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Per un nuovo ruolo di Cagliari
Pubblichiamo un articolo di Francesco Cocco, illustre intellettuale e politico della sinistra, che in passato nella regione e nella nostra città ha ricoperto importanti ruoli istituzionali. Soprattutto è un nostro amico. Il suo intervento è stato scritto alcuni anni fa e dunque non tiene conto di recentissime novità quali, ad esempio, la candidatura di Cagliari a “capitale europea della cultura per il 2019″ o la prossima definizione della città metropolitana per effetto dell’ultima legge che istituisce appunto le città metropolitane nel territorio italiano, con l’eccezione delle regioni a statuto speciali, nelle quali l’istituzione è prevista attraverso apposite leggi regionali. Ma i concetti espressi da Francesco sono di grande attualità e contribuiscono a riproporre un dibattito su Cagliari e sul suo ruolo in Sardegna, nel Mediterraneo e in Europa. Tale dibattito, a noi molto caro, allo stato attuale è “sottotraccia” ed è nostro impegno farlo riemergere in tutte le sedi e con tutte le modalità che assicurino ampia diffusione e partecipazione popolare. Ne abbiamo davvero bisogno! Nella circostanza vogliamo richiamare sia le elaborazioni contenute nella nostra news Aladinpensiero, sia l’impegno di altri amici partecipanti a vivaci circoli politici e intellettuali. Al riguardo tra questi ci piace segnalare l’impegno di Enrico Lobina e dei blogger che si riuniscono ogni lunedì con la (e nella sede della) Fondazione Sardinia (f.m.).
Per un nuovo ruolo di Cagliari
di Francesco Cocco
Cagliari è capoluogo dell’Isola per qualcosa che va al di là di uno stretto rapporto col territorio. Se a legittimare il ruolo di capoluogo fosse soltanto un legame territoriale, Cagliari non dovrebbe avere un tale ruolo. I Sardi del sud dell’ Isola, dovrebbero avere l’onestà intellettuale di riconoscere questo fatto. Per capirlo basta dare uno sguardo alla carta geografica. E’ il capoluogo di regione più decentrato. Milano è al centro della Lombardia, Palermo rispetto alla Sicilia è nella stessa posizione di Oristano rispetto alla Sardegna. E così per le altre regioni.
Questa accentuata perifericità è sofferta da oltre metà del territorio dell’Isola. Andate in Gallura, chiedete e capirete quali fastidi essa genera. Per non parlare di Sassari, della sua secolare contestazione nei confronti di Cagliari.
Sino ai primi del Novecento (e vedremo perché ai primi del Novecento il rapporto in qualche modo comincia a cambiare) è vero che Cagliari è stata “Sardegna altra”, cioè separata in quasi tutto dal resto dell’Isola. Era capitale non per i servizi che poteva rendere alla Sardegna ma essenzialmente per ragioni di alta strategia militare, connaturate a ruoli di politica internazionale e molto limitatamente ai legami col territorio.
Risparmio i precedenti storici, ma un interrogativo che si pose dopo il passaggio della Sardegna ai Savoia dobbiamo porcelo ancora oggi. Questo perché ne derivano conseguenze politiche attuali. Quindi chiediamoci: “Perché i Savoia confermarono il ruolo di Cagliari capitale quando Sassari era enormente più vicina alla “capitale degli Stati di Terraferma” (secondo la locuzione del tempo), cioè Torino, ed alla seconda città degli stessi Stati, cioè Genova ?”.
I Savoia erano diventati re di Sardegna per la loro capacità di alleanza ed intermediazione con le grandi potenze. Possedere la rocca di Cagliari significava disporre di una piazzaforte militare di “prima grandezza” che poteva consentire un ruolo di politica militare internazionale. Oltretutto era in piedi una minaccia militare dei regni del Nord-Africa, ad Est l’Impero asburgico era in una posizione di permanente guerra guerreggiata con l’ Impero ottomano. Solo qualche decennio prima i Turchi avevano assediato Vienna. Ecco perché la prima preoccupazione dei Savoia fu di rafforzare il ruolo di piazzaforte militare della città.
