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mentre l’Europa si preoccupa delle zucchine…

zucchineIl fascino indiscreto del putinismo
di Nicolò Migheli
By sardegnasoprattutto / 28 maggio 2015/ Società & Politica/

Adam Michinik giornalista dissidente e cofondatore di Solidarność, ha definito l’elezione di Andrzej Duda presidente della Polonia una marcia di velluto verso la dittatura. L’eterna austerità europea sta producendo patologie che sanno tanto di fascismo 2.0. A Bruxelles sono attenti ai conti, se ne lavano le mani della emergenza biblica dei migranti, deliberano sul diametro della zucchina; non intervengono minimamente per bloccare il populismo di destra che colonizza l’immaginario degli europei.

Sono lontani i tempi quando nel 1994 il vicepremier belga Di Rupo, si rifiutò di stringere la mano del ministro del primo governo Berlusconi Tatarella per il suo passato nel Msi. Anni in cui la prima condizione per aderire alla UE erano gli standard di democrazia. Ora tutto questo pare non esista più. L’Ungheria da anni è governata da Viktor Orbán con politiche revansciste e di discriminazione nei confronti dei Rom. Jean Claude Juncker presidente della Commissione europea, il 22 maggio lo ha accolto chiamandolo scherzosamente dittatore.

Questo perché il premier ungherese ha proposto che si apra un dibattito sulla reintroduzione della pena di morte. Secondo Orbán ogni paese europeo dovrebbe scegliere come meglio comportarsi. La UE sollevando gli occhi dai bilanci, per una volta, ha riaffermato che l’abolizione della pena capitale è prerequisito essenziale per stare in Europa. Da esserne sorpresi. Le istituzioni europee finanziano a fondo perduto l’Ucraina dove in posti di governo seggono dei nazisti dichiarati, ma si rifiutano di ridiscutere il prestito greco. Per la politica europea, dominata dalla destra economica da oltre dieci anni, il pericolo non sono i fascismi risorgenti ma movimenti come Syritza e Podemos.

Prigionieri delle ceneri

urlo di Munchdi Nicolò Migheli *

Tentando di dare altro significato alle parole di papa Francesco, alla fine la Saras ha detto una grande verità. È vero, siamo “adoratori di ceneri”, prigionieri di un modello di sviluppo ormai morto, senza aver il coraggio e la forza di intraprendere nuove strade. Una contraddizione che la società industriale si porta almeno dal 1970, quando il Club di Roma di Aurelio Peccei pubblicò “I limiti dello sviluppo”.

Un rapporto contestato anche dalla sinistra, perché in esso vedeva due pericoli. Il primo, quello di negare alle classi popolari l’accesso al benessere e ai diritti civili che il ridimensionamento dello sviluppo avrebbe portato con sé. Il secondo tutto di carattere ideologico. L’ecologismo era stato fino ad allora figlio delle culture di destra, della kultur legata alle tradizioni, al volk e al suo rapporto con la terra luogo della identità. In esso la sinistra del tempo leggeva il permanere di forme cripto naziste ed elitarie.

Letture che già allora venivano contestate da gruppi minoritari dei movimenti ecologisti che facevano riferimento al progressismo, così come da alcuni sindacati operai preoccupati delle condizioni di lavoro in fabbrica al grido di: “La salute non si monetizza” stante l’abitudine delle imprese del tempo di concedere indennizzi per i rischi degli ambienti di fabbrica. Non solo i luoghi di lavoro, ma il territorio e la salute delle popolazioni divennero la preoccupazione dell’ecologismo di sinistra. Per la Saras il tempo non passa, la sua polemica con su “connotu” dei sardi riprende le argomentazioni classiche delle dicotomie reazione- progresso, sviluppo scientifico- oscurantismo.

Non conta che l’Agenzia Europea dell’Ambiente collochi l’industria petrolifera di Sarroch tra le cento più inquinanti d’Europa, che la ricerca pubblicata da Mutagenesis, rivista dell’università di Oxford, riveli che i bambini di Sarroch “presentano incrementi significativi di danni e di alterazioni del Dna rispetto al campione di confronto estratto dalle aree di campagna”. Che tutto ciò abbia poco valore agli occhi della Saras è nell’ordine delle cose.

