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Terremoto: obiettivo «vulnerabilità zero»
Pubblichiamo un articolo di Pietro Greco per la rivista Rocca, n. 18 del 15 settembre, da sabato scorso on line. Ringraziamo per la concessione l’Autore e la Direzione del quindicinale della Pro Civitate Christiana.
La cultura del rischio
di Pietro Greco, su Rocca
No, non è il terremoto che ha ucciso. È stato qualcosa di più astratto, in apparenza: la mancanza di una solida cultura del rischio sismico.
Il 24 agosto scorso un nuovo terremoto, di magnitudo 6,0, nell’Appennino centro-meridionale ha ucciso all’incirca 300 persone e lasciato senza casa costringendole a dormire in tenda poco più di 2.500 persone. Un terremoto di analoga potenza (magnitudo 6,3) a L’Aquila, il 6 aprile 2009, ha causato un numero leggermente superiore di morti (309) e oltre 70.000 sfollati. La storia sismica del nostro paese è costellata di sismi di moderata intensità – perché tale è un terremoto di magnitudo 6,0 – che causano grandi danni. Dove l’aggettivo è di tipo comparativo. Grandi rispetto ai danni che terremoti di analoga e persino di superiore potenza causano in altri paesi.
comparazioni che parlano da sole
Lo scorso 15 aprile, per esempio, una scossa di magnitudo 7,0 – trenta volte più potente di quella del 24 agosto nell’Appennino centro-meridionale – ha investito l’isola di Kyushu, in Giappone, causando 196.000 sfollati, ma solo 49 vittime. L’isola è densamente abitata: più dell’Italia appenninica. La prefettura più colpita, per esempio, è stata quella di Kumamoto: che da sola conta poco meno di 2 milioni di abitanti. Ecco perché gli sfollati sono stati così tanti. Ebbene, le statistiche ci dicono che il rapporto tra persone uccise e persone esposte che hanno avuto danni alle case tanto da non poterle abitare è stato di 120 su 1.000 per il terremoto nell’Appennino centro-meridionale del 25 agosto; di 4 su 1.000 per il terremoto dell’Aquila e di 0,25 su 1.000 a Kyushu in Giappone.
D’altra parte, tra il primo gennaio e il 24 agosto incluso nel mondo sono stati registrati 67 terremoti di magnitudo 6,0 o superiore. Ma solo uno, in Ecuador, il 17 aprile, ha provocato un numero di morti superiore (673, per la precisione). Ma in Ecuador il sisma è stato di magnitudo 7,8: ha cioè sprigionato una potenza centinaia di volte superiore a quella rilasciata dal sisma del 24 agosto al confine tra Lazio, Umbria e Marche.
Ma, d’altra parte, per fare delle comparazioni non è necessario andare all’estero. Norcia dista dall’epicentro dell’ultimo sisma quanto Amatrice. E i geofisici dicono che il suolo a Norcia ha subìto un’accelerazione analoga a quella subita ad Amatrice. Ma a Norcia i danni alle cose sono stati pochi e nessuno è morto, mentre ad Amatrice il paese è crollato praticamente per intero e i morti sono stati oltre duecento.
È evidente, dunque, che non è il terremoto a causare danni. La causa principale dei danni enormi subiti da Amatrice e di quelli analoghi che puntualmente registriamo in Italia ogni quattro o cinque anni è la persi- stente mancanza di cultura del rischio. Quella carenza che impedisce di fare ovunque
nel nostro paese ciò che è stato fatto a Norcia. Una carenza che coinvolge certo la classe politica, che dall’unità d’Italia a oggi non è stata in grado di elaborare una solida strategia di prevenzione del rischio sismico. Ma coinvolge anche noi cittadini comuni, non solo perché siamo noi a scegliere la classe politica, ma anche perché col rischio tentiamo ad avere un rapporto di tipo magico e/o fatalistico.
Il terremoto ha, invece, chiare e ben conosciute cause fisiche. E i danni da scossa sismica possono (debbono) essere evitati, fin quasi ad azzerarli.
la questione centrale
Non stiamo parlando di una questione marginale nel governo del rischio sismico. Ma della questione centrale. Perché è vero che nulla possiamo fare per impedire un terremoto o anche solo per prevedere con certezza deterministica quando si verificherà. Ma sappiamo, ormai, con solida certezza dove un terremoto avverrà. Da tempo, per esempio, i geofisici ci dicono che l’Appennino centro-meridionale, come l’Arco calabro, la Sicilia e il Friuli Venezia Giulia sono zone ad altro rischio sismico. Perché è proprio qui che la grande placca africana si scontra con la grande placca euroasiatica. Questa enorme tensione dura da alcuni milioni di anni e durerà ancora per milioni di anni. Per fortuna non c’è subsidenza e, dunque, i sismi non raggiungono la forza devastante dell’arco del Pacifico, dove non sono infrequenti terremoti anche trentamila volte più potenti di quello registrato in Italia il 24 agosto. Da noi nel futuro prossimo e persino remoto continueranno ad avvenire con una certa frequenza terremoti di magnitudo intorno a 6 o anche a 7 e forse un po’ di più.
