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Frana la Sinistra, ma non la sua necessità. Da dove ricominciare.
Le mancata unificazione delle disperse forze progressiste in un’improbabile sinistra social-riformista
di Gianfranco Sabattini*
Il direttore di “Italianieuropei”, Peppino Caldarola, per celebrare i vent’anni della rivista, nel numero 4/2018, propone all’attenzione dei lettori una serie di “giudizi a caldo” di diversi autori, non schiacciati sul presente, ma, come egli afferma, “di prospettiva, come si fa all’inizio di ogni stagione politica nuova”. L’interesse dell’ultimo numero del periodico, però, sta nel fatto che i “giudizi di prospettiva” siano seguiti da una sezione di approfondimento (Vent’anni di Italinieuropei), contenente principalmente lo scambio di lettere, risalente al 2001, occorso fra Giuliano Amato e Massimo D’Alema; lettere che, nella breve introduzione della sezione, Caldarola afferma abbiano contribuito a porre “le basi culturali per la nascita della rivista”, tre anni dopo la costituzione, nel 1998, della “Fondazione Italianieuropei”, cui gli stessi Amato e D’Alema “avevano dato vita riunendo intorno ad essa molti intellettuali di sinistra e no”.
L’interesse del contenuto delle lettere scambiate tra i promotori della fondazione e della rivista (arricchito dalla ripubblicazione di un articolo di Alfredo Reichlin, nel quale veniva ribadita l’urgenza che si desse corso a quanto sottolineavano il dirigente socialista Amato e il post-comunista D’Alema), non sta solo nell’indicazione della necessità di riaggregare le forze della sinistra intorno ad un progetto riformista di respiro europeo, in grado di dare risposte adeguate ai problemi sociali emergenti dall’allargamento e dall’approfondimento della globalizzazione; ma anche nell’urgenza insistita di formulare una valutazione tra ciò che, allora, Amato e D’Alema indicavano come programma per una nuova sinistra, e i “giudizi di prospettiva” riportati nella prima sezione della rivista stessa, dal titolo non casuale “Quale opposizione?”.
Amato, nella propria lettera a D’Alema (“Misuriamoci insieme con la novità del futuro”) sottolineava il fatto che le nuove condizioni socioeconomiche determinate dai grandi squilibri distributivi, nonché la “bomba demografica sempre più vicina ad esplodere”, ponessero le forze di sinistra davanti a in “drastico dilemma”: predisporsi ad affrontare le conseguenze dei crescenti flussi di immigrati, o apprestarsi a promuovere una riforma delle istituzioni con cui realizzare un’“efficace ridistribuzione dello sviluppo”? Fra i tanti rischi che, secondo Amato, si correvano nello sciogliere il dilemma, quello che più doveva preoccupare era la mancanza di una bussola in grado di consentire un valido orientamento nel risolvere i nuovi problemi; ovvero, di assolvere alla stessa funzione della bussola che aveva “ispirato per decenni il movimento socialista”.
Questa nuova “bussola politica” avrebbe dovuto consentire ai socialisti riformisti di stabilire se, all’inizio del nuovo secolo, il riformismo d’antan avesse lasciato solo “una traccia di buone intenzioni”, oppure continuasse ancora ad offrire soluzioni per governare le sfide poste dai nuovi problemi.
Secondo Amato, per la nuova sinistra, era possibile uscire dall’incertezza, pur tenendo conto che “il riformismo non aveva più gli stampi in cui si erano formate le identità collettive su cui aveva fatto leva per la sua azione”, se dall’analisi del passato essa (la nuova sinistra) avesse potuto “trarre una costante”; questa non doveva identificarsi con gli strumenti che il riformismo aveva usato per decenni, ma “con le finalità e gli effetti di fondo” che nel passato avevano caratterizzato la sinistra “in relazione alla coesione, agli equilibri, alla governabilità stessa delle nostre società”. Ma in che modo la nuova sinistra poteva trarre dagli “stampi” del vecchio riformismo la “costante” della quale parlava Amato, all’altezza delle nuove sfide emergenti? Le vie che potevano essere seguite – egli affermava – erano due.