Quella impresa ha come obiettivo la massimizzazione del profitto, lo ha ancor di più ora che – si dice- la maggioranza delle azioni sta per passare dal gruppo Moratti alla Rosneft, gruppo russo la cui attenzione all’ambiente è tutta da dimostrare. Le polemiche seguite alla delibera con cui la giunta regionale autorizza la valutazione di impatto ambientale per il nuovo inceneritore di Macomer, dimostrano ancora una volta la contraddizione in cui viviamo. Da una parte si propugna un nuovo modello di sviluppo che abbia nel rispetto dell’ambiente il suo punto centrale, dall’altro si insiste con pratiche in totale contraddizione.

Acrobazie linguistiche per nobilitarle. Si sa, le parole sono tutto: sono definitorie e costruiscono il reale. I nuovi impianti di smaltimento vengono denominati termovalorizzatori- nella parola composta, “valore” restituisce positività- peccato che quel termine non esista. La legge parla chiaro, quegli impianti erano e restano inceneritori. Aziende insalubre di classe I, secondo il Decreto Ministeriale del 05/09/1994, di cui all’art. 216 del testo unico delle leggi sanitarie, emanato dal Ministro della Sanità e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale Suppl. Ordin. n° 220 del 20/09/1994.

Ora anche l’inquinamento della centrale di E.On di Fiume Santo. Altra impresa inserita dall’Agenzia Europea dell’Ambiente tra le più pericolose d’Europa. Tutto questo mentre le pagine pubblicitarie della Regione vendono l’Isola vantandone la qualità della vita. Ad Expo lo slogan della Sardegna avrà il punto di forza nei centenari. Tutto vero, ma la qualità della vita nei siti industriali non è delle migliori. I casi di cancro aumentano ma non esiste un registro tumori che possa offrire basi oggettive all’incidenza delle neoplasie in rapporto all’avvelenamento di terra, aria ed acqua. Così come appare evidente che i centenari sono diventati tali perché hanno vissuto in ambienti puliti. Quanti tra i trentenni e i quarantenni di oggi lo diventeranno?

Tutto ciò è frutto di scelte che la politica ha voluto che fossero “tecniche” dando loro oggettività, quasi che non fosse possibile alcuna alternativa. Abbiamo vissuto una modernizzazione imposta, si è alimentata la sfiducia verso soluzioni che partissero da noi. Si è negata la via sarda alla modernità ed oggi ne paghiamo il prezzo. Peggio ancora c’è chi insiste, chi crede che quelle scelte siano state le migliori e che lo siano anche per il futuro. Sulle reti sociali è pure capitato di leggere che è meglio morire di cancro che non avere un lavoro. Come se il “lavoro” sia solo essere dipendenti delle industrie inquinanti e che la salute propria e dei figli sia ben pagata da uno stipendio.

Si può capire la paura di perdere l’impiego, ma cosa sarebbero certe èlite sarde senza la Saras, l’Eni, gli inceneritori? Cosa sarebbe la Confindustria, visto che l’impresa petrolifera di Sarroch è la maggior contribuente? O i sindacati? È evidente che i blocchi non sono solo economici. Siamo culturalmente dipendenti dalle ceneri in cui è stata ridotta la Sardegna. Non vediamo o facciamo finta di non vedere i grandi rischi che corriamo. Siamo disposti però a qualsiasi lotta pur di avere i maialetti precotti nell’Expo.

