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Campagna elettorale. I partiti e L’Europa.
di Roberta Carlini, su Rocca.
Non è facile scavare nel merito delle proposte di una campagna elettorale di rara bruttezza, molto al di sotto del livello dell’alfabetizzazione dell’elettore medio che già – si sa, purtroppo – non è alto. Ma volendosi cimentare nell’impresa, è necessario partire dall’Europa, o meglio dai patti siglati con l’Unione europea che impegnano il nostro paese, condizionano la sua politica economica e catalizzano da anni, e soprattutto dall’inizio della crisi economica, lo scontento dei cittadini. Non solo in Italia, e non solo nei Paesi che sono allo stesso tempo principali imputati e vittime della Commissione europea: l’ondata di protesta e di agitata ricerca di vie d’uscita è stata anzi finora più forte nei Paesi forti, dalla Gran Bretagna alla Germania alla Francia, che in quelli deboli come la Spagna, il Portogallo, l’Italia e la Grecia.
L’Unione europea si è spaventata per Tsipras, e lo ha punito e costretto a tradire il patto con i suoi elettori; ma è stata squassata più che dagli indisciplinati greci dai sudditi di sua maestà britannica che hanno votato a favore della Brexit. E l’ondata di partiti nazionalisti, xenofobi e razzisti ha tracimato nel cuore politico europeo, a partire da Austria, Germania e Francia; per non parlare del blocco nero di Ungheria, Repubblica Ceca, Polonia.
non confondere le acque
Dunque, l’Unione europea attraverso gli uomini-chiave delle sue istituzioni fa bene a preoccuparsi se un candidato alla guida di una delle regioni più ricche d’Europa, la Lombardia, fa dichiarazioni apertamente razziste; ma sa bene che il fenomeno non è isolato, semmai accomuna la locomotiva della produzione italiana ad altre regioni opulente del vecchio continente. Questo non è un motivo per abbassare la guardia, o fare spallucce; ma dovrebbe consigliare ai dirigenti europei di essere molto attenti a non mischiare i piani: per esempio, a non accomunare nello stesso discorso e nello stesso giorno gli attentati ai diritti e principi fondamentali sui quali l’Europa è costruita alle questioni di politica economica, le dichiarazioni sulla razza e quelle sul bilancio pubblico.
Anche perché, così facendo, si alimenta ancora di più il populismo che si vuole combattere: Pierre Moscovici, commissario Ue agli affari economici, ha stigmatizzato come «scandalose» le dichiarazioni di Fontana, candidato del centrodestra alla regione Lombardia, sulla difesa della razza bianca e allo stesso tempo ha duramente criticato chi, come il candidato pentastellato Luigi Di Maio propone di fare nuovo debito pubblico, anche superando il tetto del 3% nel rapporto tra deficit e Pil. Dando a tutti costoro la possibilità di gridare alla lesa maestà e di confondere le acque. Gli elettori italiani devono in primo luogo decidere se votare qualcuno che ha «la difesa della razza bianca» tra i suoi valori di riferimento; e poi, chiarite le posizioni sui princìpi fondamentali, valutare gli schiersmenti sulle proposte economiche, sull’azione di governo concreta che si vorrà sviluppare.
la gara a scaricare l’Europa
Andando nel merito di quest’ultima: non I Cinque stelle, che hanno sempre detto che dovrà decidere il popolo, non insistono neanche più sul referendum. Anche perché sanno che non è realizzabile, visto che la nostra Costituzione non consente referendum su materie regolate da trattati internazionali. E allora? La gara tra gli schieramenti è a scaricare l’Europa. Prima tutti facevano mostra di un alto tasso di europeismo, adesso c’è solo il piccolo partito radicale che ha l’Europa – con il segno più: + Europa – nel suo simbolo e nel suo programma.
Nel centrodestra, Berlusconi tiene basso il discorso e fa mostra di moderatismo, mentre i suoi alleati di Lega e Fratelli d’Italia incolpano Bruxelles di tutti i mali, a partire dall’immigrazione.
