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EconomiaCheFare? Per uscire dalla crisi occorre rifondare l’Economia.

pensatoreCrisi dell’economia italiana e prospettive di una sua ripresa

di Gianfranco Sabattini

E’ vero, Pierluigi Ciocca è uno dei pochi economisti italiani a poter dire, senza correre il rischio d’essere smentito, di avere intuito in tempi non sospetti la “gravità” di quanto stava accadendo al sistema economico italiano, cercando di “comprenderne cause prossime e lontane”, per lanciare l’allarme onde evitare che si creassero le condizioni che avrebbero condotto l’economia del Paese nel tunnel della crisi del 2007/2008.
Si tratta di una crisi, quella dell’economia dell’Italia che, a parere di Ciocca, si è trasformata in un “fenomeno molto complesso, radicato nel profondo del corpo sociale ben oltre le determinanti strettamente economiche”, che ha richiesto un tempo non breve per emergere e mostrare gli aspetti delle diverse fasi in cui si è articolata. Del processo giunto al “capolinea” nel 2007/2008, Ciocca, già vice direttore della Banca d’Italia, in “Tornare alla crescita. Perché l’economia italiana è in crisi e cosa fare per rifondarla”, offre una “testimonianza” con una raccolta di scritti variamente datati, dando il senso della gradualità con cui il Paese ha preso coscienza delle difficoltà che caratterizzano oggi la sua economia.
Attualmente – afferma Ciocca – “l’Italia non produce più di quanto produceva quindici anni fa; la disoccupazione, non solo quella dei cosiddetti giovani, è alta, il lavoro mal pagato, precario; la povertà si estende; l’evasione fiscale impazza; il debito pubblico spaventa i mercati; la questione meridionale si è incrudita; la produttività delle imprese ristagna. La cultura, le istituzioni, la politica, la società civile stentano a scuotersi”. Tutto ciò accade nonostante che la storia economica insegni che quella italiana è un’economia afflitta da “strutturali elementi di fragilità”, dovuti essenzialmente al fatto che essa (l’economia) insiste su un suolo accidentato e instabile, sotto il quale scarseggiano le risorse strategiche e sopra il quale si è formata una base produttiva strutturalmente debole.
La storia economica, perciò, dovrebbe insegnare alla società civile, e soprattutto all’establishment dominante, che il benessere materiale acquisito è molto instabile, in quanto dipende “sia dall’intensità dell’impegno dei produttori – imprese e lavoratori – sia dal contesto in cui essi sono inseriti”.
L’Italia – sostiene Ciocca – ha visto formarsi e crescere il proprio sistema produttivo in due momenti particolarmente felici delle sua storia unitaria: nel periodo 1900-1913, con l’età giolittiana, e in quello 1950-1969, con il cosiddetto miracolo economico del secondo dopoguerra. In entrambi i periodi indicati, il Paese ha potuto avvalersi di una finanza pubblica equilibrata, di notevoli investimenti in infrastrutture materiali ed immateriali, di un quadro giuridico appropriato, reso conforme alla dinamica dell’economia, e della risposta positiva delle imprese alle sfide della concorrenza. Le congiunture prevalentemente economiche, proprie dei due periodi, sono state sorrette dai progressi culturali, istituzionali e politici, che sono valsi a compensare gli svantaggi strutturali che caratterizzavano la crescita economica del Paese.
L’opposto di quanto è accaduto nell’età giolittiana e con il miracolo economico del dopoguerra si è verificato in altre fasi della storia politico-economica dell’Italia, quali quelle del periodo autoritario dell’età Crispina (1887-1896), di quello, ugualmente autoritario, dell’era fascista (1922-1943) e di quello compreso tra il 1990 e in nostri giorni. Per il superamento dell’empasse attuale, l’ammonimento che può essere tratto dall’esperienza positiva vissuta dal Paese nei periodi in cui la propria economia è cresciuta e si è consolidata, suggerisce che venga rilanciata la determinazione dei produttori (imprese e lavoratori) e rinnovato il contesto culturale, istituzionale e politico a supporto del rilancio della crescita.
Secondo Ciocca, cercare il momento a partire dal quale ha avuto inizio l’involuzione dell’economia nazionale dai suoi fondamentali, consolidatisi nel secondo dopoguerra, non ha molto senso; tuttavia, il punto di cesura può essere identificato nella crisi della lira sul mercato dei cambi, occorsa nel 1992, l’anno a partire dal quale la moneta nazionale ha perso la capacità di tenuta riguardo al suo ruolo nel governo stabile dell’economia.