Spesso si dice che tanto interesse per l’architettura militare era in funzione antispagnola. Certo era anche questo, ma non è sufficiente a spiegare la costruzione di una serie di manufatti militari che durò decenni. Né serve a giustificare l’esborso finanziario che un tale lavoro comportò. Realizzare una grande piazzaforte militare, nella politica del tempo significava, per un piccolo Stato, esser presente sulla scena internazionale. Ed è ciò che volevano i Savoia.
Il ruolo di piazzaforte militare permane, ma solo formalmente sino al 1867, quando Cagliari viene tolta dall’elenco ufficiale delle piazzeforti militari. La data è importante in quanto consente di dare attuazione al primo piano regolatore della città, elaborato da Gaetano Cima. Da notare che era in ordine cronologico, il secondo piano regolatore dopo l’Unità d’Italia. Importante anche perché la città comincia a darsi un nuovo assetto di città d’industrie e di commerci.
Si compie una vera rivoluzione antropologica. Nasce una borghesia non solo mercantile ma anche industriale. E’ la Cagliari di Salvatore Rossi, impegnato negli interventi edilizi ma anche iniziatore delle prime industrie tessili, e fondatore di istituti di credito. E’ la Cagliari dove s’impiantano le prime aziende metallurgiche: le fonderie dei Chicca-Savolini, dei Doglio che consentono di soddisfare pienamente il mercato isolano. In questo periodo nasce l’industria molitoria con la filiera dei pastifici che producono sia per il mercato isolano che per l’esportazione. Sono le industrie molitorie dei Merello, dei Costa, dei Fagioli.
Cognomi non sardi: è una borghesia in gran parte d’importazione. Ma questo non significa che nella seconda metà dell’Ottocento manchi in Sardegna un’intraprendente borghesia d’origine sarda. La grande industria isolana del tempo è quella estrattiva, soprattutto l’industria mineraria del piombo e dello zinco, dominata da quella singolare figura d’industriale, politico e in qualche modo editore, in quanto proprietario e fondatore di giornali, che fu Giovanni Antonio Sanna, il dominatore del panorama economico sardo nella seconda metà dell’Ottocento. Di fatto riuscì a controllare in campo nazionale l’allora strategico mercato del piombo e dello zinco.
La borghesia a cavallo tra Ottocento e Novecento si era posta il problema del ruolo della città che si proietta verso l’ Africa con una forte presenza sarda in Tunisia ed Algeria. E’ significativo che a Cagliari, agli inizi del Novecento, si pubblichi un periodico in lingua araba. Anche la forma urbana della città è nelle preoccupazioni della borghesia cagliaritana. Ottone Bacaredda, al di là di certa vulgata che schematicamente lo pone su posizioni antipopolari, proietta la città verso il mare (nuovo municipio), le dà decoro urbano (la Cagliari monumentale del centro storico), pensa a soluzioni allora avveniristiche (il tunnel sotto Castello).
I moti del maggio 1906, di cui la sinistra sarda dovrebbe ricordarsi adeguatamente, sono il fatto storico che, per un altro verso (accanto al conquistato ruolo mercantile ed industriale), sanziona la funziona guida di Cagliari agli inizi del secolo. La città è diventata un centro urbano con una forte presenza operaia, soprattutto nel settore metalmeccanico con oltre 500 addetti. Al censimento del 1911, oltre il 25% della popolazione attiva risulta addetto ad attività industriali. Stiamo parlando di una popolazione complessiva di 40.000 abitanti.
Al ruolo egemone che la città va conquistando in campo isolano contribuisce il fatto che la grande industria sarda (quella mineraria con migliaia di addetti) è concentrata in gran parte nel sud dell’Isola (bacino minerario dell’Iglesiente, del Sulcis, della zona di Guspini e Arbus) . Di qui un ruolo economico trainante che entra in profonda crisi negli anni ’60 del Novecento con la crisi dell’industria mineraria.
Questi brevi cenni ci aiutano a comprendere come i moti di Cagliari del 1906 si estendono a tutta la provincia (da Gonnesa a Villasalto) ed a molti paesi del centro e nord Sardegna. Anche grazie al sorgere dei partiti moderni, la città si salda al resto dell’Isola, cessa di essere quella “Sardegna altra” alla quale facevo prima riferimento.