Il M5S, come s’è detto, ha sostituito la parola d’ordine del referendum sull’euro con quella dello sfondamento del 3%, ossia della regola di bilancio imposta più di un quarto di secolo fa a Maastricht.
Il Pd è caratterizzato da un europeismo riluttante: da un lato rivendica la sua fedeltà all’Unione e i buoni rapporti con Bruxelles (e Francoforte, sede della Bce) di uomini come Gentiloni e Padoan; dall’altro Renzi, populista dall’interno del potere, tiene bassissima la bandiera europea (che aveva eliminato dallo sfondo di palazzo Chigi nella campagna elettorale per il referendum costituzionale), e rivendica le passate sfide, la richiesta di flessibilità sui conti, i pugni sul tavolo. E anche alla sua sinistra, Liberi e Uguali chiede una profonda riforma dell’Europa – non una fuoriuscita unilaterale – ma si guarda bene dal fare di un europeismo federalista la sua cifra e bandiera.
mutamento dello scenario europeo
Si capisce bene il perché di tutto ciò: si corre per vincere, e il «brand» dell’Europa è al momento perdente. Ma qualsiasi governo si insedierà alla guida del Paese dopo il 4 marzo, dovrà fare i conti con una procedura d’infrazione per deficit eccessivo rinviata dallo scorso autunno alla primavera; con la compatibilità dei suoi atti con le regole firmate a livello internazionale; con le stabilità o instabilità dei mercati finanziari ai quali si va a chiedere di sottoscrivere debito pubblico, e con le mosse di politica monetaria della Bce.
Non solo. Dovrà fare i conti con il mutamento dello scenario europeo, innescato dalla possibile scelta di un governo di grande coalizione in Germania nel cui programma Spd e Cdu-Csu hanno messo al primo posto la riforma della governance europea.
A guardare sotto gli slogan e dentro i programmi, c’è poca traccia di tutto ciò. Le promesse elettorali, dal reddito di cittadinanza o dignità dei Cinque stelle e di Berlusconi, alla costosissima flat tax, alle mance a destra e a manca, se realizzate porterebbero allo sforamento dei tetti imposti dalla Commissione. Ma attenzione:
anche se non esistesse l’Europa né il suo patto di stabilità – che ha aggiornato gli originari parametri di Maastricht, imponendo non solo i rispetto di quei tetti ma anche le regole per il percorso di rientro dagli squilibri – la nostra Costituzione, prima ancora che il buon senso contabile, impone di mettere delle coperture a fronte di ogni spesa.
fare nuovo deficit non è una bestemmia
È legittimo, anzi doveroso, avanzare proposte per stimolare l’economia, migliorare il welfare state, coprire i bisogni delle persone in difficoltà; ma bisogna dire con quali risorse pubbliche pagare tutto ciò. Fare nuovo deficit non è una bestemmia né una violazione di leggi naturali, ma bisogna essere sicuri del fatto che queste spese (o minori entrate) porteranno benefici all’economia e il debito rientrerà in futuro, invece che accelerare.
Su questo, l’esperienza del governo Renzi dovrebbe aver insegnato qualcosa. Nonostante la comoda vulgata dell’Europa cattiva e arcigna, molto extra-deficit è stato concesso all’Italia, sotto il nome di “flessibilità”, ed è stato usato per togliere la tassa sulla prima casa per tutti, anche i più abbienti, e per incentivare le assunzioni stabili, senza però, in quest’ultimo caso, riuscire nell’obiettivo. A volte si ha l’impressione che l’Europa sia un perfetto alibi per trovare un cattivo di turno su cui scaricare il malcontento, evitando di prendersi la responsabilità di scelte che possono essere anche sbagliate: nel qual caso, sarebbe bene fermarsi a riflettere e cambiare indirizzo. Per esempio, mirando le spese in deficit agli investimenti, in infrastrutture fisiche o sociali, capaci di generare nuovo reddito e dunque nuove entrate anche per lo Stato.
