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Lavoro, lavoro

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Il lavoro nel 2019, ancora una corsa verso il basso
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IN PRIMO PIANO. Su Volerelaluna, 08-01-2020.
di Fulvio Perini

Agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso Susan George definì «corsa verso il basso» il processo di globalizzazione e gli accordi internazionali che lo sostenevano. Corsa verso il basso ma non per tutti, solo per gli esseri umani coinvolti in un modello economico fondato sulla competitività a costi più bassi del lavoro, della sicurezza sociale e della protezione ambientale. Il lavoro è stato direttamente investito. È vero che il processo di globalizzazione ha favorito per alcuni decenni, sino alla crisi finanziaria del 2008, una diffusione delle attività economiche e manifatturiere che ha comportato in diversi Paesi una crescita dell’occupazione, o meglio un trasferimento di centinaia e centinaia di milioni di lavoratori dell’agricoltura verso l’industria e, progressivamente, verso i servizi, ma questo processo si va esaurendo. L’unica cosa che continua – come documentato nei resoconti mensili pubblicati in questo sito [volerelaluna] – è la corsa verso il basso di diritti, condizioni e rispetto dell’ambiente.

Il quadro internazionale

Come ogni anno l’Organizzazione internazionale del Lavoro (ILO) pubblica alcuni dati e svolge alcune considerazioni. Va tenuto conto che è un organismo dell’ONU tripartito, composto cioè per un terzo da rappresentanti dei governi, per un terzo da rappresentanti degli imprenditori e per un terzo da rappresentanti dei lavoratori: i documenti sono valutati e condivisi considerando e mediando i tre punti di vista, ma i dati non si possono ignorare:

– l’8% degli occupati del mondo vive in povertà;

– il 55% della popolazione mondiale NON è coperta da alcuna forma di protezione sociale;

– il 51% dell’occupazione non agricola nel mondo è informale (senza riconoscimento e protezione sociale);

– esiste un divario retributivo globale di genere del 19% e le donne detengono solo il 27% delle posizioni manageriali;

– il tasso di disoccupazione globale è del 5%;

– il 21% dei giovani del mondo non ha impiego, istruzione o formazione;

– il 10% di tutti i bambini nel mondo è impegnato nel lavoro minorile;

– il 14% delle persone occupate nel mondo lavora nel settore manifatturiero;

– il 52% del PIL mondiale è destinato alla remunerazione del lavoro.

Dalla crisi del 2008 i salari dei lavoratori del gruppo dei Paesi più ricchi denominato G7 sono praticamente fermi. Erano invece cresciuti e parecchio quelli degli altri 13 Paesi del gruppo G20 ma questa crescita era fortemente influenzata dagli aumenti dei salari in Cina. Ora si sono fermati anche in Cina e dal 2016 si assiste a un lieve ma progressivo declino.

Tutto questo ha portato l’ILO a dichiarare: «la maggioranza dei 3,3 miliardi di persone impiegate a livello globale non ha potuto lavorare e vivere in condizioni di benessere materiale, di sicurezza economica, pari opportunità o possibilità di sviluppo umano. Il lavoro non garantisce sempre una vita dignitosa. Molti lavoratori si trovano a dover assumere lavori poco attraenti che tendono ad essere informali e sono caratterizzati da bassi salari e scarso o nessun accesso alla protezione sociale e ai diritti sul lavoro».

Circa 6.500 persone muoiono ogni giorno a causa di malattie professionali e 1.000 a causa di incidenti mortali sul lavoro. Sommati nell’anno i morti per ragioni di lavoro sono circa 2,4 milioni.

Circa 40,3 milioni di persone sono in condizione di moderna schiavitù, 24,9 milioni in condizioni di lavoro forzato e 15,4 milioni di matrimonio forzato. In larga parte il lavoro forzato rappresenta un modo per pagare debiti contratti, si chiama servitù del debito. Sorge spontanea una domanda: e quando il debito lo contrae uno Stato, ad esempio la Grecia, come lo dobbiamo chiamare?

Le diseguaglianze

Negli anni successivi alla crisi finanziaria il numero dei miliardari è raddoppiato e i loro patrimoni aumentano di 2,5 miliardi di dollari al giorno; nonostante ciò i superricchi e le grandi imprese sono soggetti alle aliquote fiscali più basse registrate da decenni. I costi umani di tale fenomeno sono enormi: scuole senza insegnanti, ospedali senza medicine. I servizi privati penalizzano i poveri e privilegiano le élite. I soggetti che risentono maggiormente di tale situazione sono le donne, su cui grava l’onere di colmare le lacune dei servizi pubblici con molte ore di lavoro di cura non retribuito. Forse non va ignorato il commento della segretaria del sindacato internazionale dei lavoratori dei servizi: «Il reddito di base universale senza servizi pubblici di qualità è un paradiso neoliberale». Illusorio, aggiungerei.

