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Il Sessantotto, ce n’etait qu’un debut

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di Gianni Loy

Ancora una commemorazione, stavolta per i cinquant’anni di un fenomeno ormai conosciuto come “il sessantotto”. Non è stata la prima ribellione nella storia, non è stata neppure la prima volta in cui siano apparse e barricate, risalenti a molti secoli prima, esattamente l al 12 maggio del 1588, un altro anniversario, ma di una rivolta dal segno opposto, quando per la prima volta i rivoltosi riempirono le barrik di terra e sassi per bloccare le strade di Parigi, da cui il termine barricades, barricate. Per la storia recente, quegli anni rimangono, in ogni caso una pietra angolare. Indipendentemente dal giudizio che se ne voglia dare, sotto il profilo culturale, rispetto al sessantotto, c’è un prima ed un dopo. La trasformazione, ovviamente, non ha riguardato soltanto quelli che di noi si sono buttati, a volte anche solo istintivamente, perché spesso l’analisi è venuta dopo, ma l’intera società.
Chissà quante volte Mario Capanna, assieme a tanti altri, ha urlato per le strade lo slogan del maggio: ce n’est qu’un début, continuons le combat! E’ solo l’inizio, continua la lotta. Così credevamo. Ed invece, quando centinaia di migliaia di giovani si sono riversati per le strade, quando hanno occupato le università, quando i lavoratori di molte fabbriche hanno deciso di essere protagonisti, cancellando, con un solo gesto, una consolidata prassi sindacale e la loro relazione con il padrone. Quando abbiamo immaginato che non fosse che l’inizio, in realtà, in quello stesso momento, la nostra rivoluzione si era già compiuta.
Non quella politica, che non c’è mai stata, ma quella, culturale che si è conclusa nel momento in cui abbiamo preso coscienza di voler esser diversi, di non volerci più sottoporre a tutte le regole della società nella quale eravamo cresciuti, di desiderare l’affermazione di valori che erano andati desueti, come la libertà, la solidarietà, l’uguaglianza.
Tutto si compie in un momento, al termine di una fase preparatoria che covava già da anni, certamente. Una fase trascurata, visto che tanto si è parlato e tanto si è analizzato del sessantotto e del suo “dopo”, piuttosto che del sessantotto e del suo “prima”. Tutto si compie in un momento, perché quando ti guardi allo specchio e vedi riflesso un cigno piuttosto che un anatroccolo, quando per la prima volta violi il tabù che la società ti aveva imposto, hai l’adire di ribellarti, tutto si consuma in un momento. Ed è allora che scendi per strada, perché vuoi che quel momento magico continui, che tutti possano partecipare, perché immagini, o vorresti, che sia soltanto l’inizio.
Ma così non è, così non è stato. Lo splendore di una rosa, come ci ricorda Ronsard, dura soltanto lo spazio di un mattino. Dopo è stata fatica, in molti abbiamo vissuto, per anni, nell’attesa che quel momento alto potesse ritornare. Dopo, semmai, è stata la politica, è stata la sconfitta. Molti sono ritornati sui loro passi, inghiottiti dal sistema, altri, nella disperata ricerca di far rivivere il sogno, si sono persi in vicoli senza uscita. Mario Capanna portava la sciarpa al collo, anche Giovanni Piras, a Cagliari, portava la medesima sciarpa. C’è anche chi afferma che la rivolta del sessantotto sia stata la madre di tutte le disgrazie. Sarkozy lo afferma per la Francia. Ignazio Ramonet, a dimostrazione dell’universalità di alcune delle trasformazioni del sessantotto, qualche settimana fa sulle colonne di “El Pais”, gli ricorda che prima del maggio sessantotto, lo stesso Sarkozy “non avrebbe neppure potuto essere candidato alla presidenza, per la sua condizione di divorziato, sposato con una divorziata. E meno ancora avrebbe potuto, pochi mesi dopo essere stato eletto, divorziare nuovamente dopo essere stato abbandonato dalla moglie per sposarsi un’altra volta con una multidivorziata e simpatica ninfomane”. Se lo ha potuto fare, è stato proprio grazie alle profonde trasformazioni nel costume che sono state, per tutta la società, un prodotto del sessantotto.
