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DIBATTITO. Governo. L’Agenda Salvini
Non vedo l’ora di cominciare a lavorare, era il mantra ripetuto dal leader della Lega Matteo Salvini per tutta la campagna elettorale e poi nella lunghissima fase di incubazione del governo.
E da quando questo si è insediato, pare che l’ora finalmente sia arrivata, per il triplo lavoro del ministro dell’interno, vice-premier e segretario della Lega. Protagonista di un attivismo frenetico, che fa pensare che a lavorare lassù al governo ci sia solo lui: passa da un comizio all’altro, complici gli appuntamenti elettorali continui; da un’assemblea di categoria all’altra, prediligendo i commercianti; da una trasmissione tv all’altra, dove quasi sempre gli viene garantito lo status di ospite d’eccezione, senza contraddittorio; da una vittima all’altra, ovviamente dando solidarietà solo a quelle colpite dai nemici immigrati; e soprattutto da un social all’altro, continuando quella presenza pervasiva nella rete che ha caratterizzato il successo della sua campagna elettorale.
Ha cominciato finalmente a lavorare? A vedere l’elenco degli impegni, si potrebbe rispondere che ha continuato a fare campagna elettorale, frantumando lo stile istituzionale del ministro dell’Interno in diverse occasioni, sia quando ha parlato dalla sede del suo partito con le bandiere della Lega alle spalle, che quando ha aperto casi internazionali dalla sede del Viminale e non della Farnesina. Con tutto ciò Salvini è riuscito a fare anche al governo quello che gli ha consentito di vincere le elezioni, portando la Lega da percentuali irrisorie al 17,5%: ha imposto la sua agenda. Ed è dentro quest’agenda che si deve guardare, per cercare di capire perché, e cosa ci aspetta.
Cominciamo da un numero: 5.634.577. Sono i voti conquistati dalla Lega alle politiche. Sono tanti, ma sono pur sempre meno di un quinto del totale che si è espresso. Non sono certo la maggioranza degli italiani, e sono poco più della metà di quelli avuti dal suo alleato di governo, il Movimento Cinque Stelle. Eppure quest’ultimo al governo balbetta, segue, rincorre, piazza uomini di bassa notorietà e assoluta inesperienza, che – come a Roma, travolta dagli scandali – devono affidarsi al vecchio sottobosco dell’amministrazione e dei faccendieri per risolvere ogni questione spicciola o grande che sia. L’ascesa della Lega pare irresistibile: il reddito di cittadinanza, bandiera pentastellata, quasi è sparito dal dibattito, mentre si parla solo di flat tax, condono, abolizione del contante. Tutte misure di politica economica che trovano gli applausi di un’Italia un po’ vecchia, quella delle piccole imprese, professionisti e lavoratori autonomi che si sentono schiacciati dal peso dello Stato e del fisco, e in un alleggerimento sperano – sia per vie legali che illegali – di sopravvivere e riprendersi. La bandiera più grande ed evidente, quella della flat tax, è solo agitata, non si sa quando si tradurrà in pratica: qualcuno dice subito, altri dicono che si procederà per gradi e ci si arriverà solo nel 2020. Certo è che la più grande redistribuzione fiscale della storia – dai poveri ai ricchi, dato che la flat tax avvantaggerebbe in misura più che proporzionale chi guadagna di più – costa moltissimo, e non si sa ancora come il governo pensa di trovare le relative risorse. Anzi, a ben vedere non c’è ancora neanche mezza idea di come trovare i soldi per coprire un’altra emergenza più stringente, ossia come evitare l’aumento dell’Iva che scatterà automaticamente, per il prossimo anno, in assenza di contromisure. Il ministro dell’Economia, il professor Giovanni Tria rimediato all’ultimo momento per sostituire l’ingombrante Paolo Savona, ha candidamente ammesso che deve ancora vedere i numeri. Strano, visto che di questa faccenda si parla e si sa da anni. Ma entro settembre una scelta andrà fatta. E molto probabilmente sarà un mix di entrate da condono e nuovo deficit, più