Immigrazione

Le stime attuali indicano che ci sono 244 milioni di migranti internazionali a livello globale (il 3,3% della popolazione mondiale). Mentre la stragrande maggioranza delle persone nel mondo continua a vivere nel paese in cui è nata, sempre più persone stanno migrando verso altri paesi, in particolare quelli all’interno della loro regione. Molti altri stanno migrando verso paesi ad alto reddito che sono più lontani. Il lavoro è la ragione principale per cui le persone migrano a livello internazionale e i lavoratori migranti costituiscono una grande maggioranza dei migranti internazionali del mondo: la maggior parte di quelli che vivono in paesi ad alto reddito è impegnata nel settore dei servizi.

Solo in Inghilterra esiste una norma che impone ai datori di lavoro di pubblicare informazioni sulla retribuzione su base etnica. Nel primo anno di pubblicazione dei dati sono emerse prove evidenti del divario retributivo.

Il blocco dell’immigrazione negli Stati Uniti e in Europa è una grande ipocrisia. Uno dei suoi massimi sostenitori, l’ungherese Orban, costruisce muri e blocca l’immigrazione dei musulmani ma grandi agenzie ungheresi organizzano l’immigrazione dalla Mongolia e dal Vietnam. L’obiettivo della destra nazionalista è quello di creare e mantenere un sottoproletariato senza riconoscimenti e senza diritti; eternamente ricattabile per poter ricattare così anche quei lavoratori che alcuni diritti li hanno e indurli ad accettarne una riduzione pur di lavorare ed evitare di diventare come degli immigrati.

Una diffusa lotta di classe, quasi sempre difensiva

Da ormai molti anni si va svolgendo un attacco ai diritti di libertà, rappresentanza e sciopero dei lavoratori e un attacco alle misure di protezione sociale, prima di tutto la sicurezza previdenziale rispetto alla vecchiaia.

Prima, ma soprattutto dopo la crisi del 2008 questo attacco si è svolto in Europa e in particolare nel Sud del continente con i tagli pesanti e ripetuti ai sistemi pensionistici e sanitari in Grecia, Italia, Francia, Spagna e Portogallo che hanno visto i lavoratori impegnati in decine di scioperi generali nazionali ma anche l’assenza totale di una azione del sindacato europeo. Lo stesso è avvenuto con il drastico depotenziamento, se non la demolizione, degli statuti del lavoro in Italia, Francia e Spagna. In Spagna la risposta è stata anche politica e il nuovo governo PSOE-Podemos ha nel programma il cambiamento delle norme volute da Rajoy; in Francia lo scontro è durissimo ma non si intravvede una proposta politica alternativa; da noi il problema non si pone, è prioritario “salvare la democrazia”.

Nel mondo. A gennaio si è svolto in India lo sciopero generale di due giorni che ha visto la partecipazione di quasi 200 milioni di lavoratori, il più grande sciopero della storia; a giugno lo sciopero unitario indetto dai sette sindacati brasiliani contro il governo ha visto partecipare 45 milioni di lavoratori. E poi: a fine giugno lo sciopero generale in Argentina contro i provvedimenti voluti dal Fondo Monetario (FMI); sempre nello stesso mese lo sciopero generale in Tunisia contro il governo e il FMI; a luglio sciopero generale in Uruguay contro la proposta dei padroni di cancellare la contrattazione collettiva nazionale, che vedeva disponibilità del governo a trovare una mediazione; a ottobre primo sciopero generale in Cile che proseguirà (e prosegue) con la costruzione del movimento Unidad Social mentre lo sciopero e le manifestazioni di dicembre hanno visto più di 2,5 milioni di manifestanti in piazza; nello stesso periodo lo sciopero generale in Ecuador e in Colombia; il 5 dicembre lo sciopero generale in Francia (e la continuazione della lotta è in corso ancora oggi).

In tutti questi casi le ragioni della lotta sono state l’opposizione alla precarizzazione del lavoro, alla riduzione dei diritti sindacali e di sciopero, al taglio dei servizi pubblici in particolare delle pensioni. I due scioperi generali in Algeria, ma anche quello di dicembre in Cile, hanno avuto al centro la riaffermazione della democrazia contro le derive elitarie e oligarchiche, prima di tutto militari. Nello Zimbabwe lo sciopero è stato represso a colpi di arma da fuoco che hanno provocato 12 morti e l’arresto di diversi dirigenti sindacali tra cui il segretario della confederazione sindacale del continente africano.

