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Come cambia (in peggio) il welfare in Italia e negli altri paesi europei. Il Nobel dell’Economia a Abhijit Banerjee, Esther Duflo e Michael Kremer è un riconoscimento al loro approccio di lotta alla povertà.
Le politiche sociali che ci dividono
di Remo Siza
Il welfare in Italia, così come in tante altre nazioni europee, sta diventando sempre meno un ambito d’intervento inclusivo, che crea legami e coesione sociale; è utilizzato frequentemente per distinguere, escludere, sanzionare comportamenti irregolari e per affermare una visione del mondo che legittima esclusioni sociali più o meno estese. In molti suoi ambiti – in particolare, i servizi alla persona, le misure di contrasto di povertà, le politiche abitative – le prestazioni di welfare sono utilizzate troppo frequentemente per dividere e separare le persone meritevoli di aiuto dalle persone che non si comportano in modo responsabile, per escludere gruppi minoritari e sostenere generosamente gruppi sociali più rappresentativi.
Il “welfare chauvinism” e il “welfare condizionale” sono le due configurazioni prevalenti di questo sistema di interventi sociali sempre meno inclusivo. In molte nazioni prevale la prima configurazione, un welfare che limita l’accesso ai sussidi o riduce il livello di benefici per gli immigrati, introduce più selezioni e misure restrittive per le minoranze etniche e i gruppi ritenuti tradizionalmente non meritevoli, le persone i cui valori e comportamenti sono considerati la causa primaria della loro condizione, che riduce la concorrenza con le minoranze etniche nell’accesso ai programmi abitativi, ai servizi sociali, ai servizi sanitari. I tagli alla spesa pubblica devono essere limitati esclusivamente ai benefici e agli interventi destinati a questi gruppi minoritari.
In altre nazioni, prevale un “welfare condizionale”: la condizionalità è fondata sul principio che non esistono diritti acquisiti una volta per tutte dalle persone. Il diritto delle persone a ricevere un beneficio di welfare dipende dal loro comportamento. Il welfare diventa, in questo modo, uno strumento per favorire l’acquisizione di un comportamento disciplinato, di una normalità e una regolarità nella fruizione dei benefici, non solo per contrastare dipendenze patologiche, abusi, comportamenti violenti, ma anche per sconfiggere ogni passività del beneficiario. I beneficiari sono sottoposti a obbligazioni e piccole regole (convocazioni, appuntamenti, colloqui, procedure ammnistrative non accessibili a tutti) che mettono alla prova il loro senso di responsabilità e il rispetto delle regole.
Il welfare scivola così verso un sistema di interventi che mobilita tutte le forme di controllo di cui dispone, in una sorta di tolleranza zero della povertà non disciplinata, fino a cedere ad una “tentazione penale”, ad una criminalizzazione, cioè, di comportamenti semplicemente irregolari, di una diversità che diventa reato. In questo senso, queste configurazioni e pratiche di welfare si pongono in continuità con i programmi di tolleranza zero che dagli anni Ottanta si sviluppano nei quartieri più degradati di molte nazioni del mondo, che stabiliscono una correlazione tra comportamenti irregolari e piccoli reati (il primo passo) per lo più compiuti da minoranze etniche, e crimini violenti (l’inevitabile esito). In questa prospettiva, sanzionare anche penalmente i comportamenti antisociali dei giovani diventa la migliore prevenzione della criminalità degli adulti.
In Italia, i recenti decreti sicurezza, il cosiddetto decreto Minniti (il decreto legge n, 14, 20 febbraio 2017) e altri provvedimenti di sicurezza urbana destinati alla “marginalità non decorosa” dei poveri, degli “accattoni” che affollano le vie dei centri urbani riprendono questo approccio culturale e in nome della vivibilità e del decoro urbano prevedono interventi di allontanamento, sanzioni severe per i comportamenti antisociali. La sicurezza urbana si costruisce attraverso il divieto di accesso a determinate aree urbane delle persone che hanno compiuto specifici reati, attraverso le più svariate sanzioni non solo a carattere amministrativo. Il welfare, nato su ben altri presupposti, troppo spesso accompagna e integra questo impianto culturale e solo in alcune rilevanti situazioni locali riesce a contrastare le logiche securitarie con adeguati interventi sociali e di rigenerazione urbana, proponendo relazioni di cura.
