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Cosa si aspetta a fare veramente l’Università della Sardegna? Professori datevi una mossa. E la Regione non stia a guardare!

Sardegna universitaria_2A proposito di classifiche delle Università. In quelle stilate dal Sole 24 ore le Università della Sardegna sono situate inesorabilmente in fondo. Le cose vanno meglio nelle classifiche per settori disciplinari stilate dal Censis per la Grande guida di Repubblica. In ogni caso tra i punti deboli più rilevanti delle Università sarde vi sono la mancanza di attrattività e la carenza di sbocchi occupativi. Difficile colmare quest’ultima carenza, seppure qualcosa in più si deve escogitare, ma sull’aspetto della attrattività oggi non si fa quasi nulla e invece si potrebbe fare moltissimo, per esempio con la federazione dei due Atenei, federazione vera sotto l’egida dell’Università della Sardegna. Lo ripetiamo (e per questo riproduciamo un nostro articolo su Aladin e altre News on line), anche se gli accademici non ne vogliono sentire, ripiegando su mezze misure come l’attuale finta federazione tra i due Atenei. Eppure chiunque sappia di marketing sa che Cagliari e Sassari all’estero sono del tutto sconosciute e l’unico brand attrattivo è “Sardegna”. L’Università della Sardegna come The University of California: questa è una soluzione giusta. Non basta certo, ma questa scelta aiuterebbe eccome!