qualche taglio (sulla carta) da spending review, a finanziare la cancellazione degli aumenti dell’Iva. Si aprirà allora un fronte delicato, con la presidenza della Repubblica e con l’Europa: le entrate da Iva sono strutturali, quelle da sanatoria fiscale sono una tantum, dunque non si potrebbe «coprire» una perdita di gettito destinata a durare nel tempo con un’entrata che dura solo un anno; mentre l’extra-deficit, come già fecero Renzi e Gentiloni, va contrattato con la Commissione Europea. Turbolenze in arrivo, insomma, ancor prima che si metta mano alla montagna della flat tax. Ed ecco allora che la turbopartenza di Salvini può servire ad alzare i toni e spostare il discorso sul terreno che per il leader della Lega è più consono e popolare: la difesa da un nemico esterno. Non a caso nel «governo del cambiamento» il leader leghista ha preteso per sé il Viminale: è sul terreno interno, sull’ideologia prima che sulla pratica dell’ordine pubblico, che vuole continuare la sua ascesa per egemonizzare del tutto la destra italiana, sbaragliando gli altri, e nel frattempo nascondere il fatto che tutti gli altri «cambiamenti» scritti nel programma e agitati in piazza sono irrealizzabili, pure promesse elettorali. È quello che è successo nella cinica gestione della vicenda della nave Aquarius, nella quale Matteo Salvini ha continuato a fare il capo dell’opposizione che urla nelle piazze invece che il ministro dell’Interno che gestisce e risolve i problemi. Dipingere un’invasione che non c’è; usare oltre 600 persone come ostaggi per lanciare e imporre una svolta politica e internazionale; giocare la battaglia della riforma delle regole europee urlando sui social invece che sedendo ai tavoli istituzionali; cercare alleanze con gli antieuropei (Ungheria) e risse con i fondatori dell’Europa (Francia); calpestare i diritti umani e i valori civili dopo aver agitato un vangelo e un rosario nelle piazze… L’elenco è lungo, ma più ancora che l’indignazione dovrebbe sollevare la domanda: perché tutto ciò non trova freni, né dall’opposizione né dai suoi stessi alleati di governo, che anzi si affrettano a seguire l’agenda Salvini?
Pd e M5s nell’irrilevanza
L’opposizione, apparentemente, non esiste. Usati come un taxi elettorale da cui poi scendere per andare al governo con gli ex nemici dei Cinque Stelle, gli alleati del centro-destra sono in rotta. I Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni stanno già a metà sul carro del vincitore, e la svolta di destra estrema impressa nei primi giorni del governo ne facilita il balzo. Forza Italia è in liquefazione, con il tramonto del padrone patriarca che, nonostante la riabilitazione giudiziaria, non pare sia destinato a un’ennesima rimonta, anche per motivi anagrafici. Dall’altro lato, si è tentati di non parlare del Pd per non infierire. Ha fatto notizia l’accorato discorso di Graziano Delrio alla Camera, nel giorno della fiducia al governo Conte. Ma dovrebbe far notizia il fatto che sia stato l’unico all’altezza della drammaticità del momento, mentre tutto il suo partito, dopo essere stato incomprensibilmente alla finestra nella fase delle trattative per il governo, ha ridacchiato, dileggiato, scherzato, e al massimo della sua espressione ha prodotto critiche del tipo: «vedremo se sono capaci di farlo». Mentre bisognerebbe mettere in campo tutte le forze possibili per impedire loro di fare quello che hanno promesso, e in effetti cominciato a fare, ai danni solo dei più deboli, nell’esordio del governo. Su questo, contano certo i rapporti di forza in parlamento. Ma il Pd ha pur sempre preso 6 milioni di voti, più della Lega. Perché si dissolve nell’irrilevanza? Perché è stato costruito per il governo ed è dunque inservibile se esce dalle stanze del potere? Perché Renzi non molla la presa? Perché si sta ancora leccando le ferite di una sconfitta – in ogni caso – superannunciata? Perché spera di avere tempo per preparare un astuto contrattacco?