Nel Secondo dopoguerra muta profondamente ildna della borghesia cagliaritana. Sbaglieremmo a pensare semplicisticamente che il degrado della classe economica e politica cagliaritana cambi per un fatto meramente di ordine politico e culturale. Certo c’è anche questo, ma soprattutto agisce il nascere della grande industria che azzera lentamente i possibili e talvolta floridi mercati regionali.
Le nuove strutture produttive appartengono a poteri pubblici o a soggetti privati forti (Rovelli, Moratti, ENI, tanto per citarne alcuni) che sono estranei alla città ed introducono elementi di dominio esterno e quindi di oggettivo corrompimento. Si pensi a quanto a suo tempo agì in negativo sulle istituzioni autonomistiche la presenza nel panorama sardo di Nino Rovelli. L’Unione Sarda e La Nuova Sardegna erano sotto il suo diretto controllo.
Tutto questo non faceva che accentuare la crisi della città in atto dalla metà degli anni Quaranta. Una crisi collegata alla perdita del vecchio ruolo. Quando poi la città divenne il capoluogo amministrativo della regione, questo fatto finì per accentuare l’avversione di non piccola parte dei Sardi verso la nuova sede di un potere sempre più costruito con logiche centralistiche. L’autonomismo centralistico su cui è andato modellandosi l’apparato amministrativo regionale.
Cagliari era uscita dalla seconda guerra distrutta non solo nel tessuto edilizio ma in quel ruolo di guida della Sardegna che aveva continuato ad esercitare sino alla vigilia della guerra. E’ significativo che nell’agosto del 43 sulle pagine del quotidiano sassarese L’Isola, l’avv. Giuseppe Musio, autorevole esponente del PSI, e soprattutto futuro direttore dell’Unione Sarda dal marzo del 44 su incarico dei partiti antifascisti, lanciasse la proposta di trasferire a Sassari il capoluogo dell’Isola. La distruzione della città era tale da dare l’impressione di non potersi risollevare in tempi rapidi. Di fatto l’articolo di Musio ebbe una funzione d’incitamento alla ricostruzione e così nel febbraio del 44 il generale Pinna, nominato alto commissario per la Sardegna, fissò a Cagliari la sede del suo ufficio.
Non dobbiamo però nasconderci che ciò che allora salvò il ruolo di Cagliari capitale fu soprattutto il grande sacrificio dei suoi abitanti durante la guerra. Il sacrificio delle migliaia di morti e dell’intera popolazione che dovette evacuare la città e subire la fame e gli stenti conseguenti allo sfollamento. Sfollamento che però fu anche occasione per rinsaldare un nuovo rapporto con le popolazioni dell’Isola.
Negli anni immediatamente successivi alla guerra, si sviluppò nella Consulta regionale un appassionato dibattito su quale città dovesse essere il nuovo capoluogo della Regione. Riporto qualcuno degli interventi più significativi. Nella seduta del 9 gennaio 47 (la città stava risorgendo dalle macerie) il consultore sassarese Giovanni Scano: “…non è vero che noi di Sassari abbiamo paura che Cagliari possa diventare la capitale dell’isola. Onestamente riconosciamo che Cagliari, anche per ragioni storiche deve essere la capitale della Regione. Noi vogliamo che essa sia sempre la capitale perché ci sono delle ragioni alle quali non ci si può opporre. Noi siamo per Cagliari perché rimanga qual è effettivamente, la città più grande, più moderna, più bella; e non dimentichiamo che è stata la più martoriata della nostra regione”.
Nel marzo 47, il consultore Nino Campus (bossiano ante-litteram) disse: ” …in Sardegna abbiamo due mondi economici e geografici diversi. Passando nella strada da Cagliari a Sassari, non vi siete accorti come tutto, anche il clima, abbia dei segni di distinzione? … Anche nel campo spirituale, tradizionalmente, non vi è stata questa unità spirituale che oggi si vorrebbe tirare fuori…”-
Oggi si parla molto di frequente di “Cagliari capitale”. Qualcuno con molta fantasia ma poco senso della realtà lancia lo slogam “Cagliari capitale del Mediterraneo”. Qualche altro, prendendo atto che nel Mediterraneo ci sono capitali vere ed altre in grado di esercitare un tale ruolo, parla di “una delle tante capitali” del Mediterraneo. Credo occorra fare un po’ d’ordine terminologico e quindi concettuale.