Il decreto di istituzione del reddito di cittadinanza si muove in questa logica: da una parte destina, positivamente, notevoli risorse per finanziare una misura di sostegno al reddito, dall’altra contiene numerose disposizioni che introducono una condizionalità elevata e una discriminazione severa delle minoranze etniche nel sistema italiano di welfare. Le modifiche apportate dalla legge n. 26 del 2019 al decreto istitutivo del reddito di cittadinanza (decreto n. 4/2019) sono un segnale rilevante di questo approccio. La circolare dell’INPS (nr. 100, del 5 luglio), definisce in dettaglio il regime specifico che la legge adotta per i cittadini extra UE. Per i cittadini extra UE, oltre il vincolo dei dieci anni di residenza in Italia, vige l’obbligo di presentare una certificazione dell’autorità estera competente ai fini dell’attestazione dei requisiti relativi in particolare al patrimonio immobiliare posseduto in uno stato estero. L’attestazione deve essere tradotta in lingua italiana e legalizzata dall’autorità consolare italiana. Questa procedura complessa e queste disposizioni non si applicano, in particolare, “nei confronti di cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea nei quali è oggettivamente impossibile acquisire le certificazioni”. Al riguardo, il comma 1-ter demanda ad un decreto attuativo del Ministro del Lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro degli Affari esteri e della cooperazione internazionale, l’individuazione dei Paesi i cui cittadini sono esonerati dall’obbligo di cui al comma 1-bis, per oggettiva impossibilità di produrre tale documentazione. In attesa dell’emanazione del decreto attuativo l’INPS ha sospeso l’istruttoria di tutte le domande presentate a decorrere dal mese di aprile 2019 da parte di richiedenti non comunitari.
A dire il vero, alla data di emanazione della circolare dell’INPS (luglio) i tre mesi previsti dalla legge per la predisposizione del decreto istitutivo del reddito di cittadinanza (art. 2, comma 1-ter) sono già trascorsi sebbene l’individuazione di un primo gruppo di paesi nei quali è oggettivamente impossibile acquisire le certificazioni non sembra molto complesso. Adottando requisiti che difficilmente alcuni gruppi sociali potranno ottenere, procedure complesse, atti discriminatori, queste iniziative introducono e legittimano in Italia, non più solo a livello locale, un nuovo sistema di welfare che riduce sistematicamente l’accesso ai benefici delle minoranze etniche e altri gruppi sociali vulnerabili e intende rinforzare, allo stesso tempo, la protezione sociale per i cittadini italiani ritenuti meritevoli.
Il “welfare chauvinism” e il “welfare condizionale” sono sistemi di welfare sostenuti da partiti politici che hanno un peso elettorale rilevante in nazioni come l’Italia, la Francia, il Regno Unito, la Germania, l’Olanda, e che in nazioni come la Danimarca, la Finlandia e la Svezia si dimostrano comunque capaci di influenzare significative decisioni pubbliche in materia di welfare. In nazioni come la Polonia e l’Ungheria questi partiti hanno un ruolo maggioritario. In molti casi, queste configurazioni di welfare non si limitano a discriminare le minoranze etniche, ma prevedono generosi interventi a favore delle “vittime delle riforme e delle politiche di riduzione della spesa” (truffati dalle assicurazioni sanitarie, dall’industria farmaceutica, dalle banche) attuate dalla élite economiche e politiche che hanno governato per anni ai danni del popolo, cercano di rafforzare la protezione sociale dei “perdenti della globalizzazione”, aumentando i benefici, mettendo meno enfasi sulla responsabilità individuale dei cittadini meritevoli.
Il welfare diventa una sfera di vita in cui molti governi e molti partiti politici cercano di ricostruire le distinzioni della maggioranza delle persone rispetto ad altri gruppi sociali più deprivati, stabilendo e legittimando le differenze e le separazioni. Il welfare ha avuto un ruolo importante nel promuovere integrazione sociale senza discriminazioni e distinzioni, nel contrastare l’esclusione sociale. Anzi, una volta operatori, associazioni, enti locali affermavano la necessità di “partire dagli ultimi”, partire dalle loro esigenze e dalla loro capacità di accesso ai servizi. Il rischio è che progressivamente l’accesso ai servizi pubblici non sia più un diritto, ma dipenda dal gruppo etnico, dalla moralità, dal rispetto delle regole e dal senso di responsabilità del beneficiario sia esso una persona senza dimora o un immigrato. Per molte istituzioni esistono solo cause individuali del degrado e delle povertà estreme, solo comportamenti individuali irregolari che bisogna risolvere e affrontare con decisione e rapidamente con interventi securitari, sanzioni e controlli prima che incidano drammaticamente sulla vivibilità dei centri urbani.
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Recent Publications:
Remo Siza (2019), The sociologist: a profession without a community, International Review of Sociology, 3(29).
Remo Siza (2019), Declines and Divisions: the missing welfare needs of the majority, Journal of International and Comparative Social Policy, 2(35), pp. 211-226.
Remo Siza (2018) Manuale di progettazione sociale, FrancoAngeli, Milano, pp.180.
Remo Siza (2018) Narrowing the gap: the middle classes and the modernization of welfare in Italy, International Journal of Sociology and Social Policy, issue 1-2(38), pp. 116-129.
Remo Siza (2017), Welfare for the middle classes: the case for reinforcement, in R. Siza e C. Deeming (eds) Il Declino della classe media: i limiti delle politiche sociali, Sociologia e politiche sociali, n. 2(20), pp. 25-43.
Remo Siza (2019) Anche in Italia si consolida il welfare chauvinism. Su Welforum.
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Vaccini, lenticchie e il Nobel per l’economia
Giacomo Battiston su Sbilanciamoci
15 Ottobre 2019 | Sezione: Economia e finanza, primo piano
Il Nobel dell’Economia a Abhijit Banerjee, Esther Duflo e Michael Kremer è un riconoscimento al loro approccio di lotta alla povertà: soluzioni simili a test farmaceutici. Così si sposta l’attenzione dalle domande più grandi a obiettivi mirati e raggiungibili.