Tutte queste spiegazioni possono essere vere. Ma ce n’è un’altra più generale: da che parte stare. Molte delle misure che adesso rivelano una destra ferocemente e compiutamente coerente hanno trovato incubazione dalle parti del centrosinistra. L’idea per cui basta ridurre le tasse, e tutto il resto seguirà. Il salvataggio in mare visto come fastidio e non come necessità. L’immigrazione raccontata come un’invasione. Persino la chiusura dei porti, vagheggiata a suo tempo dal ministro Minniti. Su tutti questi temi, non si vuole dire che «la sinistra» (o meglio il Pd) ha fatto come la destra. Né che non fosse giusto e politicamente intelligente capire le ragioni, e le paure anche irrazionali, di una larga parte dell’elettorato. Ma che non c’è una contro-proposta, un’altra idea radicata nei valori della solidarietà e dell’eguaglianza. In assenza di un’alternativa, concedere piccoli assaggi di vera destra non è servito a niente: meglio andare all’originale, e ai suoi detentori.
Lo stesso virus – l’assenza di un’idea portante, di una identità precisa: di una ideologia – colpisce anche la storia di successo dei Cinque Stelle, i cui 10 milioni di voti pesano pochissimo rispetto a quelli della Lega perché Di Maio & co non sanno come spenderli. Hanno ricevuto un enorme capitale, e già gli sta sfuggendo dalle mani. L’onestà, unica bandiera riconoscibile, oltre a essere una pre-condizione e non og- getto della politica, gli è anche miseramente caduta dalle mani nella vicenda romana. Il reddito di cittadinanza, da utopia per il mondo nuovo, è diventato un sussidio di disoccupazione solo un po’ più largo di quelli attuali, e forse comunque non si potrà fare. Cosa resta dell’enorme esperimento che ha portato una forza solo dieci anni fa inesistente a conquistare il potere? Forse se lo stanno chiedendo molti di coloro che, credendoci, li hanno eletti.
Roberta Carlini
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La disumanità come carta vincente
«Ero straniero e non mi avete accolto», ha detto l’altro ieri il cardinale Ravasi citando il Vangelo e denunciando la mancanza dell’umano nella politica. Se questo è vero – ed è tragicamente vero – ne viene di conseguenza che solo una nuova immersione della politica nell’umanità può rovesciare la terribile fase che stiamo attraversando. Solo un’affermazione senza reticenze e con orgoglio anche nel discorso pubblico di parole e valori quali bontà, solidarietà, integrazione, pietà, comunione può dipingerla di colori nuovi e liberarla da quelli cupi della paura e del respingimento dell’altro. Si tratta di rimettere in moto un processo di rieducazione che non è impossibile. Avere davanti ai propri occhi, e questa volta con assoluta chiarezza, una politica senza umanità può aiutare a costruirne una diversa.
di Ritanna Armeni
E’ possibile fare politica staccandola completamente dall’umanità? E’possibile agire – pensare di agire – per il benessere dei cittadini, per la loro sicurezza, muovendosi contro altri essere umani, che si trovano in una situazione di pericolo, forse di morte?
Questo interrogativo si pone sempre con l’arrivo dei barconi carichi d’immigrati nei porti italiani. Uomini e donne che hanno bisogno di aiuto ma che, con la loro presenza – molti sostengono –, intaccano benessere e sicurezza dei cittadini italiani. Quest’anno si pone con più forza e drammaticità che nel passato per un motivo molto semplice. Per la prima volta l’Italia ha un governo che fa dei respingimenti in mare l’asse portante della sua politica; per la prima volta il vero vincitore delle elezioni del 4 marzo, il capo della Lega Matteo Salvini, vuole dimostrare senza possibilità di equivoci all’Italia e all’Europa che dall’«invasione» dei diversi, dei neri, dei poveri ci si può difendere. Che un nuovo ordine può essere imposto. Che l’inumano può governare.
Per farlo ha bisogno di operare un rovesciamento culturale che fino a qualche tempo fa sembrava impossibile: rescindere ogni legame fra i sentimenti (solidarietà, pietà, fratellanza, istinto alla protezione dei deboli, benevolenza, compassione) e l’agire pubblico (le leggi, gli interventi, le disposizioni per l’ordine).
Per separare l’uomo e la donna dalla propria umanità occorre educarli all’indifferenza, liberarli da ogni empatia con i sofferenti, renderli prigionieri delle proprie ansie e paure, impedir loro di uscire dal ghetto delle proprie sofferenze per dare uno sguardo, almeno uno sguardo, a quelle altrui. L’abbiamo visto solo qualche giorno fa con l’Aquarius, la nave con 629 migranti che il governo italiano ha respinto e che è stata salvata solo grazie all’apertura dei porti spagnoli.