Ma l’intensità di una scossa – fosse anche di magnitudo 9 – non basta a causare danni e lutti. Perché si abbiano degli effetti indesiderabili occorre la concomitanza di altri due fattori: l’esposizione (il numero di persone che sente la forte scossa) e, soprattutto, la vulnerabilità, ovvero la capacità degli edifi- ci abitati da queste persone di sopportare l’accelerazione del terreno. Nel Sahara non avvengono terremoti, ma se anche avvenissero e fossero fortissimi, anche di magnitudo 9, non causerebbero molti danni, perché in quel deserto ci sono poche persone e tutte abitano in tende, che non hanno problemi con l’accelerazione del terreno. Diversa la situazione in Giappone o in California: lì l’intensità dei sismi può essere altissima e comunque l’esposizione è elevata. Ma, grazie alla bassa vulnerabilità degli edifici, i danni in genere sono minori che in Italia. Ma, perché in Italia la vulnerabilità è alta? I motivi sono due, in apparenza. Ma in realtà è uno solo. Il primo motivo è che una gran parte della popolazione italiana abita in edifici storici e fragili. Edifici antichi cui non rinunciamo facilmente (e giustamente) perché costituiscono la nostra identità. Il secondo motivo è che non c’è mai stato nel nostro paese un piano nazionale teso a mettere in sicurezza i nostri edifici, storici o moderni che siano. Prova ne sia che non abbiamo neppure un «fascicolo di fabbricato», una carta di identità che dice quando e come l’edificio è stato costruito e quando e come ha subìto modificazioni.
Questi due motivi sono espressioni diverse di un’unica causa: la mancanza, appunto, di una solida cultura del rischio sismico e del suo fratello gemello, il rischio idro-geologico. Una cultura che, da sola, potrebbe ridurre pressoché a zero la vulnerabilità e, quindi, gli effetti dei terremoti. Detto in altri termini, abbiamo tutte le conoscenze e le tecnologie per mettere in sicurezza pressoché assoluta il nostro patrimonio edilizio. Tutto. Dai monumenti più antichi alle scuole più moderne, passando per case vecchie e nuove, ospedali, caserme, strade, ponti e quant’altro. Norcia è l’esempio tangibile che quello che stiamo proponendo non è un quadro astratto, ma uno scenario molto realistico e concreto.
andare oltre la visione magica
È possibile rendere tutta l’Italia sicura come Norcia.
E non è una questione di tecnologia. Ma solo di percezione del rischio.
Certo, occorrono molti soldi. Le cifre esatte non le conosce nessuno. Nei giorni scorsi si è parlato di 50, 100, persino 300 miliardi di euro. Ma, per una valutazione seria, aspettiamo la conclusione di studi affidabili. Certo, occorre tempo. Non a caso uno che se ne intende, Renzo Piano, ha parlato di almeno due generazioni. Ma lo faremo – cominceremo a rendere tutta l’Italia sicura come e più di Norcia – solo quando cesseremo di avere una visione magica del terremoto e acquisiremo una solida cultura del rischio sismico.
Quando con sguardo lungo e con un impiego tutto sommato modesto di risorse (1,3 o magari 6 miliardi l’anno per cinquanta anni) potremo mettere in sicurezza l’Italia intera. Tuttavia non basta che i politici italiani as- sumano, finalmente, uno sguardo di lungo periodo e decidano di investire in progetti la cui realizzazione va ben oltre il ciclo elettorale. Occorre che siano i cittadini tutti – che siamo anche noi, autori e lettori di Rocca – a introiettare in profondità la cultura del rischio sismico. Intanto perché i politici, in una democrazia, cambiano comportamento se c’è una forte e determinata domanda dal basso. E poi perché per azzerare la vulnerabilità sismica del nostro intero patrimonio edilizio occorre anche e soprattutto l’azione di ciascuno di noi. Siamo noi a dover rendere sicure le nostre case, oltre che a chiedere alle istituzioni di rendere sicuri ospedali, scuole, ponti e monumenti.
obiettivo «vulnerabilità zero» a partire dalle scuole
Certo, non basta la nostra buona volontà. Occorre che il sistema nazionale sia proiettato verso l’obiettivo «vulnerabilità zero»: che le banche forniscano i mutui, che lo stato elabori un piano nazionale, riduca il peso fiscale per l’adeguamento sismico, che realizzi un sistema di controllo efficiente e tempestivo. Ma anche per fare tutto questo occorre una vasta e determinata domanda sociale. Occorre, appunto, una cultura del rischio diffusa.
E allora, anche a costo di sembrare minimalisti, ecco da dove cominciare: dalle scuole. Non solo mettendole tutte prioritariamente in sicurezza. Ma anche iniziando una campagna intensa, sistematica e corretta di educazione alla cultura del rischio. Che renda gli adulti di domani non solo capaci di minimizzare il rischio durante l’emergenza acuta (come avviene in Giappone), ma anche di costruire (e di pretendere che sia costruito) un futuro sicuro per sé e per i loro figli (che sono poi i nostri nipoti).
Spesso si è detto che la prevenzione costa e che in Italia non la facciamo per mancanza di soldi. Ma la costruzione di una solida cultura del rischio non dipende solo dalla disponibilità di risorse. Una campagna intensa, sistematica e corretta di educazione a scuola è a costo zero. Perché in Italia non la si è fatta, almeno negli ultimi quarant’anni? In Irpinia, nel 1980, il sisma fece più di 2.900 morti. Ma fu un terremoto di moderata intensità: magnitudo 6,5. Avessimo avuto una cultura del rischio solida e, di conseguenza, fossero state applicate tutte le tecnologie migliori già allora si sarebbero salvati tutti. Perché, anche dopo l’Irpinia, abbiamo rinunciato a salvare migliaia di vite umane e a conservare meravigliosi borghi e floride città?
Pietro Greco
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Carissimo Omran.
Lettera a Omran Daqneesh, bambino siriano di cinque anni.