emotivo, delle situazioni di crisi insorte nelle comunità d’origine dei loro padri; ciò dimostra come il nazionalismo sia una dimensione della cultura dell’uomo che, per quanto latente e silente da generazioni, può riemergere improvvisamente per motivi imperscrutabili; fatto, quest’ultimo, che giustifica la necessità di approfondire la ricerca di soluzioni alternative a quelle suggerite dalla tradizionale apertura ideologica al multiculturalismo.
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* Anche su Democraziaoggi.
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CAGLIARI. Dibattito su/per la città alla vigilia delle elezioni comunali

cacitta2_2ape-innovativaRiprendiamo l’articolo di Gianni Corbia su SardegnaSoprattutto, considerandolo un interessante contributo al Dibattito su/per la città alla vigilia delle elezioni comunali (ormai è cominciata una lunga campagna elettorale).
Al riguardo il senso del nostro impegno come Aladinews è stato ben delineato in una dichiarazione che ci sembra opportuno qui richiamare per una lettura integrale e di cui di seguito riportiamo un passaggio. Le campagne elettorali hanno aspetti ambivalenti e contraddittori: da un lato sono occasioni di strumentalizzazioni di ogni tipo, dall’altro costringono i cittadini e soprattutto le forze politiche a una disponibilità al dibattito, sconosciuta in altri periodi. Tocca a noi, opinione pubblica, fornire un terreno di confronto che diminuisca i rischi del primo aspetto e consenta ai cittadini elettori di farsi un’opinione di programmi e persone che li rappresentano, misurandone la credibilità. Altrimenti c’è la sfiducia e la conseguente diserzione delle urne, che, badate bene, fa premio a una classe politica il cui motto è diventato “meno siamo (gli elettori), meglio stiamo (gli eletti)”. Noi pratichiamo una linea virtuosa, quella della partecipazione popolare per la città di tutti. Ecco perchè pensando alle elezioni comunali di Cagliari del prossimo anno, prendendo atto che la campagna elettorale è ormai aperta, diamo spazio a un dibattito sulla città, senza limiti e pregiudizi o rispetto reverenziale per chicchessia. Con queste motivazioni (e questa apertura che non prevede necessariamente adesione alle idee, tutte rispettabili, di quanti intervengono, purchè animatrici di senso critico) abbiamo pubblicato una serie di interventi che ci sono sembrati particolarmente “utili alla causa” e continuiamo a pubblicarne di nuovi, come quello se segue di Gianni Corbia. Chiaramente la nostra è una scelta “arbitraria” che vuole esplicitamente portare acqua al mulino del rinnovamento nei programmi e nelle persone che vorremmo al governo della nostra città, obiettivo che ci vede precisamente schierati.

Ma a Cagliari il problema è solo l’inquinamento?
di Gianni Corbia

By sardegnasoprattutto/ 30 ottobre 2015/ Città & Campagna/

Cari Parlamentari: se volete affrontare la ‘questione sarda’, siamo qui!

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Candu si pesat su ‘entu est pretzisu bentualare di Salvatore Cubeddu
La ricerca di unità tra i parlamentari sardi a proposito di “salviamo la Sardegna!” (*) è un messaggio importante. Anche quella della solidarietà di taluni parlamentari italiani. Sappiamo farci anche degli amici, in Italia: basta sapere fino a dove e fino a quando intendano seguirci. Parliamone, anche per sfuggire a notizie meno consolanti: si concentra a Cagliari la sovrintendenza archeologia che a Sassari è stata cancellata, a Nuoro manca l’acqua da dieci giorni, i sindacalisti chimici insistono a chiedere all’Eni e al governo di riempirci di cardi le pianure. Visto che si scrive del maialetto sardo che non sarà protagonista all’Expò, paula majora canamus, parliamo di cose più serie.
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«La Sardegna è trattata dal Governo come se fosse un’isola dispersa e tagliata fuori da tutti i piani strategici. L’isola non può essere più una terra di confine abbandonata al suo destino». Parlano i nostri parlamentari, sapendo quanto sia stato finora inutile il loro voto presso il Parlamento. Chiedono che finisca quello per cui la Sardegna esiste per l’Italia: sfruttamento e/o abbandono. Sono i caratteri delle terre colonizzate o, se lo si preferisce, di quelle ‘dipendenti’ e ‘subordinate’.