In un TED talk del 2010, Esther Duflo racconta di un suo studio sui vaccini in Rajasthan, India, condotto insieme a Abhijit Banerjee. Nel distretto di Udaipur, il tasso di vaccinazione infantile era inferiore al 10%. Gli autori ipotizzarono che gli abitanti non comprendessero l’importanza di vaccinarsi e che ostacoli come la distanza dalle cliniche, o l’incertezza sulla presenza di personale li portassero a procrastinare. In un esperimento su 134 villaggi, 30 furono selezionati casualmente per ottenere delle campagne di vaccinazione in cliniche mobili, in cui la presenza di personale era monitorata con un sistema poco costoso, una fotografia che una volta stampata mostrava l’orario in cui era stata scattata. In altri 30 villaggi alle campagne di vaccinazione fu affiancata la distribuzione di un chilo di lenticchie per ogni vaccino. L’intervento fu sorprendentemente efficace. Il tasso di vaccinazione nei villaggi dove erano state organizzate le campagne era del 17%, quasi il triplo del 6% nei villaggi non coinvolti nelle campagne. E il solo incentivo delle lenticchie portava il tasso di vaccinazione al 38%. Una misura creativa ed economica aveva permesso di ridurre un problema sanitario di primaria importanza, un metodo rigoroso aveva permesso di comprenderlo.
Il Nobel dell’Economia a Abhijit Banerjee, Esther Duflo e Michael Kremer costituisce un riconoscimento alle loro idee su come affinare gli strumenti nella lotta la povertà. Il loro metodo, simile a quello utilizzato per testare un farmaco, consiste nell’estrarre a caso, all’interno di una popolazione di interesse, un gruppo di “trattamento”, a cui viene assegnata una misura contro la povertà (reti antimalariche, informazioni sui benefici dell’istruzione ecc.), e un gruppo di “controllo”, che non viene trattato. La randomizzazione assicura che l’unica differenza sistematica tra i due gruppi sia dovuta al momento del “trattamento”. Così, guardando agli esiti comportamentali, diversi tra i due gruppi (quanto usano le reti antimalariche, quanto vanno a scuola?), se ne può valutare l’efficacia.
Così facendo, Banerjee, Duflo, Kremer, insieme a tanti altri, hanno ridotto un problema complesso come la lotta alla povertà ad una serie di problemi più semplici da comprendere: come aumentare la prevenzione antimalarica? Come convincere una famiglia a mandare i figli a scuola?
Il loro metodo ha dato credibilità alle soluzioni proposte, basandole su evidenza scientifica. Ha anche ridotto, in parte, il ruolo delle differenze ideologiche nel dibattito, spostando l’attenzione dalle domande più grandi alle domande più piccole e a obiettivi chiari da raggiungere.
La loro ricerca, svolta soprattutto in India e in Africa, ha coinvolto temi come l’istruzione e la salute. Per esempio i loro studi hanno identificato soluzioni pratiche per ridurre l’assenteismo del personale scolastico nei Paesi in via di sviluppo e sottolineato l’efficacia di interventi volti a migliorare l’apprendimento degli studenti più svantaggiati.
In ambito sanitario, Kremer ha dimostrato gli enormi benefici di cure poco dispendiose al problema dei vermi intestinali, studiandone anche gli impatti sulla riduzione del contagio. Banerjee e Duflo hanno anche proposto delle riflessioni più generali sui processi decisionali di chi vive in povertà. Nel loro libro “L’Economia dei Poveri” (edito da Feltrinelli in Italia), concludono che chi vive in povertà spesso non ha facilmente accesso a informazioni utili, ma si trova a fronteggiare un carico di responsabilità sulle proprie vite più elevato dei più ricchi. Le politiche contro la povertà dovrebbero tenere in considerazione questi fattori e spingere ad agire nel modo più benefico con “pungoli” e opzioni di default. I suggerimenti includono abbassare il prezzo del sale arricchito di ferro e iodio, installare dei distributori di cloro vicino alle fonti d’acqua nei villaggi dove non ci sono condutture idriche per spingere chi se ne approvvigiona a depurarla, e così via.
Questo premio Nobel è anche simbolico per le personalità di coloro che lo hanno ricevuto e ha il potenziale di ispirare una nuova generazione di scienziati sociali. Porta con sé la speranza di un’accademia giovane, inclusiva e attenta ai Paesi in via di sviluppo.
Duflo, Kremer e Banerjee hanno 46, 54, e 58 anni e Esther Duflo è la seconda donna a ricevere il premio Nobel dopo Elinor Ostrom. I vincitori di questo premio sono impegnati sul campo e coinvolgono nella loro ricerca governi, istituzioni locali e ONG. A questo scopo, Banerjee e Duflo nel 2003 hanno fondato J-PAL, all’MIT di Boston, ad oggi il centro di ricerca accademico più prestigioso nell’economia dello sviluppo. Metodo, soluzioni e impegno sono al centro di una grande conquista per i tre autori e per questo ambito di ricerca.