Mario parlava con le mani. Chissà se lo fa ancora. Sporgeva i sui grandi artigli dalla tribuna li muoveva con delicata forza, nel tentativo di plasmare, di dar forma concreta alle idee che stringeva tra i denti. A distanza di tempo, ho ripensato, più volte ad un episodio di quegli anni. Ero stato educato, come tanti, a rivolgermi a mio padre con la forma di rispetto rappresentata dalla terza persona. Un giorno, avrò avuto una ventina d’anni, mi sono presentato davanti a lui e, improvvisamente, gli ho dato del tu. Forse non lo meritava, visto che unico scopo della sua vita è stato quello di lavorare per dare a me ed a miei fratelli una vita migliore della sua. Non ha neppure reagito. Abbiamo cancellato in un momento l’ancien regime senza che mai mi abbia chiesto ragione di quel gesto o che io glielo abbia spiegato. Forse non era necessario. E il sessantotto non era neppure ancora esploso, ma già sentivo la necessità di vivere il valore dell’uguaglianza, di rompere il tradizionale modello di rapporti di potere tra padre e figlio di cui, personalmente, non avevo neppure da lamentarmi, ma che costituiva uno dei caratteri culturali di una società che incominciavamo a contestare. Non so se fu vera gloria, ma alla fine è stato piacevole, per me, accompagnare mio padre all’epilogo, con l’affetto e l’amicizia che un pronome confidenziale mi ha consentito. Altro che tristezza. Il sessantotto per me, credo per molti, è stata gioia, speranza, divertimento. Le cose fluivano naturalmente seguendo una ispirazione interiore che si era impossessata di noi e che ci suggeriva le cose giuste da fare. Anche Mario Capanna, se non mi ha raccontato frottole, amava giocare, persino a guardie e ladri con la polizia, quando il tempo lo consentiva, costringendo i gendarmi a comiche scalate per toglier via gli irriverenti striscioni che, una volta, aveva issato sulla piazza preparata per una manifestazione ufficiale. E amava rispondere in latino alle provocazioni teutoniche, nel palamento europeo che, per qualche anno, ha frequentato.
Ma tutto questo è stato dopo, quando il sessantotto era già finito, quando la linfa vitale non fluiva più nell’impetuoso torrente delle arterie ma incominciava a disperdersi nei vicoli ciechi di innumerevoli capillari. E’ stato quando, dopo l’euforia dei nostri sogni, il potere si riprendeva la rivincita, ed alcuni hanno incominciato a disertare, procurandomi, a volte, più pena che rancore; altri si sono smarriti, incapaci di ritornare alla vita civile dopo l’entusiasmante ebbrezza delle barricate. Non so se Mario, una delle principali icone di quel momento, abbia sofferto crisi di astinenza quando il sogno non si è avverato, quando abbiamo capito che quell’onda alta non sarebbe più tornata, quando abbiamo contemplato la debolezza dei ricorrenti movimenti, epigoni della prima ondata, sino al ritorno di culture che avevamo immaginato seppellite per sempre.
Ancor oggi, quando tento di spiegare agli studenti cosa sia cambiato, tra quella classe operaia solidale ed ugualitaria che ha dato voce e potere agli uomini ed alle donne che con la loro fatica hanno creato il miracolo economico di quegli anni ed una classe di lavoratori che oggi, non di rado, è alla ricerca di ciò che divide piuttosto che di ciò che unisce, non trovo risposta. C’è stato evidentemente, un cambiamento antropologico, per dirla con le parole che, in relazione ai mutamenti politici intervenuti nella classe politica degli anni ’80 e 90, utilizzava uno degli ultimi grandi rivoluzionari del scorcio del secolo scorso, Ernesto Balducci.
La vicenda personale di Mario Capanna mi sembra esemplare: quella di chi, confortato dai valori forti che hanno caratterizzato la sua esperienza, non si piega alla nostalgia, ma continua ogni giorno a compiere il proprio dovere, secondo le proprie possibilità, per contribuire alla nascita di un mondo migliore. Cioè, immagino, di quel mondo migliore, più giusto, più democratico, più solidale, che abbiamo sognato. Può darsi che l’intensità di quella esperienza ci abbia portato a sopravalutarla, a tentare di inculcarla, acriticamente, a generazioni che sono venute dopo, a generazioni che non abbiamo avuto la pazienza di capire. E’ giusto che ci cospargiamo il capo di cenere, che impariamo ad ascoltare, prima di essere costretti, traumaticamente, a prendere atto della terribile involuzione sociale in corso. E’ giusto, anzi doveroso, che abbandoniamo stereotipi e pregiudizi, è giusto che sia la modestia a ispirare i nostri giudizi. Perché, probabilmente, abbiamo perso i codici di lettura dei fenomeni che oggi si diffondono tra i nostri figli, e ci mostriamo esterrefatti di fronte a comportamenti e stili di vita che non corrispondono più al nostro alfabeto.
Per quanto mi riguarda, una cosa, almeno, la rivendico: la grandezza di quel sogno, di libertà, di uguaglianza, di fraternità, e di giustizia, che mi ha, che ci ha marchiati in maniera indelebile. Non è un vanto. Lo considero, al contrario, un privilegio ed un handicap allo stesso tempo, che a volte rende più complicata la vita, attirando incomprensioni quando non fastidio, ma allo stesso tempo sostiene e da ragione alle azioni con le quali cerco di adempiere ai miei doveri.