Le motivazioni dell’atto (e della sua disumanità) sono state tutte «politiche». Dare una lezione all’Europa che finora ha colpevolmente voluto ignorare la difficile situazione delle coste italiane e questo è di certo vero. Alcuni paesi europei per evitare l’invasione hanno eretto muri e militarizzato le frontiere. Poi – si è detto – occorre evitare che, insieme ai migranti, sbarchino, anche terroristi. Che dobbiamo riservare le poche risorse che ci sono agli italiani, aiutare prima i poveri di casa nostra. Ci sono i terremotati, i disoccupati. E, infine, che è impossibile condividere servizi sociali già insufficienti.
Le motivazioni della politica, come si vede, sono già esplosive. Se si calano nella difficile situazione economica e sociale del paese, se si condiscono con una buona dose di paura per il diverso, la deflagrazione è immediata.
L’Aquarius è solo l’ultimo dei casi in cui l’inumano diventa politico. Perché da tempo – come ha denunciato il politologo Marco Revelli – «senza quasi trovare resistenza, con la forza inerte dell’apparente normalità, la dimensione dell’inumano è entrata nel nostro orizzonte».
Esso – precisa ancora Revelli – «non è la mera dimensione ferina della natura contrapposta all’acculturata condizione umana. Non è il mostruoso che appare a prima vista estraneo all’uomo». L’inumano è il momento in cui l’altro diventa cosa «indifferente, sacrificabile o semplicemente ignorabile». Il momento in cui la sua vita «non è oggetto primario, ma oggetto di calcolo». Quel che sta avvenendo nelle acque del Mediterraneo e quello che è prevedibile accada nei prossimi mesi, è esattamente questo. La vita degli uomini e delle donne è oggetto di calcolo economico e politico. È con la minaccia di morte di centinaia di persone che si pongono condizioni all’Europa. Sono i disperati del mare che garantiscono la linea della fermezza. Sono loro i testimoni che i partiti al governo fanno il bene degli italiani salvaguardano la loro sicurezza e il loro benessere.
Non sarebbe onesto né veritiero dire che questo processo di disumanizzazione della politica si manifesta ora per la prima volta. Solo qualche mese fa un altro governo – questa volta di centro sinistra – e un altro ministro degli interni – di sinistra – con un accordo con le tribù libiche e un attacco alle organizzazioni umanitarie che agivano nel Mediterraneo, ha bloccato in campi della Libia alla mercé di miliziani, torturatori e stupratori, migliaia di uomini e di donne che avevano la colpa di tentare di arrivare sulle nostre coste nella speranza di un futuro migliore. Lo racconta con crudezza un bel film
che forse in pochi hanno visto: «L’ordine delle cose» di Andrea Segre. Anche in questo caso la vita di molti è entrata nel calcolo.
Ma quell’azione ampiamente «disumana» e largamente condivisa dai mass media era coperta, almeno, dall’ipocrita affermazione di voler difendere gli immigrati dallo sfruttamento degli scafisti, dalle carrette della morte che offrivano false speranze. Oggi invece l’inumano non usa infingimenti, non cerca pretesti, non dà motivazioni che coprano la realtà. Anzi la politica se ne mostra orgogliosa, fa della disumanità la sua carta vincente.
«Ero straniero e non mi avete accolto», ha detto l’altro ieri il cardinale Ravasi citando il Vangelo e denunciando la mancanza dell’umano nella politica. Se questo è vero – ed è tragicamente vero – ne viene di conseguenza che solo una nuova immersione della politica nell’umanità può rovesciare la terribile fase che stiamo attraversando. Solo un’affermazione senza reticenze e con orgoglio anche nel discorso pubblico di parole e valori quali bontà, solidarietà, integrazione, pietà, comunione può dipingerla di colori nuovi e liberarla da quelli cupi della paura e del respingimento dell’altro. Si tratta di rimettere in moto un processo di rieducazione che non è impossibile. Avere davanti ai propri occhi, e questa volta con assoluta chiarezza, una politica senza umanità può aiutare a costruirne una diversa.
Ritanna Armeni
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