Anno di grazia 2015, centro sinistra regnante.
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By sardegnasoprattutto/ 17 aprile 2015/ Culture
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Se la politica vuol avere un senso, per favore batta un colpo, magari due
Franco Mannoni fbdi Franco Mannoni, su fb
La questione della qualità della vita e dello sviluppo ormai si ripropone da noi in termini resi drammatici dall’esplodere di inchieste giudiziarie (E.On) e dalla pubblicazione di dati epidemiologici riguardanti patologie gravi diffuse nelle aree di maggior inquinamento di origine industriale.
Gli allarmi ,quali che siano e quando siano corroborati da qualche fondamento, esigono interventi seri di chi porta la responsabilità delle scelte, delle autorizzazioni, delle deroghe e delle proroghe.
Assistiamo a tremebondi balbettii preoccupati , più che del bene comune, di non scontentare attese. Non va bene! Chi non ha il coraggio della responsabilità lasci il passo.
Fra i diritti di cittadinanza vi è quello alla informazione.
A valle c’è tutto il tema dei provvedimenti da adottare e del ruolo di governo, regionale e nazionale.
Come ha avuto modo di affermare con forza Pietrino Soddu, uno della prima repubblica e della prima regione, il tema è quello di capire dove si vuole andare in prospettiva, di capire sé stessi e la strada che si intende percorrere.
In soldoni: qualsiasi cosa si pensi di fare, nel tempo oggi esplorabile in avanti, i ritmi di crescita conosciuti nel passato e gli output occupativi collegati non saranno riproducibili. Il modello hard é insabbiato e i suoi cascami, per difendere margini di profitto premono sul lavoro e sull’ambiente .
Allora? O ci apprestiamo a una fase di cambiamento in cui la programmazione ha al centro più che il Pil la qualità della vita e dell’ambiente e il lavoro condiviso,
oppure continuiamo con la programmazione finanziaria e procedurale e attendiamo una, dieci etc E.On, Sarroch e via.
Ho semplificato troppo, non ho parlato di bottom up né di criticità , ma qui bisogna esprimerci in sintesi.
Se la politica vuol avere un senso, per favore batta un colpo, magari due.
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Sa die de sa Sardigna 2015
Dipinto di Filippo Figari, Sardegna Industre, 1925, olio su tela, aula magna dell’Università di Cagliari (Università della Sardegna).
Sardegna Industre simboleggia “il benessere che reca lo studio delle scienze in pro dell’agricoltura e dell’industria della Sardegna. In primo piano, a sinistra un gruppo di donne in costume che significano la prosperità della terra e proteggono la nuova generazione; a destra, lavoratori della terra, del mare, delle officine; al centro la Sardegna Universitaria che regge la bandiera sarda dei quattro mori, ed ha a sinistra l’abbondanza e a destra l’Industria che frena i cavalli” (R. Carta Raspi, 1929).
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Nuovi quattro mori stemma
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* L’articolo di Nicolò Migheli viene pubblicato anche sui siti di FondazioneSardinia, Vitobiolchini, Tramasdeamistade, Madrigopolis, Sportello Formaparis, Tottusinpari e sui blog EnricoLobina e RobertoSerra, SardegnaSoprattutto, nonchè su L’Unione Sarda del 19 aprile 2015.

