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Dibattito politico? No, grazie!

fiore volatilesedia di Vannitoladi Vanni Tola
L’interesse del cittadino medio per il dibattito politico, pur in presenza di un’importante tornata elettorale, non va per la maggiore. Direi che non interessa proprio nessuno, forse pochi appassionati nostalgici. Difficile dare torto a quei milioni di italiani che, anche questa volta, esprimeranno con l’astensione la propria abissale distanza, il disinteresse e il disincanto per le scaramucce ideologiche in atto con al centro l’uomo solo al comando, Renzi e i suoi competitor. I più ottimisti sognano che a cambiare le cose nel paese possa essere l’influenza di accadimenti che si realizzano in altri paesi e allora eccoli li, tutti pronti a sperare, ad attendere che il miracolo Tsipras, la crescita di Podemos, la scelta laica dell’Irlanda riguardante i matrimoni gay, possano produrre un qualche benefico “effetto induzione” anche qui da noi pur in assenza di reali movimenti alternativi e di leader politici capaci di promuoverli e orientarli. La storia recente ci insegna che ciò finora non è accaduto e probabilmente non accadrà mai per sola induzione geografica. Per tutti gli altri, per coloro che ancora ritengono sia utile l’analisi politica, lo studio serio degli accadimenti politici come chiave di lettura e comprensione delle vicende in atto, suggerisco la partecipazione ideale a un importante dibattito in corso fra alcuni intellettuali storici della politica italiana. Un dibattito avviato dalla Fondazione Pintor Onlus con articoli di Roberto Musacchio, Valentino Parlato e Alfonso Gianni (che pubblichiamo). Buona lettura.

L’INTELLIGENZA DELLA TRISTEZZA
 di Alfonso Gianni – 28 maggio 2015
 
Vorrei inserirmi nella discussione che qui si è aperta per merito degli articoli pubblicati da Roberto Musacchio e da Valentino Parlato. Non servirà certo – è bene avvertire subito l’eventuale lettore – a squarciare quel velo di tristezza che avvolge entrambi gli scritti citati. Non posso dire di essere animato da particolari motivi di ottimismo. Proprio per questo i due articoli mi sono parsi da subito meritevoli di particolare attenzione. Perché sono privi di retorica e finalmente esprimono uno stato d’animo diffuso autentico, che, a sua volta, diventa un elemento politico non trascurabile nella nostra situazione.
Siamo alla vigilia di elezioni regionali certamente significative. Si voterà tra una manciata di giorni in sette regioni e tutta l’attenzione indotta dai mass-media è concentrata sul risultato finale, espresso in termini tennistici: sarà un 6 a 1, oppure un 4 a 3 e via dicendo. Nessuno sembra preoccuparsi e tenere in considerazione l’elemento che in ogni caso sarà il più rilevante di questa tornata elettorale amministrativa: la disaffezione al voto. Tutti i sondaggi fin qui consultabili indicano un ulteriore incremento dell’astensionismo. Dovessero sbagliarsi i sondaggi e le mie personali percezioni – magari! -, questa sì sarebbe allora la vera novità capace di proporre in una luce diversa il quadro politico e sociale del nostro paese.
Sì, perché non si può vivere solo di luce riflessa. I successi di Syriza, ora di Podemos ( e non solo ), come del referendum irlandese sui matrimoni gay ci riempiono di entusiasmo. Tommaso Nencioni in uno stimolante articolo pubblicato sul Manifesto, ricorda come ritorni in ballo il vecchio auspicio di Carlo Rosselli “Oggi in Spagna, domani in Italia”. Ma è niente altro che un dolce nostalgico richiamo o un wishful thinking che non trova riscontri reali nella nostra condizione. La verità è che da noi mancano non solo soggetti politici nuovi della sinistra, ma anche i movimenti hanno andamenti carsici o insediamenti troppo localistici che li configurano più come comunità in lotta che movimenti antisistemici complessivi.
Sperare che la vicenda spagnola influisca positivamente sulla imminente tornata elettorale italiana mi pare una pia illusione. Sia che a coltivarla sia il Movimento 5 stelle che, se troverà domenica una buona affermazione, non sarà certo per punti di somiglianza con Podemos – casomai con Ciudadanos, il movimento liberal democratico spagnolo –, ma per il protagonismo nell’opposizione a Renzi, qualunque sia il giudizio di qualità e di merito che si voglia dare sulle loro azioni. Sia che a nutrire una simile speranza siano le liste di cittadinanza – comprendenti anche i piccoli partiti della sinistra d’alternativa, ma non  tutti e non da tutte le parti -  che, con molta fatica, sono state messe in piedi.  La loro possibilità di  ottenere buoni risultati, che vadano al di là dei bacini elettorali preesistenti, è esclusivamente legata alla eventuale capacità di avere centrato qualche argomento che tocca e scuote la condizione concreta delle popolazioni locali. Le amministrative sono le amministrative. E’ tautologia, ma sembra che bisogna  ripetercelo ogni volta. Abbiamo già patito le delusioni della stagione dei sindaci arancioni, anche perché affidavamo loro capacità trasformative generali che mai avrebbero potuto fornire.
