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Editoriale
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In morte di un papa venuto da lontano
Cari amici,
Gli eventi di questi giorni, intorno alla morte e ai funerali di papa Francesco, ci inducono non solo al compianto, al ricordo, al dolore, ma anche al pensiero: che significa tutto questo? La parola più frequentata nei giornali e nei media italiani è “ipocrisia”. Data la sua ricorrenza, deve avere una sua verità. Intanto può significare l’omaggio che il vizio rende alla virtù. Ma già così sarebbe una cosa positiva, perché vuol dire attestare che la virtù è superiore al vizio, così come la realtà, diceva papa Francesco, è superiore all’idea.
Ma forse c’è anche qualcosa di più. Ed è che il consenso che si è scatenato attorno a papa Francesco, come è successo con papa Giovanni XXIII, non è finto, è reale. Ed è certamente vero che non tutto papa Francesco piace a tutti, ma ognuno, come si dice per diagnosticare l’ipocrisia, ne prende un pezzo, chi la pace, chi il no all’aborto, chi l’ortodossia, chi i migranti, chi la Madonna, chi Gaza, chi l’amore per “i fratelli ebrei”; solo Netanyahu non prende niente e ci tiene a farlo sapere. Però, al di là dei singoli pezzi, è la figura complessiva di papa Francesco che colpisce ed è arrivata al cuore delle masse o, per dirla in modo più tecnico, ad essere elogiato è stato il suo magistero globale, quel tutto, quella costante che c’è in ogni singolo “pezzo”. Questo tutto, e non potrebbe non esserlo, è stato il farsi testimone di Dio e, più ancora l’annuncio del regno di Dio che viene, e ancora di più, il modo e i contenuti inediti di questo annuncio.
E come mai questo annuncio nuovo suscita tanto consenso in un mondo secolarizzato, ateo, o post-teista, come pure ci piace chiamarlo? Come mai ne sono stati altrettanto toccati i pacifisti, i democratici, le donne in nero e quelli e quelle che mandano le armi perché uccidano e siano uccisi?
La domanda rimette in gioco la secolarizzazione, cioè quella che diciamo essere la modernità. È proprio vero, come dicono i sociologi, e i custodi del tempio, che Dio è stato perduto, che la secolarizzazione ha vinto e che i fiumi di folla sono, come li si chiama irrispettosamente in negativo, di “non credenti” e perciò, se partecipi e devoti, ipocriti? La Chiesa ha sempre pensato, e papa Francesco più di tutti, che non è il mondo clericale o il clero, da solo, ad autenticare la fede, ma il popolo, o meglio clero e popolo insieme, il “popolo di Dio”, che non è solo quello raccolto nella Chiesa cattolica, ma “Todos”, come diceva papa Francesco, anche in latino: “Fratres omnes”.
Dunque, ciò vuol dire che il popolo di Dio, forse senza saperlo, non ha perduto Dio, comunque gli creda. E allora forse si deve una riparazione alla modernità, prenderla per quello che veramente dice di essere, non per quello che noi diciamo che sia, non il “secolo” dove Dio non c’è, come di fatto la consideriamo, ma il luogo e il tempo di una convenzione: “facciamo e pensiamo come se Dio non ci fosse e non si occupasse dell’umanità”, secondo la nota formula seicentesca, che la proponeva come una finzione. E dunque lo diciamo “come se”, non perché “così è”. Facciamo l’ipotesi che Dio non ci sia, e ignoriamo l’ipotesi esclusa, ma nel sottotesto in molti consideriamo che, anche in modo a noi ignoto, egli ci sia, e che il suo regno possa arrivare davvero.
Allora vale la seconda alternativa avanzata in un articolo molto bello scritto da un filosofo “non credente”, Sergio Labate, In morte di un papa venuto da lontano: papa Francesco è stato l’ultimo argine «che frena l’inevitabile fine del mondo», oppure è stato il potere che spera, ancora e nonostante tutto, che «l’umanità, persino nella secolarizzazione, può non sentirsi orfana, affidarsi alla fraternità, non cedere al cinismo e alla disperazione, trovare un modo per non farsi la guerra»? «Modernità e cristianesimo». Cioè non una fine, ma un nuovo inizio.