ape-innovativadi Franco Meloni (su Aladinews del 2 febbraio 2015) – segue

Meno siamo, meglio stiamo

ceto politico CQMeno siamo, meglio stiamo.
ape-innovativa2di Franco Meloni
Utilizziamo il titolo della simpatica trasmissione televisiva di Renzo Arbore, per applicarlo all’attuale situazione della partecipazione del popolo alle scadenze elettorali e, in generale, alla vita e alle scelte della politica, con questo significato: Meno siamo si riferisce al popolo, agli elettori; Meglio stiamo, invece, alla classe politica, agli eletti. Parliamo dell’Italia, e anche della Sardegna. Rispetto alle elezioni, ormai di tutte le tipologie, di carattere politico o amministrativo, risulta che nonostante la progressiva diminuzione della partecipazione al voto, e alle rituali “lacrime di coccodrillo” degli appartenenti al ceto politico, nulla si faccia per invertire la tendenza. Anche perchè la disaffezione al voto è dovuta ad alcune cause concorrenti, qui ci riferiamo alle due principali, guardacaso ambedue riconducibili alle responsabilità della classe politica: 1) il concreto comportamento dei politici; 2) i sistemi elettorali.
1) Il concreto comportamento di moltissimi rappresentanti eletti nelle diverse istituzioni, sempre più massicciamente coinvolti in scandali di malversazioni e ruberie, o anche peggio (mafia, camorra..), senza che questo autorizzi un giudizio di condanna generalizzato, anche se gli onesti rischiano di costituire encomiabili eccezioni. Nel senso che un “tasso di criminalità” e, se vogliamo, anche un “tasso di ignoranza-incompetenza”, spesso coincidenti, c’è sempre stato nel mondo politico, ma, in misura minoritaria, “controllabile”, tale insomma da non connotare negativamente tutta la classe politica. Oggi tali tassi sono cresciuti in misura insopportabile per un funzionamento virtuoso del sistema politico.
2) La selezione delle classi politiche attraverso sistemi elettorali che in generale non premiano l’onestà, il merito e la competenza.
Su questi argomenti ci siamo soffermati in altre occasioni, in particolare con l’intervento che qui riprendiamo, che, mantenendo la propria validità è stato integrato solo con riferimento al fenomeno del renzismo post berlusconiano, alla novità dell’italicum e all’esito delle elezioni sarde.
(…) in generale il giudizio sulla qualità dell’attuale classe politica non è positivo e non da ora. Assistiamo infatti da almeno un trentennio a un suo progressivo scadimento; fenomeno che possiamo datare, con una certa approssimazione, dalla fine degli anni 80, in coincidenza e correlazione con la crisi delle ideologie e dei partiti che ad esse si ispiravano. I partiti fino a quel tempo produttori di programmi e dotati di personale politico qualificato in grado di attuarli, ma anche capaci di catturare una certa parte delle idee formatesi al loro esterno, sono andati progressivamente perdendo queste capacità, riducendosi sempre più a “macchine elettorali”, con personale politico nominato dalle segreterie centrali (la legge porcellum costituisce al riguardo un esempio eclatante, e non diversamente la legge italicum) e in prevalenza sulla base di lealtà verso i capi dei quali garantire la permanenza al potere. Il berlusconismo costituisce una chiara esemplificazione di quanto affermato, anche se non esaurisce il fenomeno nella sua totalità, e il renzismo ne costituisce coerente prolungamento. Nel richiamato passato invece la selezione della classe politica avveniva, nella generalità dei casi, in modo rigoroso, con metodi abbastanza comuni a tutti i partiti quantunque portatori di diverse ideologie e rappresentanti di diversi interessi. Limitando l’esempio ai grandi partiti di massa: la Democrazia Cristiana selezionava i propri rappresentanti attraverso l’Azione Cattolica, le Acli, la cooperazione e il sindacalismo cattolico, così come il Partito Comunista e  il Partito Socialista selezionavano fondamentalmente attraverso i sindacati, l’associazionismo e la cooperazione di sinistra. Un ruolo importante nella formazione dei dirigenti e rappresentanti nelle istituzioni lo avevano poi le scuole di partito. In generale il cursus honorum, cioè la carriera del politico, veniva costruita nel passaggio dalle istituzioni minori a quelle di maggior livello: dal ricoprire le cariche di consigliere o assessore comunale o provinciale a quelle di consigliere o assessore regionale, fino agli incarichi parlamentari e di governo. Chi arrivava alle alte sfere era dunque ben rodato; poteva certo capitare qualche smagliatura, cioè che passasse una ridotta percentuale di inidonei al ruolo ricoperto. Oggi le proporzioni si sono decisamente rovesciate. Tutto questo lo paghiamo – e molto caro – rispetto alla qualità della gestione pubblica, costituendo la concausa della decadenza del paese. La descrizione fatta è schematica e non dà conto di consistenti eccezioni, ma corrisponde sostanzialmente alla situazione attuale. A questo punto se non vogliamo cadere nel baratro dobbiamo necessariamente invertire la rotta. E come? Innanzitutto modificando le leggi elettorali, come il vituperato porcellum, e non adottandone di simili, come l’italicum, aprendole alla partecipazione e consentendo un’effettiva scelta da parte dei cittadini dei propri rappresentanti. A mio parere occorre riconsiderare positivamente i sistemi proporzionali, che consentono una maggiore rappresentanza dei cittadini e, tutto sommato,  un più alto tasso di governabilità. Al riguardo la recente legge elettorale sarda è un pessimo esempio, in quanto restringe le opportunità democratiche, come dimostrato dall’esito elettorale.
Poi occorre ripristinare la democrazia nei partiti, modificandone la forma attuale, sperimentando inedite configurazioni, che solo i giovani possono assicurare, nella misura in cui sia consentito loro di avere ruoli dirigenti negli stessi partiti, auspicando alleanze generazionali ed equilibri di genere. Quest’ultima circostanza comporta un percorso più lungo e difficile, che tuttavia è possibile praticare da subito. Una parte consistente del rinnovamento passa attraverso l’adozione di adeguati meccanismi di scelta dei rappresentanti nelle istituzioni. Al riguardo ciò che maggiormente può garantire la qualità della classe politica è la possibilità effettiva di esercitare sulla stessa il controllo popolare, in attuazione di principi di trasparenza e partecipazione e con l’utilizzo degli strumenti della democrazia digitale, opportunamente facilitati e generalizzati (…).
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Che fare ancora sul versante della società civile?

Non abbiamo certo ricette. Ma crediamo che occorra impegnarci molto, come abbiamo sempre fatto nella nostra storia politica, sul versante della democrazia partecipativa o deliberativa, che, in certa misura costituisce un antidoto alle tendenze di restrizione degli spazi di partecipazione democratica e alle impostazioni bonapartiste, delle quali ha parlato in un recente editoriale Francesco Casula. In questo quadro plaudiamo all’iniziativa di proposta di una legge regionale sulla partecipazione dei cittadini alle politiche regionali. Una legge non risolve, ma può aiutare.
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cq maschere
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Rapporto Crenos 2015: un richiamo alle responsabilità dell’Università sarda