Con i Piemontesi (per stare agli ultimi tre secoli) e poi con l’Italia si è trattato di una situazione costante. Come ciclica è la reazione unificatrice dei nostri rappresentanti. Nel 1860 Giuseppe Mazzini parlava dei sardi come “ … un Popolo infelice, povero, abbandonato, al quale la fedeltà al Regno non ha fruttato che ingratitudine …”. Voglio solo ricordare che ‘l’Unione Sarda’ nasce nel 1875 come concorde associazione di parlamentari e movimento di popolo per portare a termine la ferrovia e, solo dopo, quel titolo fu esteso al giornale che i promotori di quel movimento fondarono e che ancora conosciamo. L’unione rappresenta il minimo comune denominatore della presenza dei sardi in Parlamento. Necessaria, ma non sufficiente.

Funzionò per ottenere leggi speciali per la Sardegna, allorchè dei parlamentari sardi influenti a Roma utilizzarono il costante malcontento dei loro concittadini per ottenere impegni da parte dello Stato. Francesco Cocco – Ortu inventò le leggi speciali (nel 1897 e nel 1907), con effetti limitati, che mantennero una certa efficacia solo quando lui stesso era ministro: la diga del Tirso rappresenta la realizzazione maggiore di un impegno iniziato trent’anni prima della sua conclusione.

La ‘legge del miliardo’ servì a Mussolini per non raffreddare troppo presto l’illusione dei sardo – fascisti, in modo che l’ulteriore loro ‘rinuncia al Regno’ ne fosse valsa la pena. Le realizzazioni fasciste in Sardegna trovarono in Carbonia il massimo del carico finanziario e della realizzazione dell’‘utopia’ sociale e urbanistica del regime.

I primi sardisti che entrarono nel Parlamento italiano reagirono al modo di grillini d’antan. Umberto Cao, docente universitario, uno dei primi teorici dell’autonomia sarda, eletto nel 1921, pose al congresso di Nuoro (il 28 ottobre 1922) la questione della presenza dei quattro deputati sardisti nel Parlamento italiano: “… i sei mesi che si passano a Roma non parranno sprecati in confronto all’opera di organizzazione che si potrebbe e dovrebbe fare nella massa dei sardi? I quattro perduti nella folla di più di 500 energumeni – di là del Mediterraneo silenzioso – non possono mettere a profitto quella energia che nel paese certo sarebbe più efficacemente impiegata?”.

Il Piano di Rinascita, nella versione L. 588/1962 e L. 268/1974, ha avuto in gestazione l’elaborazione tradita della prima giunta regionale DC – PSd’A e pure dei suoi antagonisti del Congresso del lavoro del 1950. Anche in questi casi – come nell’ultima parte dell’Ottocento – la protesta organizzata si è intersecata variamente con la vicenda della crisi agraria, con l’emigrazione e con il banditismo.
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In questa storia di attese, lotte e delusioni si rileva una costante ed una eccezione. Costante è l’attesa e la pretesa che sia lo Stato a creare posti di lavoro, soprattutto a partire dalla fondazione della Repubblica. L’eccezione è la vicenda degli ex-combattenti e del primo sardismo, quando lo sviluppo della Sardegna viene affidato, insieme alle opere pubbliche, alla diffusione delle cooperative dei pastori e dei contadini, quelle che il fascismo, ormai senza sardismo, fece smobilitare per favorire i caseari romani. Forse si trattò dell’ultimo tentativo autoctono di un ceto produttivo e borghese sardo.

E’ ora? La situazione si ripresenta drammatica, il documento dei parlamentari ne è consapevole. Vorremmo chiedere loro di osservare le impressionanti analogie di quanto loro descrivono con quanto avvenuto nel nostro Ottocento, con il peso delle troppe esperienze negative che ora ci condizionano scoraggiandoci.

Chiediamo al Governo di intervenire subito per far fronte all’emergenza non con la solita assistenza ma con progetti e investimenti”, chiedono di nuovo oggi i parlamentari sardi. Visto che anche noi intendiamo collaborare con l’interessante nuovo raggruppamento unitario dei parlamentari, ci permettiamo di rivolgere loro alcuni interrogativi collegati alle relative osservazioni.

1. In Sardegna continuano a scorrazzare avventurieri dell’energia di ogni parte e tipo – in diretto contatto con i ministeri romani – che provocano la reazione delle istituzioni locali e delle comunità senza che si riveli una efficace contrapposizione delle istituzioni regionali e della rappresentanza parlamentare. Perché una legge costituzionale (il nuovo Statuto sardo) non sostituisce lo sforzo immane della nostra gente che difende il proprio territorio?