Tra la fine degli anni ottanta e il 1992, la tenuta della lira era stata assicurata dalla Banca d’Italia con la pratica di alti tassi di interesse; ciò portava ad escludere che la competitività dell’economia nazionale fosse ottenuta attraverso lo svilimento del cambio, ovvero attraverso la svalutazione della lira. In tal modo, le imprese – afferma Ciocca – sono state costrette a conservarsi competitive, percorrendo “la strada maestra della produttività e del contenimento dei costi, salariali in primo luogo”. L’efficacia delle misure adottate dalla Banca d’Italia è venuta meno nell’estate del 1992, allorché l’azione della magistratura contro gli “scandali finanziari” e la conseguente crisi dei partiti hanno determinato il cedimento della valuta nazionale, costringendo il governo ad adottare le misure correttive degli squilibri di bilancio che i mercati finanziari sollecitavano.
Nel settembre del 1992, infatti, per contrastare gli esiti della crisi valutaria, il governo ha svalutato il cambio di riferimento della lira, decidendo anche di uscire dal sistema monetario europeo, ossia dall’accordo europeo sui cambi fissi. Il rientro nell’accordo, nel 1996, avvenuto ad un cambio sottovalutato, è valso a radicare negli imprenditori l’idea che si potesse reggere la concorrenza conservando un cambio flessibile; un modo più agevole, questo, di quello “lastricato di rischi”, impliciti ad un’accumulazione di capitale, realizzata mediante investimenti in ricerca e sviluppo (R&S) per l’acquisizione di una maggiore efficienza.
Tali condizioni di operatività del sistema produttivo nazionale hanno determinato l’emersione di una moderazione salariale antinflazionistica e di un aumento della spesa pubblica che, congiuntamente ad una crescita dell’inflazione e all’ottenimento di crescenti concessioni statali favorevoli ai privati, hanno consolidato presso gli imprenditori l’aspettativa di un “profitto facile”; una situazione, questa, che ha dato luogo al “fenomeno strano” che ha caratterizzato il funzionamento del sistema economico nazionale, il quale, pur registrando un basso tasso di crescita, ha consentito da parte delle imprese la realizzazione di alti tassi di profitto.
Ci si è illusi di poter uscire da tale situazione con l’adesione dell’Italia alla moneta unica europea; questa, secondo le aspettative di molti, faceva sperare che la stabilità monetaria, i bassi tassi d’interesse e la fissità irrevocabile dei cambi avrebbero sollecitato i produttori ad investire molto di più in “R&S”, per migliorare la produttività delle imprese e i livelli salariali della forza lavoro occupata; ma le aspettative non si sono realizzate. Il nuovo secolo, infatti, ha fatto registrare una crescita mediocre, punteggiata da “due micidiali recessioni nel 2008-2009 e nel 2012-2013” e da una ripresa, “tanto lenta quanto incerta”, dal 2014-2018. Tutto ciò, secondo Ciocca, a causa del fatto che le “risposte della politica al problema economico italiano come problema di crescita sono state insufficienti”.
Le scelte politiche, dall’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, si sono configurate, a parere di Ciocca, non riconducibili a un “modello strutturale di crescita” dell’economia italiana che avesse fatto dipendere “la variazione del progresso tecnico dalle quattro variabili considerate ‘esogene’: finanza pubblica, infrastrutture, concorrenza, dinamismo d’impresa”. Queste variabili costituiscono delle forze che, per quanto esogene, sono però anch’esse di natura economica, legate, a propria volta, a determinanti meta-economiche (culturali, istituzionali, politiche), facenti parte anch’esse del corpo sociale e, in quanto tali, rilevanti per il rilancio della crescita.
Tuttavia, anche una politica economica di vasto respiro, imperniata sull’uso delle risorse in “R&S” per il miglioramento dell’efficienza produttiva del sistema economico, potrebbe non bastare a rilanciare la crescita, se il mondo dei produttori, “di fronte alla natura e allo spessore della stasi produttiva in cui l’economia italiana versa”, non operasse – afferma Ciocca – “uno scatto di volontà”, attraverso il quale “tornare a ricercare il profitto non per facili vie [...], ma per la strada maestra dell’efficienza, dell’investimento, dell’innovazione, del progresso tecnico”; tenendo conto che il percorso della strada maestra può essere reso agevole e continuo dal ruolo che possono svolgere, direttamente o attraverso i loro effetti sull’efficienza, sull’investimento e sull’innovazione, le variabili meta-economiche espresse dalla cultura, dalle istituzioni e dalla politica.
Ciò è suggerito dal fatto che la ricerca della corrente istituzionalista della teoria economica ha evidenziato che, ovunque il capitalismo è propulsivo, risulta positiva l’influenza sulla variabili strettamente economiche di quelle meta-economiche, alle quali va riconosciuto il ruolo determinante svolto durante il processo di crescita dell’economia italiana, sia nel periodo dell’era giolittiana che in quello del miracolo italiano del secondo dopoguerra.
