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Per ricordare Giorgio Pisano. La lettera di Maria
Caro dottore,
le scrivo per l’ultima volta. Le scrivo pur sapendo che non potrà rispondermi, che non potrà neppure leggere questa mia lettera, l’ultima di una di una corrispondenza non lunga ma durata quanto la mia, e la sua, esistenza. Le scrivo ancora al vecchio indirizzo, quello del giornale al quale ha appartenuto per tutta la vita, al quale ha voluto appartenere a tutti i costi.
Mi chiedo se Valeria o Giacomo, ora che lei non potrà più farlo, saranno tentati di aprire la lista dei messaggi che continueranno ad arrivare.
Non si stupisca se mi intrometto nelle cose più care che ha avuto nella vita. E’ stato lei stesso, del resto, a lasciarmi intendere la dolcezza, la delicatezza, la tenerezza dei suoi rapporti familiari, a lasciami intravedere uno scorcio del suo mondo privato. La sua espressione severa, il cipiglio, non hanno mai potuto nascondere il cuore. Il suo cuore, ahimè.
Immagino le sensazioni di Valeria e di Giacomo, il dolore che si asciuga, a poco a poco, nell’orgoglio di esser cresciuti assieme a tanto compagno e tanto padre. Quando si va via si lascia sempre qualcosa, qualcos’altro lo si porta via per sempre.
Quando mi ha contattato, per la prima volta, alla ricerca delle informazioni che ha utilizzato per scrivere il suo ultimo romanzo, la verità imperfetta, ho avvertito istintiva diffidenza. Mi capita sempre così, tutte le volte in cui mi trovo di fronte ad un giornalista. Ed io, nella mia vita, per le vicende che lei ben conosce, sono stata spesso esposta alla curiosità dei suoi colleghi, ho patito la loro morbosa curiosità e provato sulla mia pelle quanto i giornalisti possano essere inaffidabili e persino crudeli. Del resto, avendo avuto occasione di leggerla all’epoca in cui faceva il cronista per l’Unione Sarda, ricordo come fossero taglienti le sue parole, duro il tono, feroce la replica nei confronti del malcapitato, o della malcapitata, che osava frapporsi alle sue certezze. Come quando affibbiò l’insolente appellativo di donna in preda ad una crisi di nervi ad una lettrice che si era permessa di criticare una sua cronaca.
Sono stati questi pregiudizi ad impedirmi di offrirle, sin da subito e senza reticenze, la mia piena collaborazione.
Lei, mi aveva assicurato che avrebbe posto in essere tutte le cautele per impedire che io potessi essere riconosciuta. Ho stentato a crederle, lo confesso, ma mi è bastato conoscerla appena per ricredermi. Ho subito capito che, in fondo, lei condivideva il mio pregiudizio nei confronti dei giornalisti, o meglio, di tanti che, nella vita, fanno i giornalisti. Fare il giornalista, in effetti, non è difficile, può persino costituire un’esaltante esperienza di potere anche se, talvolta, può condurre verso imprevedibili e disonorevoli epiloghi. Conoscendola, ho compreso la differenza tra il fare il giornalista e l’essere giornalista. Lei, è appartenuto alla seconda categoria, a quella nobile stirpe, a volte persino aristocratica, governata dall’ineluttabile imperativo di obbedire soltanto alla propria coscienza, di anteporre la notizia a qualsiasi altro interesse, agli amici, alle fede politica, alla convenienza personale. - segue –