La prima era quella indicata dalla destra e che gran parte dei Paesi democratici ad economia di mercato aveva iniziato a percorrere, a partire dalla seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso; questa via, supportata dall’ideologia neoliberista, rispondeva, secondo Amato, alle sfide del mondo, assicurando la più larga libertà d’iniziativa a tutti i componenti le società.
Il collante che assicurava la coesione di tale tipo di società, secondo Amato, era la certezza offerta a tutti che i loro egoismi non sarebbero stati contrastati, e che chi fosse riuscito a correre di più sarebbe stato “comunque premiato (senza guardare troppo per il sottile sui mezzi usati per aumentare la velocità della corsa)”; ma anche, si può aggiungere, senza alcuna preoccupazione del possibile peggioramento dell’ineguale distribuzione del prodotto sociale e della diffusione del fenomeno della povertà relativa ed assoluta.
A lungo andare, però, è stato inevitabile, a parere di Amato, che la coesione collettiva delle società scendesse “al di sotto dei livelli di guardia”, rendendo impossibile affrontare le sfide del mondo senza la necessaria disponibilità del consenso sociale a supportare la redistribuzione dello sviluppo. Non è questa – affermava Amato – la via che poteva essere percorsa per affrontare quelle sfide, senza che fosse compromessa, non solo la libertà delle società, ma addirittura un “futuro pacifico del mondo”.
In alternativa alla soluzione proposta e sostenuta dalla destra, per Amato esisteva quella suggerita dal socialismo riformista, in grado di affrontare “proprio i grandi temi del mondo” e di coinvolgere “soprattutto le nuove generazioni in una diffusa protesta contro la povertà, le disuguaglianze” e il poco che si faceva per ridurle. Ciò avrebbe implicato che il riformismo valorizzasse il patrimonio di idee del quale disponeva, per far diventare più libere le società, senza per questo renderle più divaricate e ingiuste; il socialismo riformista poteva però realizzare la valorizzazione del proprio patrimonio ideale solo a livello sopranazionale (ad esempio europeo), l’unico che, secondo Amato, potesse consentire di affrontare le sfide poste dalla globalizzazione, rimediando alle lacerazioni che tormentavano il mondo, a beneficio di chi ne soffriva e “a garanzia della sicurezza delle nostre stesse società”.
Concludendo la propria lettera, Amato sottolineava come una via di sinistra, volta a valorizzare il patrimonio ideale del socialismo riformista europeo, comportasse la necessità di compiere un’analisi dei problemi che all’inizio del nuovo secolo agitavano le società europee, senza limitarsi alla sola raccolta delle tendenze emergenti dai sondaggi di opinione; ma occorresse anche che la circolazione della rivista “Italianieuropei” coinvolgesse, non solo chi la faceva, ma pure chi la leggeva, nel “pensare e ragionare” al fine di mettere a punto un progetto di riforma delle istituzioni, per conformarle all’urgenza di governare democraticamente i problemi delle società moderne.
Non diversamente da Amato, D’Alema, nella sua lettera (“Ci unisce il legame con il socialismo europeo”) si dichiarava convinto che, di fronte ai nuovi problemi che travagliavano il mondo all’inizio del nuovo secolo, fosse “urgente una ricerca sulle ragioni, i punti di forza e anche i limiti, di un riformismo moderno”, attrezzato e all’altezza di reggere l’impatto di eventi che stavano modificando la vita dei popoli e la percezione della realtà. Di fronte alla nuova realtà, si riproponevano, a parere di D’Alema, le due domande che da tempo investivano “la natura stessa del riformismo e con essa le sorti della sinistra in Italia e nel resto d’Europa”: la prima volta a sollecitare una risposta al quesito se riformismo e socialismo potessero avere ancora un futuro, oppure se la globalizzazione (causa del nuovo stato sociale del mondo) implicasse la “fine della politica”; la seconda domanda, complementare alla prima, diretta invece a risolvere l’interrogativo riguardo all’”avvenire del riformismo” e all’individuazione della “ragione ultima di una ricomposizione unitaria [soprattutto in Italia] della sinistra”.