Crenos 29 5 2015Coro Lorenzo Costa LLIl rapporto Crenos è stato presentato oggi nell’aula magna della facoltà di Ingegneria e Architettura dell’Università di Cagliari – Università della Sardegna. La pubblicazione che contiene il rapporto è disponibile a richiesta per il tramite del sito web del Crenos; una sintesi efficace, a cura dello stesso Crenos, è qui disponibile. Nei mass media locali e in numerosi siti web, istituzionali e no, sono già presenti servizi giornalistici (compresi reportage fotografici) sull’evento. Ne segnaliamo alcuni. Sui contenuti del rapporto torneremo nei prossimi giorni. Rifacendosi alla parte del report sintetico, nella nota odierna ci limitiamo a segnalare il perpetuarsi del “disastro istruzione” che caratterizza negativamente la Sardegna. Non sembra, a nostro avviso, che vi sia la consapevolezza della drammatica situazione e pertanto la volontà-capacità di adottare le misure più opportune, soprattutto da parte di quanti nelle Istituzioni hanno risorse e competenze (quelle formali) per intervenire. Non ci riferiamo solo ai decisori politici. Pensiamo per esempio all’Università, la quale deve assumersi le sue responsabilità. Ma, tanto per fare un esempio, parlando del dato dei laureati (il più basso in Italia) cosa può dire una dirigenza accademica, che speriamo sia al tramonto, che ha fatto la lotta ai fuori-corso, non al fenomeno dei fuori corso, che infatti non ha minimamente risolto, incapace di capire le esigenze delle persone e contribuendo ad aggravare il dato del “numero dei laureati”? Per questa come per altre questioni, come giustamente (e autocriticamente) diceva il “barone” Sabino Cassese, rifacendosi a una famosa frase di J. Kennedy: “Non basta dire quello che il paese può fare per l’Università, dobbiamo anche dire quello che l’Università può fare per il paese. Quindi sarebbe un errore cominciare col dire “Dateci più soldi”. No. Dobbiamo anche dire quali sono le nostre responsabilità. Che cosa abbiamo fatto per evitare tutti gli abbandoni? Perchè l’Italia è riuscita in 50 anni a portare tutti i ragazzi alle scuole elementari e non riusciamo dopo 150 anni a portare alla laurea tutti gli iscritti all’Università? Queste sono nostre responsabilità. E quindi non poniamo il problema esclusivamente in termini rivendicativi. C’è qualcosa che il paese deve fare per l’Università (e, ovviamente, per la ricerca), ma c’è anche qualcosa che l’Università può fare per il paese”.
Ecco, se vogliamo uscire da questa situazione, lo possiamo fare solo partendo dal coraggio di invertire la rotta. Noi siamo con chi vuole cambiare, sapendo che come avversari del cambiamento ci sono molti “lupi travestiti da agnello”, tra questi includiamo Renzi e il suo governo!

rap crenos 2015I fattori di competitività: note dolenti per istituzioni e istruzione
(…) Il quadro derivante dall’analisi dell’istruzione è assolutamente deficitario. Pur in miglioramento rispetto al 2009, la Sardegna mostra nel 2014 una percentuale di laureati tra la popolazione attiva pari al 13,1%, persino in calo rispetto al 2012 (14%); tale dato colloca la nostra regione ultima fra le regioni italiane e addirittura 265esima (su 269) fra le regioni europee; la media dell’Unione Europea (29,3%) è più che doppia rispetto al dato sardo. Decisamente negativo appare anche il dato sull’abbandono scolastico tra i 18 e i 24 anni. La regione è nona su 269 regioni europee e seconda in Italia per tasso di dispersione: poco meno di un giovane su quattro (il 23,5%) in Sardegna non termina gli studi superiori. Questo dato è migliore in termini assoluti rispetto agli anni precedenti (-0,8% rispetto al 2013 e -2% rispetto al 2012) ma peggiore relativamente al resto delle regioni europee dato che la Sardegna guadagna 4 posizioni in questa classifica. (…) Leggermente migliore la condizione dell’Isola per quanto riguarda il dato sulla formazione permanente degli adulti: la Sardegna si colloca nella prima metà della classifica (125° su 268 regioni) con un tasso del 9,7%, superiore al dato del 2013 (7,4% e 165° posizione), superiore anche al dato nazionale per il 2014 (8,0%) e non lontano dalla media UE28 (10,7%). [i grassetti sono redazionali]
- Il servizio dell’ufficio stampa di Unica.
- Il servizio sul sito della RAS.
- Il servizio su Videolina.
- Il servizio su SardiniaPost.
- Il servizio di CagliariPad.
- Il servizio AGI.

- Sintesi del rapporto a cura del Crenos.