Gli arresti di dirigenti sindacali è fenomeno sempre diffuso nel mondo. Spiccano quelli in Russia, Bielorussia e Kazakhstan ma soprattutto la frequenza quasi mensile in Algeria anche in contemporanea con le elezioni politiche. Ma quello che colpisce è la frequenza degli omicidi dei dirigenti sindacali in Colombia con 18 vittime e nelle Filippine che ha provocato l’intervento di Sharan Burrow, segretaria del sindacato internazionale, indicando il governo Duterte come responsabile di 43 omicidi.

Le lotte delle insegnanti negli Stati Uniti

Nell’ultimo anno ci sono state negli Stati Uniti importanti e diffuse lotte delle lavoratrici delle scuole, insegnanti e assistenti. Lo scontro si è svolto a partire dal West Virginia contro le privatizzazioni, il trasferimento di servizi scolastici alle “scuole charter”, e a visto una importante vittoria delle decine di migliaia di lavoratrici in lotta per diverse settimane. Sempre sugli stessi temi si sono svolte lotte analoghe in California dove sono scesi in sciopero 30mila insegnati a Los Angeles. Alcune settimane fa sono scese in lotta le insegnanti di Chicago contro la scelta di privatizzare dell’amministrazione comunale, criticando il voltafaccia del sindaco che in campagna elettorale aveva chiesto i voti per un programma contro le privatizzazioni.

I 33 giorni di sciopero dei lavoratori della General Motors

A mezzanotte del 16 settembre i 50.000 lavoratori della General Motors (GM) sono scesi in sciopero. È stato il primo sciopero dal 2007. Gli obiettivi erano: l’abolizione del sistema di retribuzione “a due livelli”; il contrasto al continuo aumento di esternalizzazioni e di utilizzo di lavoro temporaneo; oltre ad aumenti salariali generalizzati e a miglioramenti nell’assistenza sanitaria contro il progetto di GM di far pagare ai lavoratori una quota maggiore di spese mediche; infine, il no alla chiusura di impianti negli USA.

Si sono ottenuti significativi aumenti salariali per tutti. Il “doppio livello” era stato introdotto negli anni passati e comportava il fatto che a svolgere la stessa mansione ci fossero operai retribuiti 30 e altri 15 dollari l’ora, in ragione del momento dell’assunzione. Questa differenza è stata superata per gli operai delle linee di montaggio ma permane per i lavoratori che operano direttamente nella componentistica e nella logistica dell’impresa. Differenze analoghe permangono per i contributi per l’assistenza sanitaria e per le pensioni.

Comunque il problema è stato risolto per la maggioranza dei lavoratori e la maggioranza ha approvato l’accordo.

Rider di tutto il mondo unitevi

Praticamente in ogni mese del 2019 s’è avuta notizia di scioperi, proteste, cause giudiziarie o sentenze che hanno visto protagonisti lavoratori delle piattaforme della logistica che qui chiamiamo “fattorini”.

I conflitti si sono svolti sempre sugli stessi problemi: l’imposizione del lavoro autonomo al posto del rapporto di lavoro subordinato, l’avviamento al lavoro da parte di agenzie in Belgio o di cooperative in Spagna, il taglio delle retribuzioni orarie o il mancato pagamento del salario.

In Europa ma anche in America Latina il più delle volte le controparti sono state Deliveroo, Glovo, Uber, Eat o Stuart. In Argentina lo scontro è avvenuto anche contro imprese nazionali come Pedidos Ya e Orden Ya. In Cina contro il gigante della logistica YTO Express e le principali piattaforme di distribuzione alimentare, Meituan ed Ele.me, oppure collegate al crollo del noto corriere Rufengda Express, mentre le altre proteste si sono verificate in piccole società di corrieri regionali nello Jiangxi, nello Yunnan e Shandong.

In alcuni casi, come è avvenuto a Torino (conosceremo tra alcune settimane la definitiva sentenza della Corte di Cassazione), si è ricorso alla magistratura.

Due recenti decisioni di un tribunale di Amsterdam segnano una vittoria nella lotta contro Deliveroo con il riconoscimento che i lavoratori svolgono l’attività come dipendenti, non come imprenditori autonomi.

Interessante è stata la sentenza di un tribunale a Valencia, in Spagna, dove un analogo riconoscimento è avvenuto dopo il ricorso del locale ispettorato del lavoro: inimmaginabile in Italia.