La risposta sollecitata dalla prima domanda, secondo D’Alema, era dirimente; essa mirava a stabilire se fosse possibile “recuperare quella che Gramsci definiva ‘la forza creativa della politica’”, oppure fosse ineludibile il suo declassamento, non tanto la sua scomparsa, ma “la perdita del legame tra l’agire collettivo e una maggior libertà dei singoli”. Se fosse stata riconosciuta la perdita (o l’affievolimento) di questo rapporto, sarebbe stato inevitabile accettare che la politica si riducesse ad essere ancella dell’economia e del mercato.
La risposta alla seconda domanda era considerata da D’Alema prioritaria al discorso sul possibile rilancio del riformismo e del recupero della forza creativa della politica; a suo parere, si doveva stabilire quale funzione il riformismo potesse svolgere nella prospettiva di una considerazione “globale della politica, dell’economia, del sapere, e naturalmente della sicurezza”; inoltre, la stessa risposta avrebbe anche consentito di stabilire se la ricomposizione unitaria della sinistra riformista disponeva delle risorse e della categorie linguistiche necessarie per partecipare al governo delle trasformazioni indotte dal processo attivato dalla globalizzazione; oppure, nel caso contrario, se il riformismo della sinistra fosse obbligato a un “ripiegamento domestico” e a rinunciare all’ambizione di partecipare al “governo democratico della globalizzazione”.
Secondo D’Alema, coloro che avessero creduto nel rilancio del socialismo riformista per fare fronte alle sfide della globalizzazione, non dovevano fare affidamento sull’esperienza del passato, ma rivolgere la loro riflessione su ciò che essi intendevano fare per il futuro, sulla funzione da svolgere e all’interno di quale luogo svolgerla. Su quest’ultimo punto, D’Alema mostrava di non avere dubbi; il luogo in cui riproporre il ricupero del socialismo riformista, in funzione di un rilancio della politica per il governo democratico della globalizzazione, non poteva che essere l’Europa; era questo l’unico approdo inevitabile per un rinnovamento della cultura politica e di governo da parte di tutte quelle forze sociali che avessero inteso unificarsi e identificarsi nella prospettiva d’azione di un rinnovato socialismo riformista.
A sostegno di questa sua posizione, D’Alema concludeva osservando che, all’inizio del nuovo secolo, in quasi tutta l’Europa, le forze del socialismo erano impegnate a ”cercare una sintesi moderna dei principi di libertà e di uguaglianza, di un individualismo non egoista e della responsabilità verso il futuro”. Partecipare a questa “battaglia di idee” era, per D’Alema, “il solo modo per non astrarre i destini del riformismo italiano” dal percorso che l’Europa andava definendo per sé e per il proprio futuro.
Dalle due lettere di Amato e D’Alema emergeva chiaramente l’idea di un progetto di rifondazione del retaggio culturale, politico e ideologico sul quale basare l’unificazione delle forze della sinistra italiana nell’ambito di un’azione politica inquadrata a livello europeo. Il senso del contenuto delle lettere, però, non andava al di là dell’esposizione di quanto sarebbe stato opportuno che il socialismo riformista italiano facesse per ricuperare alla modernità il proprio retaggio culturale, politico e ideologico. Poche, anzi nulle, le affermazioni circa le “cose” che il socialismo riformista avrebbe dovuto fare per una sua partecipazione al governo democratico della globalizzazione.