Occorre preliminarmente da chiedersi: “Il fatto di essere oggi il capoluogo della Regione fa di Cagliari una capitale?” La risposta mi pare debba essere negativa. Anche perché il termine “capitale” va assumendo significati non identificabili col ruolo puramente politico-amministrativo ma piuttosto con funzioni egemoni che possono essere esercitate in uno o più settori. Certamente Roma è capitale d’Italia sul piano politico- amministrativo. Ma diciamo, e correttamente, che Milano è la capitale finanziaria. Qualche anno fa Genova è stata, per atto formale dell’Unione Europea, capitale culturale d’Europa. Quindi la parola capitale non è termine univoco.
Tanti altri esempi potrebbero essere richiamati, ma ora quel che ci interessa è se possiamo correttamente parlare di Cagliari capitale. Soprattutto se possiamo pensare ad un ruolo di Cagliari in cui essa è chiamata ad esercitare funzioni che
riguardano innanzitutto il territorio regionale e sanno andare oltre la dimensione regionale.
Se dovessimo verificare che manca questa capacità di andare oltre tale dimensione regionale, di farsi ponte tra interessi europei ed interessi nord-africani, avrebbe ragione chi in passato ha proposto di istituire una sorta di capoluogo regionale ad Abbasanta, o una sorta di capitale itinerante di cui qualcuno parlò nel 1989 in occasione del nuovo regolamento del Consiglio regionale. Se dovessimo guardare solo al nostro retroterra, che è l’Europa, magari a quell’altra regione europea transfrontaliera che è la Corsica, onestamente dovremmo pensare a soluzioni diverse da Cagliari.
Essere capitale (uso il termine in quell’ampia accezione alla quale facevo riferimento) vuol dire esercitare un ruolo che sappia guardare oltre i propri orizzonti territoriali. Credo che Cagliari possa essere una capitale nel Mediterraneo (e sottolineo “una capitale”) se saprà esercitare funzioni che vanno oltre i propri confini strettamente regionali. Se saprà guardare davanti a sé.
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Cagliari ha esercitato nei secoli passati un ruolo mediterraneo in funzione militare. Si tratta di rovesciare il rapporto. Rovesciare il rapporto in qualche modo riprendendo le linee della nostra storia, e di dare alla città una nuova funzione mediterranea facendone un baluardo di pace. Da baluardo di guerra, quindi, a baluardo di pace.
Cosa significa questo? Baluardo di pace inteso in una dimensione che va oltre il semplice centro d’iniziative politiche per la pace. Certo anche questo, e forse in una fase preparatoria soprattutto questo. Ma alla lunga sarebbe poca cosa. Occorre pensare alle possibili iniziative di politica economica, sociale, culturale, scientifica che si devono e si possono realizzare.
Dobbiamo aver chiaro che un tale ruolo appartiene non solo alla città ma più complessivamente alla regione nella sua totalità. In tale ottica Cagliari si pone come capitale in quanto strumento di più ampie potenzialità regionali. A mo’ d’esempio indico possibili linee d’intervento. Necessariamente lo faccio in modo schematico, anche perché poi saranno oggetto di specifici interventi.
- A) Viene naturale pensare ad una città con una vocazione mediterranea nell’organizzazione degli studi. Non sono mancati in passato interventi con un tale respiro. In tale ottica era la partecipazione al “Collegio dei mondi uniti” con una borsa di studio finalizzata all’acquisizione di un’esperienza. Ed anche le borse di studio nella prospettiva di una “Casa mediterranea degli studi”, segnatamente per le materie scientifiche.
- B) Si pensi a quanto in prospettiva può venirci dall’emigrazione nord-africana, ed in particolare magrebina, per la creazione di un tessuto di comuni intraprese economiche. Il metanodotto dall’Algeria può essere in tale prospettiva un’ occasione unica.
- Vi sono poi le potenzialità di una politica dei trasporti per ben finalizzate linee aeree e navali. Cagliari è il naturale approdo delle autostrade del mare che collegheranno l’Africa Occidentale a Genova, a Marsiglia, a Tolone.
