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Il fallimento dell’industria petrolchimica entra nella poesia sarda

arasole 2bisdi Francesco Casula
Dopo aver popolato interi studi e saggi economici-sociali, storico-politici e persino etno-antropologici il fallimento dell’industrializzazione petrolchimica in Sardegna è entrato prepotentemente anche nella letteratura e poesia sarda. Il più noto scrittore che ha preso a roncolate quell’ipotesi di sviluppo, che doveva creare lavoro e prosperità per la nostra Isola, è stato sicuramente Francesco Masala.
Nelle sue poesie come nei suoi romanzi. Canta in Innu nou contra a sos feudatarios (A sa manera de F. I. Mannu): ”Trabagliade, trabagliade/petrochimicos operajos/pro su pane tribulade/cun su ‘inari ‘e sa Rinaschida/ingrassan sos de Milanu/e a bois lassan su catramu./Trabagliade, trabagliade,/in sa chejas de petroliu/de Sarrok a Portoturre:/sa cadena de trabagliu/cun sa matta mesu piena/est trabagliu de cadena”.
Ma è soprattutto nel romanzo Il dio petrolio, tradotto in ungherese e in francese (con il titolo Le curè de Sarrok) e ambientato proprio a Sarrok (Cagliari), città simbolo dell’industria petrolchimica (de s’ozu de pedra: dell’olio di pietra), che Masala condurrà la critica più feroce e serrata a quel tipo di industria che avvelenerà e devasterà alcuni fra gli angoli più suggestivi della Sardegna, sconvolgendo anche a livello antropologico le popolazioni.
Personaggio emblematico è un sacerdote di un villaggio contadino (Arasolè) che viene trasferito nel nuovo polo di sviluppo industriale dove subisce l’inerrestabile inquinamento etnico, etico e religioso.
Il prete, Don Adamo, nonostante la chiesa nuova e il campanile nuovo, si sente nella sua chiesa come in una cattedrale nel deserto, a dispetto di ecclesia che vuol dire riunione, adunanza, gente riunita intorno al proprio parroco.
In essa vive in perfetta solitudine, contro natura: di qui i narcisismi, le immagini, le invenzioni di una donna: una giovane donna senza volto, simulacro mentale, feticcio sessuale, nelle cui ampie e gonfie mammelle immerge il suo volto fino a fargli mancare il respiro. In questo modo il prete pensa di vincere la sua desolata solitudine e non riceve aiuto né dalla fede, né dalla speranza, né dalla carità.
Ad Arasolè almeno era meno solo. La sua vita era strettamente legata a quella degli altri e si sentiva mezzo di comunicazione e messaggio in quanto i fatti della vita religiosa e della liturgia coincidevano con quelli della vita quotidiana, i cicli dell’uomo, della famiglia, della stagione.
E poi i pastori di Arasolè avevano ancora bisogno di Dio, perciò pregavano per l’acqua e il sole, il caldo e il freddo, la luce e il buio… gli operai di Sarrok invece non hanno più bisogno di Dio… Ormai c’è Lui… Se c’è buio, Lui il petrolio fa luce. Se c’è freddo, Lui il petrolio aziona i termosifoni. Se c’è caldo avvia i condizionatori d’aria, se l’acqua non viene dal cielo, Lui la cava dal mare col dissalatore…
Un altro grande romanziere e poeta sardo, Benevenuto Lobina – di cui ricordo soprattutto il suo capolavoro bilingue, in due volumi, Po cantu Biddanoa – dedica alla industrializzazione petrolchimica e ai suoi artefici una fulminante poesia, Cuaddeddu Cuaddeddu. In cui immagina che un suo nonno, richiamato in vita da un terribile puzzo di sostanze chimiche decidesse di saltare a cavallo per andare a Cagliari a fare giustizia di tutti coloro che avevano favorito quello scempio economico e umano: Su chi primu appa a cassai/cun sa bella cambarada,/cuaddeddu, è su chi nada/ca ad donau a traballai/a su popullu famiu/in Sarroccu e in Portuturri/e chi si pònidi a curri/faid mort’ ’e pibizziu.
Sdegnato, ricorda poi le devastazioni ambientali che hanno causato con quel tipo di sviluppo: No a’ biu, cuaddeddu/cantu montis abruxaus,/cantu spina in is cungiaus/a infora de Casteddu?/Anti venas i arrius/alluau tottu impari/alluau anti su mari/e is tanas e is nius.
Oltre a quelle umane e sociali: Bidda’ mes’abbandonadas/a i’ beccius mesu bius/a su prant’ ’e is pippius/a pobiddas annugiadas/Oh, sa mellu gioventudi/sprazzinada in mesi mundu/scarescendu ballu tundu/scarescendu su chi fudi.
Sdegnato, con ironia e sarcasmo sferzante e financo con disprezzo individua e descrive i politici locali, ascari e mediatori del colonialismo italiano: Ddusu bisi: allepuccius/a ingiri’ ’e sa mesa/faccis prena’ de malesa/omineddus abramius./Ma appenas a bessiri/nd’ant ’e s’enna ’e s’apposentu/donniunu ad essi tentu/e tandu eus a arriri…
Ascari e mediatori, insomma canes de istergiu ma di poco peso. Chi decide veramente est attesu: i ddi nau ca cussa genti/pinnigada in su corrazzu/non cumanda d’unu cazzu/funti conca’ de mollenti./Chi cumandada est’attesu/custus funti srebidoris/mancai sianta dottoris/funti genti senz ’e pesu.
Difficile non convenire, fotografa infatti una realtà di ieri ma anche di oggi: l’Autonomia come semplice simulacro.
Un altro poeta che, con dolore e sdegno, canta il fallimento petrolchimico, è Pinuccio Canu. Meno noto di Masala e Lobina è valente poeta in limba con due belle opere: Sa Rujada (2001), un racconto autobiografico in ottave e Contos chena tempus (2002) una silloge di racconti favolistici.
E’ nella poesia s’Eredidade di Ottana che denuncia la discrasia fra promesse e realtà: bos fattat bonu proe, malaittos/ca m’azis furriadu a remitanu/No fiant, tzertu, custos sos appiattos/da chi lassei tazos e cabbanu!
Infatti, dopo i primi anni di relativa sicurezza nel posto di lavoro, pur in un ambiente, fiagosu (malsano): Ponìa in su traballu med’afficcu/pro cant’in cussu logu fiagosu./Fattende non mi fia tzertu riccu/ma siguresa aìa e meda gosu; arriva la Cassa integrazione: ma pagu tempus sendenche coladu/su fumuderra torrat a cadone/Su sambene in su corpus s’est gheladu/ca postu m’ant in “cass’integrascione”.
Che dura anni e anni: Degh’annos m’ant lassadu pende pende/e pustis imboladu a muntonarzu./Su rimpiantu como m’est bocchende/ca non so prus nemmancu un’ervegarzu.
Si ritrova così senza il lavoro di operaio e senza le pecore. Senza identità. Costretto a bandidare. Di qui l’ultimo malaittos, inviato ai responsabili del suo dramma. Un dramma dell’intera Sardegna.
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Arasolè
Questo articolo è pubblicato anche su “Il Manifesto sardo”