Il rilievo dei limiti propositivi delle due epistole che Amato e D’Alema si erano scambiate, dichiarandosi d’accordo sull’opportunità di un ricupero della tradizione del socialismo riformista per il governo democratico della globalizzazione, è stato esposto chiaramente nell’articolo “Domande ancora senza risposta” di Alfredo Reichlin, apparso nel secondo numero di “Italianieuropei” (quindi subito dopo la pubblicazione, sotto forma di lettere, dei due articoli di Amato e D’Alema, con cui essi hanno posto le basi, come già si è detto, per la nascita nel 20001 della rivista). Non casualmente, Caldarola, nella presentazione della ripubblicazione di tutti gli articoli, ha osservato che, nel suo intervento, Reichlin ha avuto lo sguardo “più lungo”, risultando anche “il più giovane”, in quanto, oltre ad affermare la “necessità di una sinistra che si impadronisse delle contraddizioni del mondo e che sapesse volgerle in un’azione positiva attraverso uno strumento politico, un partito vero di massa”, abbozzava anche un “progetto di futuro”, nel quale avrebbe dovuto identificarsi la ridefinizione del riformismo.
Questo progetto, affermava Reichlin, doveva consistere nelle ridefinizione del “riformismo come risposta [...] a ciò che ci chiedono le generazioni del Duemila”; in altre parole, doveva trattarsi di un progetto di futuro, “paragonabile per la sua forza”, a quello che si era “espresso nell’invenzione dello Stato sociale”. A tal fine, occorreva, secondo Reichlin, porre termine a discorsi fondati costantemente sul “dover essere”, e iniziare a formulare una proposta nuova di futuro, in grado di assicurare un governo democratico della globalizzazione, mettendo in campo “nuovi soggetti politici internazionali, nuove forme di statualità”. che però fossero “capaci di produrre anche nuovi modelli sociali ed economici”.
Una nuova sinistra, affermava Reichlin, che si fosse identificata in un rinnovato socialismo riformista, doveva necessariamente ridefinire le linee organizzative delle società, e fissare i principi cui ricondurre la responsabilità della politica verso le comunità. La mancata elaborazione e proposta di un progetto di futuro – concludeva Reichlin – era un fatto molto grave, perché quando una “domanda politica” non trova un’”offerta politica” corrispondente, diventa inevitabile la comparsa di pulsioni negative nei comportamenti collettivi. Insistere nella conservazione del welfare realizzato, la cui attività caritatevole ha cessato di servire ai poveri, agli esclusi e alla riproposizione di un nuovo riformismo socialista, può dare origine alla formazione di “vasti movimenti populisti di destra”. Reichlin è mancato ai più, sottraendosi al disagio di assistere all’avverarsi della sua previsione. Per fortuna, commenta Caldarola, sono rimasti i suoi suggerimenti.
E’ servito il messaggio di Reichlin a rendere consapevoli gli eredi dispersi del socialismo, che ai fini del ricupero di un loro rinnovato ruolo, è necessaria l’elaborazione di un progetto per il futuro? Leggendo gli articoli pubblicati nella prima parte del numero 4/2018 di “Italianieuropei”, si direbbe di no; con la sola eccezione dell’articolo della filosofa Donatella Di Cesare (“Una narrazione alternativa per ricominciare”), nel quale ella ribadisce che compito di una rinata sinistra non è solo quello di difendere la democrazia, ma anche quello di stabilire come affrontare, sulla base di un progetto di futuro, le nuove sfide del mondo attuale, attraverso una nuova “narrazione di quel che avviene non solo in Italia, ma nel mondo globalizzato”; gli autori degli altri articoli, invece, hanno imperniato i loro discorsi quasi esclusivamente sul come sconfiggere l’attuale governo “giallo-verde”.
Troppo poco, per sperare di assistere al nascere, in tempi sufficientemente brevi, di un nuovo soggetto politico social-riformista all’altezza dell’attuale stato del mondo; tutti i discorsi sono monchi della proposta di un progetto di futuro che indichi l’auspicabile rinnovamento della società e in funzione del quale si giustifichi la costituzione del nuovo soggetto politico, dotato della necessaria capacità di un’azione politica creativa.
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* Anche su Mondoperaio n.10/2018