- Cagliari ha ormai le tecnologie per porsi come snodo di sistemi di collegamento informatico tra Europa e Africa del Nord. Di qui anche un aumento delle possibilità per divenire sede di una banca del Mediterraneo occidentale.
Sono spunti di un progetto programmatico certamente collimante con lo schieramento delle forze della sinistra. Per approfondirlo e poi dargli gambe che consentano di marciare nella dialettica politica ed istituzionale occorre che la sinistra riprenda a pensare con quella progettualità che l’ha caratterizzata in passato. E’ un compito che riguarda i partiti nel loro complesso e che non può essere delegato ai gruppi consiliari. Ciò non significa che i gruppi non siano chiamati a compiti specifici, anche nel momento del progetto, ma i gruppi consiliari né devono essere lasciati soli né devono isolarsi. La conseguenza sarebbe il fallimento.
Penso alle battaglie combattute dalla sinistra negli anni ’70 per il decentramento. Grazie all’impegno nell’aula consiliare del Comune e soprattutto nella società cagliaritana, portato avanti con i comitati di quartiere, fu possibile porre un argine alla cementificazione di talune aree. Una grande pagina di storia civile cittadina che impedì la lottizzazione della “Vigna” nel quartire Fonsarda. Poi con la destra ha ripreso a soffiare il vento della centralizzazione. Ed oggi le circoscrizioni cittadine sono prive di qualsiasi reale potere d’intervento.
Alla fine degli anni 80 la sinistra ha portato avanti il disegno per la creazione dell’area metropolitana. Anche a questo progetto non è stato consentito di andare avanti dal neo centralismo delle forze di governo della destra cagliaritana. Questo ha impedito di mettere insieme tutte le potenzialità dell’area urbana, e che avrebbe salvaguardato meglio i valori delle singole municipalità, che possono concorrere, ciascuna con la propria identità, a creare un ricco e variegato soggetto non solo amministrativo ma più complessivamente storico-culturale.
Cagliari non può marciare staccata dal territorio regionale. Di qui la necessità di un rinnovato rapporto col territorio isolano. La sinistra cagliaritana deve sentirsi più legata alla nostra storia autonomistica. E’ significativo che non vi sia una sola sezione di un partito della sinistra che si richiami alla storia sarda. Dobbiamo riconoscere che certi modi di procedere sono stati in passato espressione di un “internazionalismo di maniera”.
Dobbiamo comprendere che l’impegno della sinistra per il ruolo di Cagliari in questo inizio del nuovo secolo s’identifica con la battaglia per la funzione complessiva della Sardegna. Ed è battaglia che non può essere combattuta da gruppi ristretti, e meno ancora da singoli protagonisti della vita politica ed istituzionale.
Occorre ritrovare il senso della coralità dell’impegno politico e sociale. Dobbiamo nutrire la convinzione che la salvezza non viene da singole personalità. Naturalmente anche i partiti devono cambiare profondamente, non possono restare ancorati a vecchi modelli. Solo così sarà possibile arrestare il degrado nella vita istituzionale ed aprire nuove prospettive alla nostra città, alla nostra regione ed alla sinistra sarda.
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Cagliari malata di “sviluppite”
— Giorgio Todde, 16.4.2014
Da il manifesto
La città è cresciuta, negli ultimi sessant’anni, senza una filosofia del costruire. Amnesia del passato. Ha ricoperto di asfalto e cemento il suo contado agricolo e lo chiama hinterland. Deturpato la sua spiaggia abbagliante. Violato con bitume, palazzi e fabbriche gli stagni sconfinati a est e a ovest. E tutto questo lo chiama «sviluppo»
Cagliari, il quartiere Sant’Elia
Cagliari ha tremila anni. Qua, a novanta miglia dall’Africa, i fondatori trovarono un golfo sul palmo di un dio, promontori e colli di roccia bianca dove vivere era facile.
I nuragici ermetici. Poi i Fenici tracciano le rotte. Poi la città diventa Punica e poi romana per molti secoli. Poi i Vandali. Poi Bisanzio e i due evi medi. L’epoca dei Giudicati, le invasioni moresche, i Pisani e i Genovesi. Eleonora d’Arborea e il suo nuovo ordinamento, la Carta de Logu. Poi, a lungo, gli spagnoli e la decadenza. Il Settecento, i Savoia, il Regno di Sardegna la rivoluzione poi e la modernizzazione ottocentesca. Gli echi del Risorgimento.