Le lotte e la drammatica repressione negli ultimi sei mesi

Drammatica è stata la repressione perché in essa hanno perso la vita quasi 1500 persone, più di 10mila sono rimaste ferite da armi da fuoco, gli arresti sono stati in numero ancora superiore. Ci sono stati casi di tortura ma quello che colpisce è lo stupro di centinaia e centinaia di donne, soprattutto in America Latina dove da anni le donne erano entrate in campo contro la violenza di genere e la libertà dell’aborto diventando un soggetto sociale protagonista. Sempre la polizia è stata affiancata dall’esercito e nei casi del Cile e dell’Ecuador il governo ha dichiarato lo stato di emergenza e d’assedio. Parliamo delle manifestazioni ad Haiti e subito dopo in Ecuador, poi in Cile e a fine anno in Bolivia. Contemporaneamente si sono svolte analoghe proteste in Iraq e in Iran.

In Ecuador, Cile e, per ultimo, le lotte contro il golpe in Bolivia e lo sciopero generale in Colombia di dicembre hanno visto tra i protagonisti in prima fila le popolazioni indigene. La protesta in Haiti era stata definita levantamiento de los hambrientos, rivolta degli affamati. In Argentina l’opposizione al governo neoliberale ha vinto le elezioni e il primo provvedimento, contenuto in un accordo con le organizzazioni degli imprenditori e dei lavoratori, è garantire l’alimentazioni a tutti, come hanno scritto “a partire dagli ultimi”.

Alcune riflessioni

Gli avvenimenti prima descritti sono una delle espressioni della fase ormai di esaurimento del trentennio dell’economia globale. L’illusione si trasforma in dura realtà: non ce n’è più per tutti; una parte degli esseri umani deve essere abbandonata al suo destino.

Tra “noi” e “loro” vanno costruiti muri e siamo ormai giunti nel mondo a 55 muri per un totale di 40mila chilometri, metà dei quali costruiti dopo il 2008, e altri sono in costruzione. Se non basta vendere le armi perché si ammazzino tra loro, prima di tutto alimentando gli integralismi religiosi (i golpisti boliviani salutano con il tradizionale saluto militare ma con l’indice e il dito medio della mano incrociati appunto a forma di croce), allora li bombardiamo o appoggiamo in silenzio chi bombarda. Tutto questo mentre la crisi climatica incombe e già oggi – come ha segnalato l’organismo dell’ONU preposto ai diritti umani – oltre 120 milioni di esseri umani a sud dei muri vivono in una sorta di apartheid climatico, mentre palestinesi e kurdi in quello materiale.

In un contesto di questo tipo i lavoratori si battono, eccome… Non sono tutti come i lavoratori italiani! Eppure la prospettiva è incerta. Come scriveva Luciano Gallino «i lavoratori non pensano più di avere un destino comune», ma come possono pensare di averlo nel pieno della frantumazione del lavoro e quando, come scrive il sindacato internazionale dei lavoratori dell’industria, è venuta scemando la solidarietà internazionale? Se lo sguardo non va oltre al proprio villaggio anche quando sei subissato di notizie dai social e la speranza non va oltre la giornata o la settimana quando sei fortunato e lavori, viene anche a mancare la speranza individuale. Le contraddizioni impongono una nuova progettualità. Per ora è importante schierarsi, almeno idealmente, con quelli che stanno a sud dei muri.
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ROCCA 15 GENNAIO 2020
LAVORO E SOCIETÀ
i cupi colori della nuova schiavitù
di Ritanna Armeni