D’altro canto così si spiega il successo della sinistra spagnola, come ci dicono le analisi più accurate che sono seguite al voto. I migliori successi avvengono nelle città dove si è costruita una coalizione di forze politiche  e sociali. Se queste fossero andate divise o se le prime avessero preteso dalle seconde solamente il voto, anziché la partecipazione attiva alla costruzione del programma, della lista, dell’immagine complessiva da mettere in campo, i risultati sarebbero stati più scadenti.  
Non a caso ho parlato di sinistra spagnola, malgrado le nuove forze sembrano scartare lo stesso termine “sinistra” dalle proprie insegne, quasi fosse un relitto del passato aggrappandosi al quale si rischia di andare a fondo. Nessuno può avere dubbi sul carattere profondamente di sinistra della vittoria della coalizione catalana, per fare un esempio. Non solo perché le lotte sociali che l’hanno partorita, quelle contro gli sfratti, riproducono un conflitto più che classico fra proprietà privata e diritto all’abitazione – ne scrivevano già Marx e soprattutto Engels più o meno 150 anni fa -, ma perché la costruzione di senso che è stata perseguita muove tutta nella direzione dell’uguaglianza, il tratto assolutamente distintivo della sinistra, il clivage fra destra e sinistra come aveva scritto Norberto Bobbio 20 anni fa. Il conflitto fra destra e sinistra è stato tra i protagonisti nella contesa spagnola, accanto, ma non sorpassato, a quelli fra alto e basso nella società, fra esclusi e inclusi. Ma lo scontro tra destra e sinistra per esistere e incidere deve nuovamente inverarsi nel tessuto sociale, poiché a livello delle vecchie rappresentanze politiche esso è del tutto irriconoscibile.  
Ha  ragione Loris Caruso quando conclude la sua analisi affermando che “Qualsiasi forma di politicismo, anche brillante, è decisamente votata alla sconfitta. Sarà questo il futuro modello della sinistra, visibilmente in gestazione in questi anni e di cui le elezioni spagnole parlano in modo chiaro: partiti e movimenti insieme, coalizione sociale più coalizione politica. Ognuno, da solo, farà poca strada”. Appunto, ma per “sommarsi”, bisogna che già esistano entrambi: partiti e movimenti. Questo punto non può essere saltato nel ragionamento quando riflettiamo sulla condizione nel nostro paese. Né la confusione fra coesione politica e coesione sociale aiuta. Pensare che dalla coesione sociale lanciata da  Landini possa provenire di per sé la risposta per la costruzione del soggetto nuovo della sinistra è un errore, come lo è prescinderne. Su questo punto ha ragione Fausto Bertinotti, in un’intervista rilasciata all’Huffingtonpost, quando afferma che “la coalizione sociale è la produzione di un processo politico-partitico? No. E’ una produzione di politicizzazione? Sì. Quindi può essere intercettata da chi in autonomia può fare Podemos o Syriza”.
Ma non esiste un modello per farlo. Del resto Podemos e Syriza sono diversissimi tra loro. La formazione iberica si ispira deliberatamente a quel populismo di sinistra, teorizzato come risposta alla crisi delle ideologie e della forma partito, da Ernesto Laclau, cui si connette inevitabilmente, direi strutturalmente, la figura carismatica del leader. E quest’ultimo non si inventa. Non credo sia questa la risposta da dare in Italia. Tentativi ce ne sono stati, più o meno consapevoli, più o meno analoghi. Dalle forzature teoriche sul concetto di “moltitudine” al tentativo di creare connessioni, se non unità, fra movimenti che avevano obiettivi circoscritti. Sono falliti – o hanno durato lo spazio di un amen -  tanto quanto i richiami all’unità delle micro formazioni politiche.