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2. Da tempo in Italia non operano le Partecipazioni Statali: com’è che vi aspettate degli investimenti pubblici diretti? L’unica proposta possibile è quella derivata dalla logistica militare per il Salto di Quirra, che il governo ha però destinato altrove. A quali progetti, allora, vi riferite? Al momento siamo a conoscenza dei piani per il Sassarese e per il Sulcis: Matrica e Mossi- Ghisolfi, che occuperebbero il territorio agricolo dopo aver ben remunerato i proprietari dei terreni. Sindacati chimici e politici dei due territori vendono la cosa come fatta. La giunta Pigliaru, sulle canne del Sulcis e sul cardo di Sassari, pare stia solo aspettando che si calmino le acque. E’ immediatamente comprensibile a chiunque viva in Sardegna che tale follia economica e sociale scatenerebbe reazioni assolutamente prevedibili in un materiale evidentemente infiammabile. E’ questo l’obiettivo per il quale dovrebbero combattere i sardi uniti? Per avere negata anche la speranza di una prospera agricoltura e vedere nuovamente devastato il proprio territorio dalla monocoltura del biofuel?

3. Affermate: “E chiediamo anche ai presidenti dei due rami del Parlamento di portare la nostra vertenza nelle sedi più alte, non per avere privilegi ma diritti”. I nostri lo scrivevano anche nell’800, rivolgendosi al Re, con gli esiti che sappiamo. In Sardegna lo si fa costantemente, con i presidenti della Repubblica e con i Papi. Solo la perdita di memoria e l’ingenuità possono spiegare tale ricorrente e umiliante pietismo. Cari amici Parlamentari: ma ci credete sul serio che l’aiuto che chiedete per i casi della Sardegna, quasi sempre reso vano nei 150 anni di ‘italianità’, lo possiamo ottenere con atteggiamenti da ancien regime? Si può capire – ma rattrista – che degli operai disperati si rivolgano alla pietà delle istituzioni, ma non coloro che si sono assunti l’onore e il dovere di rappresentare i diritti del nostro popolo con intelligenza e saggezza, ma pure con senso della dignità. Dunque: se vogliamo farla, questa battaglia, facciamola sul serio, consapevoli di trovarci di fronte a un avversario che da tempo promette e non mantiene, blandisce e castiga, afferma e non realizza. Voi dovreste ben conoscerli, visto che li avete anche in Parlamento. Non c’è più spazio per la delega e per il lamento. Pensiamoci bene: quello che vi proponete è importante e doveroso, vi fa onore e spinge ogni sardo onesto a seguirvi. Candu si pesat su ‘entu est pretzisu bentualare. Poi il vento si spegne. La storia procede. E’ successo troppe volte!

4. La Sardegna è già in fiamme, si levano tanti piccoli fuochi. Non c’è stato mattino della scorsa settimana che, da via Roma a viale Trento, non siano sfilati operai senza lavoro e/o senza stipendio, mamme con bambini e maestri che difendono le scuole, sindaci che gridano per la propri acqua, studenti che continuano a invocare scuole ‘non di classe’. Pigliaru non è da invidiare. Ma non è lì per sostituire i ragionieri e controllare i conti “per conto” di Roma. Non è un presidente di una regione qualsiasi, ha accettato di fare il capo di un Popolo. Oggi siamo costretti a decidere un progetto per la Sardegna del futuro. E’ obbligatorio averla, questa idea. O no?

5. Infine. Cari amici parlamentari: tra qualche mese ricorderemo ‘sa die de sa Sardigna’. Se non abbiamo capito male, chiedete ai Sardi di riconquistare quello spirito, quel coraggio, quel metodo.
I Sardi dovranno capire che il divenir prosperi, felici, ricchi, non dipende che da loro medesimi, che se non vorranno divenirlo è tutta colpa propria”. L’affermazione è di Federico Fenu, teologo, nella pubblicazione: La Sardegna e la fusione del suo regime col sardo continentale, Cagliari, 1848. Sì, la data è quella giusta: 1848!

15 marzo 2015

(*) Il video della conferenza stampa di presentazione della mozione dei parlamentari sardi
(°°) Il testo della mozione sul sito della Camera dei Deputati (primo firmatario Roberto Cappelli).
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Sciola Serdiana
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- L’articolo di Salvatore Cubeddu viene pubblicato anche sui siti di FondazioneSardinia, Vitobiolchini, Tramasdeamistade, Madrigopolis, Sportello Formaparis, Tottusinpari e sui blog EnricoLobina e RobertoSerra, SardegnaSoprattutto.
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