Se si presentassero con proposte simili, e non con demagogia antieuropea e mance per gli elettori, i partiti in campo potrebbero sfidare un establishment europeo che nelle principali capitali ammette le sue difficoltà; e partecipare al processo di riforma che – forse – sarà innestato dal nuovo governo tedesco, e da un rinnovato asse con la Francia di Macron. A meno di non lasciare, come nel passato, che la guida franco-tedesca decida per noi, che mentre a parole facciamo finta di insultarli e sfidarli nei fatti ci accodiamo, e speriamo di ricevere qualche briciola nel traino.
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Per connessione: da Aladinews del 5 gennaio 2018
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di Umberto Allegretti su Rocca
Un bilancio dell’anno appena trascorso per quanto riguarda l’Unione Europea non può esser pieno di molte ombre e di qualche luce, ombre e luci talora fra loro commiste. Le questioni si affollano e qui sceglieremo di accennare solo ad alcune che riteniamo particolarmente importanti.
La tela di fondo di tali questioni è data dal problema delle istituzioni europee come tali, che hanno certamente bisogno di pro- fonde ristrutturazioni. Un’Europa «sociale», un completamento dell’Unione sui vari aspetti del problema economico, una sua incisività sulla politica mondiale, rappresentano i settori, o alcuni dei settori, che avrebbero necessità, nell’attuale quadro mondiale, di una struttura dell’Unione più democratica, più efficace, meno «sovranista» più capace di affrontare i problemi gravissimi posti dalla situazione del pianeta in un’età di squilibrio e di guerra. Il problema istituzionale è affrontabile, come è stato notato, su due piani: con una migliore applicazione delle possibilità che già il Trattato di Lisbona prevede, e con una revisione di aspetti importanti del Trattato.
le cose da cambiare
Nella prima direzione, oggetto di importanti proposte nel discorso sullo stato dell’Unione pronunciato il 13 settembre davanti al Parlamento europeo dal Presidente della Commissione Juncker – la cui azione complessiva appare tuttora, salvo errore, rispetto ad altri organi europei quella più incisiva sulle proposte e i comportamenti dell’Unione –, si dovrebbe pensare di attuare una serie di passaggi dell’Unione a politiche più efficaci previste dal Trattato ma finora scartate. Per esempio, sarebbe possibile già ora applicare le possibilità di cosiddette «passerelle», che consentirebbero di passare in seno al Consiglio dalla necessità dell’unanimità degli Stati al voto a maggioranza qualificata, come nei settori della politica estera e delle politiche fiscali. Come pure di passare, per quanto riguarda il ruolo del Parlamento, dalla procedura di semplice parere a quella codecisionale.
problemi istituzionali
Altre variazioni rispetto alle pratiche attuali richiederebbero peraltro – come notato in un articolo dell’autorevole Paolo Ponzano, già alto funzionario europeo e ora, oltre a una forte esperienza all’Istituto Universitario Europeo di Fiesole, docente al Collegio europeo di Parma – elementi di modifica dei Trattati e sono perciò più difficili da attuare. Anche se bisogna tenere conto della forte azione propulsiva del Presidente francese Macron, che si è inoltrato nei suoi discorsi nella delineazione di solidi irrobustimenti del lato in qualche misura «federalista» rispetto a quello «sovranista» che ora prevale in seno all’Unione, ma il cui seguito avrebbe bisogno dell’intesa prima di tutto con una Germania attualmente in una per lei inconsueta difficoltà di
governabilità.
oltre le divisioni socio-economiche
È sempre più chiaro che esistono attualmente in seno all’Unione differenze di linea considerevoli tra gli Stati membri favorevoli ad avanzamenti o suscettibili di divenirlo e altri, tra cui quelli del Nord-Europa ma soprattutto quelli dell’area ex-socialista. Se questo spinge alcuni ad auspicare una netta delimitazione nel futuro fra due Europe, altri, forse a ragione, preferiscono in nome di un’unificazione del Continente decisa a cavallo del secolo XX e del XXI, tollerare le attuali differenze e lavorare pazientemente per superare le divisioni. Purché lo si faccia con la decisione necessaria, per esempio non esitando ulteriormente (alcuni segni sembrano ora esserci) ad adottare sanzioni previste dal Trattato nei confronti di quei paesi – Ungheria, gli altri paesi di Visegrad e ora in maniera particolarmente preoccupante la più vasta Polonia – che mostrano di alterare al loro interno, ma con effetti debordanti i loro confini, i fondamentali principi dello stato di diritto, come l’indipendenza della magistratura e della giurisdizione costituzionale e che rifiutano di accettare la loro pur tenue porzione di accoglienza dei migranti.