Per il futuro, Ciocca è del parere che difficilmente l’economia italiana potrà tornare a crescere, se il contesto globale del Paese non sarà in grado di esprimere una cultura, un’organizzazione istituzionale e una politica capaci di trasmettere sulle variabili economiche endogene ed esogene quegli impulsi dinamici che hanno saputo precedentemente produrre, nella certezza che, se ciò non dovesse avvenire, il problema economico dell’Italia continuerà a rimanere “problema della crescita irrisolto”.
Viceversa, se il contesto meta-economico sarà reso appropriato, l’economia italiana potrà superare, in tempi non lunghi, l’empasse attuale, rilanciando la crescita che, a parere di Ciocca, potrebbe tornare stabilmente ad aumentare “a un ritmo non lontano dal 3% l’anno, il vero potenziale di sviluppo economico del Paese”. Data per scontata la creazione di un nuovo contesto meta-economico appropriato, quali sono le condizioni necessarie perché l’Italia possa tornare a crescere?
Ciocca ne indica sette, che egli giudica necessarie. Esse sono le seguenti: riequilibrio del bilancio, investimenti pubblici, nuovo diritto dell’economia, profitto di produttività, perequazione retributiva, una strategia per il Sud, una diversa politica europea. Chiedendosi se tali condizioni siano realizzabili, Ciocca sottolinea che l’indebitamento netto della Pubblica amministrazione, in cima alle preoccupazioni degli italiani, è in calo dal 2014; mentre è ancora più contenuto il disavanzo strutturale (esprimente il disavanzo della stessa Pubblica amministrazione, al netto degli effetti del ciclo, che permette di valutare se il deficit pubblico del Paese sia dovuto alla congiuntura economica o alla struttura della sua economia).
Diversa è la valutazione riguardo al debito consolidato dello Stato (attualmente superiore al 130% del PIL), il più alto d’Europa, dopo quello greco; esso deve necessariamente scendere, perché la conseguente diminuzione degli interessi consenta l’aumento dell’avanzo primario, creando lo spazio necessario per finanziare gli investimenti pubblici, da effettuarsi in funzione dell’aumento della produttività del tessuto produttivo; condizione, questa, che può essere facilmente soddisfatta con la diminuzione del debito pubblico ed una maggior discrezionalità nel determinare la composizione della spesa pubblica, tenuto conto che “la composizione del bilancio è di competenza di governi e parlamenti dei singoli Paesi, non delle autorità europee”.
Sul piano dell’ordinamento giuridico dell’economia, Ciocca sottolinea la necessità che siano accelerate e finalizzate alla crescita le procedure previste nei casi di crisi aziendali, evitando la dissipazione del capitale ed affidando le procedure concorsuali ad “autentici esperti”, la cui azione, in alternativa a quella della magistratura, sappia garantire una più conveniente riallocazione delle risorse delle imprese in difficoltà.
Con il miglioramento dei conti pubblici e i maggiori investimenti dello Stato orientati ad aumentare l’efficienza e la competitività delle imprese, potrà essere riavviato il motore della crescita economica di lungo periodo; condizione, questa, che pare ineludibile, se si vuole realmente perequare l’iniqua distribuzione del prodotto sociale tra i cittadini, inaugurare una nuova strategia d’intervento nelle regioni meridionali e accrescere la credibilità dell’azione di governo da parte delle autorità europee.
Com’è possibile constatare, gli obiettivi indicati da Ciocca prefigurano per il Paese una prospettiva che non può che essere condivisa; sorge però il dubbio che tali obiettivi possano di per sé portare automaticamente a rimuovere la piaga della disoccupazione, che costituisce l’altra faccia della medaglia del problema della crescita.
Al riguardo, non può sfuggire il fatto che la lotta contro la disoccupazione comporterà sicuramente (considerate le forze oggi prevalenti alla base del funzionamento delle società industriali, quali sono quelle espresse dall’automazione del processi produttivi) maggiori difficoltà rispetto al passato. Il rilancio della crescita dell’economia italiana e l’efficace azione contro la disoccupazione strutturale dovranno essere perciò fortemente supportati da un cambiamento di quelle variabili che Ciocca indica come variabili meta-economiche; ciò al fine di motivare i produttori e i responsabili dell’attività di governo a convincersi che le politiche ridistributive tradizionali del prodotto sociale dovranno essere necessariamente innovate, se si vorrà evitare che il rilancio della crescita e la lotta contro la disoccupazione avvengano in essenza di fatti e scelte traumatici.