L’Altra Europa con Tsipras con il suo risicato ma decisivo 4,03%  è andata in controtendenza rispetto alla “scimmia” della sconfitta posatasi sulle spalle della sinistra di alternativa. Ma quello che ne è seguito dimostra che non basta. Non solo per le litigiosità interne. Il richiamo a un europeismo antiliberista è stato un punto forte di programma che si è rivelato vincente. Ma da solo non può reggere il compito della costruzione di un nuovo soggetto politico della sinistra. La ragione di questo limite sta proprio nell’Europa. Essa non è solo Grecia e Spagna, ma anche Polonia. Per non parlare del suo attuale carattere germanocentrico. Più che un ideale è un terreno di conflitto aperto ad ogni soluzione. Se prevalesse la Grexit – cui magari potrebbe seguire un’uscita della Gran Bretagna , della Polonia o della Spagna per motivi fra loro opposti – dell’Europa, e di quanto ha rappresentato in termini ideali da Ventotene in poi,  non resterebbe più nulla. Del resto ogni soggetto politico ha necessità di trovare le ragioni del suo esistere in primo luogo nella realtà culturale, economica e sociale nella quale nasce.
So bene che un nuovo soggetto politico non può essere partorito dai vecchi. Verrebbe trascinato nella tomba da questi ultimi. Ma intanto se si potesse evitare che alla sinistra del Pd ci siano più organizzazioni la cui esistenza separata non ha più alcuna ragione di essere nemmeno per i propri militanti – anche grazie al rifiuto di qualunque relazione alla propria sinistra teorizzata e praticata da Renzi -  e soprattutto se ci potessimo risparmiare che le forze che abbandonano il Pd, pensino di potere mettere sé stesse al centro di processi unitari (ogni riferimento a Civati non è casuale) sarebbe già un piccolissimo passo in avanti. Un’opera di semplificazione e di igiene  politica utile  a farsi intendere e capire. Forse non basterà un convegno per ottenere questo risultato, ma cominciare a parlarsi chiaro sarebbe utile.
Ma soprattutto per conquistare nuove forze, quelle dell’astensionismo per esempio, quelle della sinistra diffusa fortemente politicizzata ma non partitica, vi è bisogno di una nuova elaborazione programmatica, di sperimentazioni organizzative all’insegna della democrazia deliberativa, di nuovi linguaggi. Una vera ricerca intellettuale  e pratica ci sta davanti. Eppure le non molte forze che lo potrebbero fare, anziché unirsi si suddividono ulteriormente. Ovunque nascono gruppi di studio, centri di elaborazione programmatica, gruppi di lavoro. Che non si parlano tra di loro e neppure competono in una sana produttività intellettuale. Semplicemente o si pestano i piedi o si attribuiscono la palma dell’heri dicebamus. Su questo terreno non ha neppure senso una separazione di ricerca fra chi  lavora prevalentemente alla coalizione sociale e chi a un nuovo soggetto politico, essendo i temi gli stessi, mentre ciò che è diverso è il ruolo  che le due differenti dimensioni giocano in rapporto a quelle tematiche. E’ troppo chiedere di unificare, almeno tendenzialmente, i “pensatoi” secondo linee di ricerca condivise? Almeno, se distinzioni restassero – e certamente ne resterebbero -,  avrebbero il pregio della chiarezza.
Probabilmente nei prossimi mesi, se non settimane, verranno al pettine diverse questioni che potrebbero essere oggetto di nuove battaglie referendarie. Dalla legge elettorale, alle controriforme costituzionali, dalle leggi neoliberiste sul lavoro a quelle che distruggono stato sociale, scuola  e beni comuni. Il governo è stato iperattivo su questi fronti. Questo “merito” a Renzi bisogna riconoscerglielo. Naturalmente bisognerà discutere, ad esempio sui contenuti e la forma dei quesiti da sottoporre ai cittadini –  con intensità ma con calma. La fretta – ce lo insegna la nostra storia – in questi campi è matrice di sconfitte, a volte anche banali.
Ma in ogni caso si apre una possibilità imperdibile. Si possono unire temi istituzionali, quindi prettamente politici, con grandi tematiche sociali per cui battersi con le armi della mobilitazione di massa e della democrazia diretta, l’unica cosa che può veramente fondere, senza confondere, il terreno politico con quello sociale. Se accompagnamo questo con l’intensificazione di un internazionalismo europeista concreto, fatto non solo di parole d’ordine ma di connessioni materiali, e della ripresa di una lotta per la pace che i nuovi venti di guerra (da qualche parte del mondo è già da tempo burrasca piena) che spirano a Sud e a Est del nostro vecchio continente, forse ce la facciamo a tracciare una nostra strada originale, sia per dare continuità ai movimenti sociali, sia per rinnovare profondamente il sindacato, sia per fondare un soggetto politico nuovo della sinistra.
In conclusione: restiamo pure tristi , se non altro perché l’età ci fa avvertiti, ma  non abbandoniamo tenacia e intelligenza.
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Sibilla Europa due
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