Ci sono cose che si sanno e si ritengono assodate. Che c’è la globalizzazione, per esempio, che questa ha sconvolto il mondo del lavoro, che ha creato insicurezza e precarietà, che ha cambiato anche – e a fondo – le nostre abitudini, il nostro modo di consumare e di vivere. Ripeto: si sa. Poi un giorno si va al cinema a vedere un film di un regista che si ama molto, Ken Loach. Il film s’intitola «Sorry, we missed you», «Spiacenti, non vi abbiamo trovato» (la frase del cartoncino lasciato dal corriere se il cliente è assente), e si capisce che quel che avevamo pensato e anche intravisto attorno a noi, quel che ci dicevano le statistiche, che qualche volta leggevamo nei libri e, raramente, anche sui giornali, ci aveva dato un’immagine edulcorata e solo sbiadita di quel che è oggi il mondo del lavoro. Che non è solo brutto, incerto, dominato dallo sfruttamento. Questo, appunto, lo sapevamo già. Quel che Ken Loach ci dice con lucidità e persino spietatezza e che è diventato il luogo di una nuova schiavitù e della disperazione. E fra sfruttamento e schiavitù, fra sconforto e disperazione c’è una bella differenza.
Ma cominciamo dall’inizio. Una famiglia, un uomo, una donna, due figli. Lui fa un nuovo lavoro, il corriere, appunto, di una delle tante ditte che consegnano a domicilio. Potrebbe essere Amazon, per capirci.
Potrebbe essere quell’uomo che almeno una volta la settimana ci consegna il pacco che abbiamo ordinato via Internet, o il giovane che ci porta la pizza ancora calda per cena. Quattordici ore di lavoro, sei giorni su sette, uno scanner che controlla ogni tuo passo, una bottiglia per pisciare dentro il camioncino perché non si possono perdere minuti preziosi per cercare un bagno. Niente assicurazioni e garanzie, tanti rischi, nessun diritto, di corsa per riuscire a vivere, o piuttosto per riuscire ad arrivare la sera a un letto che ti consente di riprendere forze per il giorno dopo e ricominciare. Non ci sono padroni, o almeno non si vedono, nel film di Loach, c’è solo un piccolo prepotente capetto, che somiglia a un ingranaggio, non ci sono sindacati, non c’è protezione di alcun tipo. C’è un «sistema», nella sua assurda astrazione, rappresentato da una macchinetta che dà ordini, controlla i minuti, monitora clienti e movimenti, conosce ogni spostamento e non dà tregua. Un oggetto piccolo e nero che si tiene in mano e che collega «il mercato» grande, invisibile, ma incombente al lavoro, o meglio all’uomo che lavora. E un’illusione che porta il protagonista Ricki direttamente all’inferno: quella di essere padrone del proprio destino, di non lavorare «per» un qualcuno ma «con» qualcuno. E per chi è padrone di se stesso non c’è bisogno di garanzie e diritti.
L’illusione diventa un incubo che Ricky vive ogni giorno nella corsa fino all’ultimo minuto, nella impossibilità di vivere gli affetti e la famiglia, nella disperazione che si estende agli altri, ai figli, alla moglie. Lavoratore? Sfruttato? Precario? No, piuttosto schiavo, legato dalla catena invisibile che è quella del consumo di tutti noi, dominato e diretto dall’alto attraverso le macchine e la tecnologia.
C’è poi la donna, Abby, moglie, madre e badante di tanti anziani non più autosufficienti. Una figura importante, ma che per incomprensibili motivi, nelle tante recensioni del film, trascurata. Eppure la vita di Abby ci mostra un altro spaccato di tragedia e di disperazione. I vecchi, malati, incontinenti, dementi che lei visita ogni giorno di corsa, con umanità amore e dedizione, sono gli scarti di una società che non produce più spontaneamente e naturalmente amore ma che lo delega a pagamento, a tempo parziale alle cure di una donna che, anch’essa sottopagata, dalle sette del mattino alle nove di sera gira per le case offrendo a pagamento quel che la famiglia, i figli, i coniugi, le madri e padri, non riescono più a dare. L’amore ai tempi della Gig economy dell’i commerce è solo limitato e a pagamento e se, di tanto in tanto fiorisce, come nel caso di Abby che ama i suoi pazienti (clienti), è un bocciolo unico e sofferente in una spianata di duro e grigio cemento. Affetto che si dà, certo, ma che si toglie. Ai figli, che hanno una madre e un padre sempre assenti, a se stessi, alla propria vita.
Il lavoro si tinge di tinte fosche nel film di Ken Loach. Ma sono le «sue» tinte, quelle nascoste, quelle appena intraviste nelle statistiche sulla disoccupazione e sulla precarietà o occultate dagli asettici dati sull’economia. Sono i colori cupi della nuova schiavitù e della disperazione. Sono i colori dell’assenza. Perché nel lavoro moderno, in cui il patto con il capitale si è infranto e la frana ha portato via sicurezze e diritti, sono le assenze che diventano gigantesche e incombenti. L’assenza di una solidarietà che aiuti i deboli, di un sindacato che sappia organizzare chi lavora, di una sinistra che offra prospettive migliori e diverse. Tutto questo non c’è più attorno a noi e non c’è nel film del regista inglese. Non c’è neppure nello sfondo, non è oggetto di nostalgia, di rimpianto e di rabbia. Semplicemente è finito. Fa parte di un mondo passato di cui i giovani non hanno neppure la memoria. Non lo vediamo e non lo troviamo più. E con esso è finita la dignità, la gerarchia dei valori, la capacità di amare. Rimane la sopravvivenza e la domanda amara che non ci si può non porre alla fine del film: « Come abbiamo fatto ad arrivare a tutto questo?».
Ritanna Armeni
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- L’illustrazione in testa è tratta da Rocca n.2 del gennaio 2020.