Poi il XX secolo. Antonio Gramsci fa il suo liceo a Cagliari. La carneficina della Grande Guerra. Pastori e contadini, riuniti nella Brigata Sassari mandati a morire sul Carso e Emilio Lussu. Poi il fascismo, la seconda guerra, l’occupazione tedesca senza sangue, i bombardamenti anglo-americani del ‘43. La città inizia la sua ricostruzione e l’inurbamento è feroce. Nasce una nuova classe dirigente insieme ai nuovi brutti quartieri, anni 50 e 60, che la raffigurano. L’edilizia caccia via l’architettura. Impresari e commercianti disegnano la città sulla propria immagine e producono una generazione politica conformata, come un calco di gesso, alla loro visione materiale delle cose. I cosiddetti intellettuali si rifugiano in un mondo sognante vicino all’infanzia, lontano dalle azioni.
Ma qualcosa cambia negli ultimi decenni. Si smette di masticare i fiori di loto e la memoria ritorna nella testa di alcuni. La città si guarda, si riconosce. Si risveglia un’anima critica che comunica, osserva ed è interessata alle proprie origini. E ricava energia dal passato senza essere passatista. Guarda indietro per essere moderna perché quando uno sa da dove viene non ha bisogno di altro. E si oppone alla frenesia del fare a tutti i costi. Però l’altra anima, quella mercantile, resta forte.
La città è cresciuta, negli ultimi sessant’anni, senza una filosofia del costruire. Amnesia del passato. Ha ricoperto di asfalto e cemento il suo contado agricolo e lo chiama hinterland. Deturpato la sua spiaggia abbagliante. Violato con bitume, palazzi e fabbriche gli stagni sconfinati a est e a ovest. E tutto questo lo chiama «sviluppo» mentre dimostra che quando la politica si confonde con l’impresa ci si ammala di un morbo che si chiama sviluppite.
Cagliari è un’incubatrice di questa malattia. Però la storia è incancellabile. I luoghi resistono e mettono in movimento gli avvenimenti. I morti della necropoli di Tuvixeddu possiedono la forza dell’assoluto e ancora determinano conseguenze. La rocca medievale resiste ai tentativi di renderla «progredita» con scale mobili e ferraglia. Il promontorio sacro della Sella del Diavolo resterà intatto anche se la città famelica gli gira intorno. E l’acropoli di Castello resisterà ai nuovi assedianti che oggi vogliono un volgare garage dentro le sue mura.
Nel 1956 avevo cinque anni. Il braccio quasi lussato quando passeggiavo a traino delle mani inaccessibili di mio padre, il lungomare, il mercato al centro della città, le barche che tornavano tanto cariche che i pescatori stavano in piedi sui cumuli di pescato, allora i polpi sembravano piovre, le anguille scappavano dalle cesti nelle corsie del mercato, i pesci boccheggiavano. Era bello e sarebbe stato più bello ancora se fosse durato.
Ma i fatti si muovevano per necessità che non comprendevo. E non obbedivano a nessuno.
Ero troppo piccolo per capire cosa accadeva alla mia città, troppo basso per vedere le prime gru. Oppure, semplicemente, non guardavo perché, appeso alla mano di mio padre, osservavo solo le cose vicine oppure l’orizzonte marino, l’unico orizzonte per me.
So che i monti che vedevo a meridione erano il profilo dei monti del golfo, ma allora credevo che fosse l’Africa perché sentivo ripetere che la città più vicina alla mia era Tunisi. Poche ore di traversata.
Dalle mie rive, certo, non si vedeva l’Africa. Fu una delusione. Però continuai a crederci.
Un giorno mamma ci portò a vedere una nuova meraviglia che il maestro, ammirato dal progresso benché conservasse la sua casa come un salotto di Nonna Speranza, ci aveva già annunciato a scuola.
Il grattacielo.
Be’, era solo un brutto palazzo di dodici piani. Ma era il nuovo presente e tutti volevano solo presente e futuro.