le diverse politiche sociali e fiscali
Non si tratta però di meri problemi «istituzionali». Bisogna che ci si decida ad avanzare – in questo favoriti dall’uscita dall’Unione, ancora peraltro a mezza strada, della Gran Bretagna – verso politiche sociali valide per tutta l’Unione e verso politiche fiscali comuni, essendo ormai più che palese l’impossibilità e l’ingiustizia di fiscalità così diverse tra gli Stati membri, quali quelle che fra l’altro hanno permesso finora – anche qui qualche segno positivo si sta aprendo – all’Irlanda e allo stesso Lussemburgo già governato da Juncker di offrire possibilità di elusione delle tasse a grandi multinazionali, come quelle agenti nel campo informatico o alla Ryanair o a evasori singoli o societari dei nostri stessi paesi. Potrebbe la ripetuta proposta di un Ministro delle finanze europeo quanto meno per la zona euro, fornire uno strumento per andare in una direzione di contenimento di queste disparità?
Europa Africa
L’autorevolezza della politica dell’Unione verso l’esterno, finora scarsissimamente esistente come politica unitaria, dipende anche dalla capacità dell’Unione di governare le sue tensioni interne. Un esempio clamoroso e tra i più preoccupanti è quello della politica verso il continente africano. Che un compito di aiuto all’Africa da parte dell’Europa sia doveroso e opportuno per la stessa Europa è assolutamente evidente. Ma si sono fatti in questo anno dei veri passi avanti in questa direzione? Da tempo si parla di un cosiddetto Piano Marshall per l’Africa. Ma l’aiuto finanziario ai paesi della fame come quelli del Sahel, che poi generano le massicce migrazioni cui assistiamo ormai da anni, ha veramente decollato? I poco più di tre miliardi di euro promessi e, per quel che si può sapere, non ancora erogati a pro’ di questi paesi – e che certo hanno bisogno di garanzie di corretta spesa, per la quale si son fatte peraltro buone proposte di vigilanza da parte di organismi Onu – non sono certo una misura sufficiente. Meno ancora lo è il puntare primariamente sull’azione contro il fattore, preoccupante ma derivato, di lotta contro il terrorismo che può alimentarsi in quei paesi, preoccupazione che ci pare abbia malamente dominato il recente vertice Europa-Africa di Abidjan. E come vantarsi, in questa situazione, di esser riusciti a contenere il numero degli sbarchi in Italia – a parte lo scandalo dei «campi» in Libia – come fanno il pur ben disposto governo italiano attuale e il suo ministro? In sintesi, un’Europa della solidarietà e della pace non può limitarsi ai problemi interni dell’Unione, ma deve sboccare in una capacità di azione internazionale che avrebbe in Africa, oltre che in Medio Oriente, il suo campo di prova più necessario.
unione monetaria
In presenza di questi e altri problemi, e in attesa fra l’altro della conclusione delle trattative per un nuovo governo tedesco, la Commissione ha elaborato un pacchetto di proposte sul rafforzamento dell’unione monetaria nel quale ha cercato di accontentare un po’ tutti: inserzione del Fiscal Compact nel diritto europeo ma con la fles- sibilità già concessa all’Italia e ad altri paesi, completamento dell’unione bancaria ma con la riduzione dei rischi nei paesi dove le banche hanno troppi titoli di Stato nel loro portafoglio, creazione di fondi di stabilizzazione macro-economica ma con impegni paralleli di convergenza, e altro. Queste, per ora, le prospettive per il nuovo anno, piene anch’esse di luci e di ombre.
Umberto Allegretti
UNIONE EUROPEA
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