Nel sito “PRIMA LORO” e sotto pubblichiamo l’articolo di Sergio Labate.
Con i più cordiali saluti,
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da “Prima Loro” (Raniero La Valle).
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CHE ABBIA RAGIONE LUI?
In morte di un Papa venuto da lontano
Aprile 25, 2025
Prendere sul serio la speranza in un’umanità che può affidarsi alla fraternità, non cedere al cinismo e alla disperazione, non farsi la guerra.
Sergio Labate
È strano – o forse non lo è per nulla – come a poche ore dalla sua morte, Papa Francesco sia stato immediatamente riportato dentro la maschera che suo malgrado indossava. Dentro le mura, non più fuori nel mondo. Invertendo subitaneamente un movimento che aveva scelto e che ha stupito tutti fin dall’inizio, una forma di spazientita rivendicazione del suo essere soprattutto un uomo di fede. Un uomo, tra gli altri e nel mondo. Senza i lussi, senza la regalità di un sovrano che vive e che, alla fine, addirittura muore. Adesso sono tutti d’accordo con lui, adesso che non può più spazientirsi e possiamo normalizzare le cose. È morto il pontefice, il sovrano.
Era un uomo di fede. Se c’è qualcosa che mi colpisce delle nostre società post-secolari è proprio la scarsità di veri uomini di fede. Ci sono tanti atei devoti, altrettanti uomini “religiosi”. Ma di uomini che siano illuminati e rasserenati dalla loro fede, ne conosco sempre meno. Non so nemmeno più dove cercarli, se non in qualche silenzioso monastero o in qualche tumultuosa missione. Perché ricordo questa cosa? Perché è per rispetto alla luminosità della sua fede che stasera non riesco a non coltivare anche un sorriso. Da non credente, sento che vale la pena dare credito alla sua fede, molto più che alla mia incredulità. Noi scettici, in fondo speriamo che abbia ragione lui. E che dentro la morte, si possa fare esperienza della grazia. La grazia, un’altra categoria teologica che noi umani increduli non sappiamo maneggiare, non sappiamo che farcene. Eppure in questi anni spesso ho pensato – vergognandomene anche un po’ – che il suo venire inaspettato e quasi dalla fine del mondo, portando la Chiesa cattolica dall’essere sentinella della conservazione a essere avanguardia delle rivendicazioni progressiste non potesse che dirsi nei termini della grazia. Nulla nella storia della Chiesa faceva pensare a un pontefice in grado di assumere con chiarezza posizioni sociali e politiche così radicali. Un pontefice in grado di “dire la verità” al mondo su se stesso. E questo suo dire la verità si scontrava con la storia, col suo procedere imperterrita verso il peggio, verso la demolizione di ogni pietà per gli oppressi dell’umano. Per i credenti è stato semplice trovare un principio di causalità nello Spirito Santo. Ma noi increduli ci siamo trovati un alleato, senza capire il perché e senza che nessuna dialettica della storia potesse in qualche maniera spiegarcelo.
Certo, questa alleanza politica e sociale ha convissuto con una ferma ostilità d’ordine morale. Al di là delle aperture alle persone e al rispetto per la loro dignità, Papa Francesco ha mantenuto il punto quanto alle scelte su aborto, omosessualità, matrimonio, uguaglianza di genere; è stato per certi versi riluttante sullo scandalo della pedofilia dei sacerdoti; ha fatto poco per democratizzare le istituzioni ecclesiali e per disintossicare la gestione del potere da un patriarcato angusto e inaccessibile. Ma tutto ciò in fondo ci ha anche rassicurato circa le sue intenzioni: non era una spia che cercava di impossessarsi di battaglie della sinistra per avocarle a sé, per strumentalizzarle. La sua sincerità era garantita anche dalla sua estraneità, che in fondo aveva anche dei tratti fisiologici. Abbiamo combattuto le stesse battaglie, ma non c’è stato bisogno né che lui si presentasse né che noi lo riconoscessimo in modo diverso da ciò che era realmente, un uomo di fede.