Mai visto dal vero un palazzo così alto. Non fu stupore quello che provai vedendo quel lungo parallelepipedo grigio con decine e decine di finestre funerarie. Ancora oggi ricordo la sensazione di perdita che provai e ricordo che non compresi, ero troppo bambino, quel sentimento.
Quella costruzione infantilmente chiamata grattacielo, che ancora esiste, ha segnato la nascita in città dell’eternamente brutto. Sì, quel palazzo era brutto dalla nascita, talmente brutto che diventò proverbiale.
Però il brutto è epidemico e quando inizia si moltiplica con enigmatica testardaggine. Non lo fermi più. Deve, si vede, necessariamente trascorrere e concludersi un’epoca.
Eppure tutti vedevano.
Fu un’amnesia di massa che non è mai cessata da allora. E chissà se riacquisteremo mai la memoria.
Ma, l’ho detto, tutti volevano abbandonare il passato, anche quello buono.
Mia nonna, mentre passeggiavo e giocavo in un terrapieno da dove si vedeva la città in basso, mi disse un giorno che cominciava a esserci troppo cemento e che tutti questi nuovi arrivati dal contado — così chiamava gli inurbati che arrivavano da ogni parte dell’isola — stavano rendendo deforme la città. Che lei era comunista, ma questo non le impediva di capire che c’erano persone rese feroci proprio dall’arrivo in città e che avevano l’urgenza di far vedere chi erano. Che costruire un muro, una casa, un palazzo era il modo più facile di far vedere quello che si vale. E che un ignorante non sa mai di essere ignorante.
Appena tirano su un muro si fanno chiamare cavalieri e commendatori, ripeteva.
D’altronde il cemento aveva reso facile e possibile a tutti l’azione di costruire. L’intera nazione ribolliva di cemento, ma io non lo sapevo. E neppure nonna. Però osservava la sua città.
Lei vedeva la bruttezza del cemento, capiva che non si può mettere insieme cemento e pietra perché invecchiano in modo diverso, che la pietra si smussa e che il cemento faceva solo angoli.
Il cemento è un materiale che non sa invecchiare. La pietra, invece, è già vecchia, esiste da milioni di anni. Il cemento costringe chi lo usa a disegnare forme squallide.
Era squallido anche il bar aperto al piano terra nel «grattacielo», cattive le brioche, il caffè puzzava di bruciato e un moscone giaceva a pancia all’insù, mummificato per sempre in un angolo della vetrina pretenziosa.
Dentro quel palazzone c’erano però alcuni segnali importanti del presente che seduceva la comunità e la convinceva che il passato era vergognoso.
Però è vero che nella mia città una luce che non finiva neppure la notte e un sole felice anche d’inverno mi facevano sentire fortunato e lontano da ogni pericolo.
Traslocammo nel 1962 in una nuova casa.
E tutto mutò.
La nostalgia è un sentimento indispensabile, ma deve essere organizzato. Sennò si soffre. Oltretutto distorce, nelle sua forma malata, la realtà, i ricordi e l’interpretazione del presente.
Traslocammo, dicevo, che avevo dodici anni. Una casa luminosa, moderna, con due bagni, con davanzali, una portineria, l’ascensore e vicina all’orto botanico.
Quel quartiere era il confine della città storica, però mi sembrava un salto nel futuro. E ogni volta che passavamo vicino alla vecchia casa trascinavo la mano che mi conduceva per entrare dentro il portone. Come quei cani che tirano quando sono vicini alla casa del padrone morto.
Il trasloco cambiò i giorni e le ore della famiglia, cambiò perfino l’espressione dei genitori, il linguaggio, i vestiti, le abitudini a tavola, la pulizia domestica e perfino l’igiene del corpo, gli odori e la memoria degli odori. Il trasloco è l’allegoria del cambiamento inevitabile, ma non necessario.
Con il camion carico di mobili apparve la differenza tra presente e passato, tra una fine e un inizio.
Babbo aveva battuto a macchina il suo nome su un foglio, ritagliato la striscia di carta e l’aveva infilato nella fessura del nuovo campanello. Poi aveva letto a voce alta il proprio nome e schiacciato il pulsante. Quel trillo era il segnale della città nuova.
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Peppino Spanu: Il Largo ai tempi del tram, 2010