Altri più esperti di me chiariranno la genealogia del suo progressismo. Bergoglio apparteneva alla teologia popolare, una corrente che in America Latina nacque quasi per arginare il successo della teologia della liberazione. Non per contestarlo, ma per integrarlo. Recuperandone le istanze più sociali e minimizzandone forse la radicalità teologica. Non un conflitto, ma una “correzione fraterna”. A cui dobbiamo probabilmente sia la sua prossimità con la sinistra sia la sua irriducibile differenziazione. Tutto ciò che abbiamo condiviso con lui, per lui in fondo non era altro che il Vangelo e non richiedeva alcuna correzione di rotta teologica, nessuna simpatia per Marx.
La maggior parte dei commentatori ricordano tre questioni su cui si è manifestata questa prossimità senza mimetizzazioni o sconti: ecologia, migrazione, guerra. E non c’è dubbio che queste questioni siano state da Papa Francesco valorizzate nel dramma di un mondo che prendeva sempre più coscienza che attorno a esse si stesse giocando la propria sopravvivenza e la propria umanizzazione. Ma lo spessore teologico di Francesco era tale da rivendicare per ciascuna di queste questioni una radicalità cristiana, niente affatto una semplificazione. Per fare solo un esempio: la Laudato si, pubblicata nel 2015, è un’enciclica papale che scommette di essere al contempo una meditazione teologica sul creato e una riflessione filosoficamente originale sulla responsabilità per la terra. Scommesse vinte entrambe. Allo stesso modo tutte le riflessioni, le aperture e gli appelli disperati sulle migrazioni erano al contempo meditazioni teologiche sull’accoglienza evangelica e riflessioni antropologiche sull’homo viator, sulla necessità dell’essere umano di viandare (e d’essere accolto in quanto tale). Per non parlare poi della guerra e della sua disperata e tenace insistenza di fronte alla regressione bellica degli ultimi anni.
Accanto a queste tre questioni ne aggiungerei anche un’altra: il pauperismo o, meglio, l’incrollabile e non formale preferenza per i poveri. Anche in questo caso, non è difficile rintracciare i riferimenti biografici e la fedeltà evangelica: le tragedie economiche della storia argentina da un lato, una teologia evangelica per cui la povertà è uno scandalo ma è anche il segno di una conversione spirituale, dell’uomo che vive concentrato sulle cose essenziali. Ma in quella scelta anche estetica c’era soprattutto un certo modo di fare i conti col potere, dunque con la Chiesa come istituzione di potere. Tutti ricordiamo lo stacco tra l’ostentazione liturgica di Ratzinger e l’umiltà delle forme di Bergoglio. Abbiamo riscoperto la dignità del povero perché abbiamo imparato la sua lezione per cui la povertà non è la mancanza di potere, ma il modo più umano e dignitoso di resistergli, soprattutto nel tempo del lusso sfrenato e dei super-capitalisti al potere.
Ma la vera novità – ciò che per certi versi continua a essere un mistero – è quella di esser stato contemporaneamente il Papa dei credenti (quasi tutti, non tutti) e anche di coloro che mai avrebbero sognato di aver bisogno di un Papa, dei non credenti. Di essere diventato l’unica figura di riferimento credibile non solo per coloro che ne riconoscevano il ruolo ecclesiale, ma anche per quelli che non potevano non riconoscerne la legittimità morale di unica voce che urlava nel deserto. Come è stato possibile tutto questo? Che proprio la massima autorità religiosa sia stata l’unico vessillo per chi credeva in un mondo più giusto senza la vigilanza di una fede? Le mie ipotesi di risposta sono due.
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