Se il rifiuto nucleare diventa un affare

scorie2di Nicolò Migheli
Smentendo gli annunci, il governo non rivelerà il 2 di aprile i siti possibili per il Deposito Unico delle scorie nucleari. Questa volta non si vuole correre il rischio del 2003 quando la scelta di Scanzano Jonico fatta dal governo Berlusconi, venne bloccata dalla rivolta degli abitanti e dal sindaco di quel comune. La Sogin vuole il coinvolgimento della comunità della località prescelta, in modo da evitare qualsiasi sindrome Nimby. Se le indiscrezioni riferite dall’ex presidente Cappellacci hanno un fondamento, la Sardegna e il Lazio sarebbero le regioni candidate. Il movimento antinucleare, forte del referendum con l’90% di no avutosi in Sardegna, già si organizza. Immagina una resistenza classica, con manifestazioni e blocchi ai porti dei container che trasportano i rifiuti. In realtà la mobilitazione potrebbe essere l’ultimo atto e con nessuna possibilità di successo. L’amministratore delegato della Sogin Riccardo Casale, in una intervista a Panorama del 29 settembre 2014, aveva raccontato come intendano muoversi. La dismissione delle centrali nucleari è l’affare del secolo. Lo smantellamento ha un costo previsto di 6,7 miliardi di euro che vengono già reperiti con le bollette elettriche. Intorno al deposito verrà costruito un parco tecnologico. Ipotizzati mille posti di lavoro tra diretti ed indiretti. Impieghi molto specializzati con una forte presenza di ricercatori. Secondo l’IEA, l’agenzia internazionale sull’energia, nel mondo ci sono 147 reattori in fase di fermata. Dei 434 reattori attivi a fine 2013, 200 dovranno essere smantellati entro il 2040. Un affare da 100 miliardi di dollari. Di sicuro molti di più perché nell’industria atomica come in quella militare, l’aumento dei costi è una costante. L’Italia primo paese ad aver rinunciato al nucleare, si trova in posizione di vantaggio. Il mercato che si apre potrebbe vedere l’industria italiana protagonista. Il deposito unico dovrà essere realizzato entro il 2025, vi è un obbligo europeo a cui a non ci si può sottrarre. La Sogin questa volta intende muoversi con molta cautela utilizzando tutte le strategie possibili di convincimento. Mutuando l’esperienza francese verrà utilizzato il débat public, un metodo di partecipazione e coinvolgimento delle popolazioni. In Francia lo si usa quando gli investimenti per le Grandi Opere superano i 300 milioni di Euro. Il débat è aperto a tutti e le sue conclusioni sono vincolanti. Qualsiasi risultato impegna il maître d’ouvrage, l’istituzione o l’azienda che propone l’opera; se sarà negativo non verrà realizzata. Però non è chiaro cosa la Sogin intenda per dibattito pubblico. Casale imputa il fallimento della scelta di Scanzano ad una cattiva comunicazione. È pensabile che questa volta i metodi partecipativi saranno utilizzati come strumenti per costruire il consenso. Ne sono così sicuri che si attendono candidature di località per ospitare il deposito. L’amministratore delegato della Sogin riferiva il caso di due città svedesi – senza farne il nome – che si sarebbero disputate la collocazione del deposito nucleare di quel paese. Per il momento non sono previste agevolazioni compensative per le popolazioni, come taglio delle bollette o altro. Decisione che spetta al governo e non è stata ancora presa; faranno di tutto per rendere l’opzione più che appetibile. Per la Sardegna si pongono non pochi problemi. In questi anni vi è stata una continua riduzione della partecipazione dello Stato al bilancio regionale. I tagli si sono fatti talmente pesanti da mettere in dubbio le prestazioni minime come quelle della sanità, per citare la più drammatica. Il tasso di disoccupazione è in continua crescita. Metti che il governo decida di oltrepassare la Regione che ha espresso pubblicamente la sua contrarietà, e dialoghi con un comune in cui vi sia una amministrazione compiacente. Che si evochi l’interesse nazionale, quello italiano naturalmente. Che si convincano gli abitanti che quella scelta sarà la soluzione di lavoro e occupazione che cercano invano. A quel punto come ci si potrà opporre? Anche per la petrolchimica erano stati usati argomenti simili: posti di lavoro e ricchezza. Stesse argomentazioni per il furto-voltaico, -termine non mio ma efficace-. Le vicende dei cardi e delle canne non fanno ben sperare. Bisognerà inventarsi efficaci contromisure, essere consapevoli che ci si sta impegnando con una ipoteca pesantissima per i prossimi secoli. Supponendo che il Deposito Unico sia sicuro come affermano i nuclearisti, è comunque una scelta che spazzerà ogni speranza di autodeterminazione, con una ulteriore militarizzazione dell’isola. È impensabile, che materiali così pericolosi vengano lasciati incustoditi in un Mediterraneo turbolento. Tutto può succedere però. In tal caso prepariamoci ad adottare per la nostra isola il significato di Sardigna che ancora compare nel dizionario Treccani. «Sardigna s. f. [da Sardigna, variante ant. di Sardegna, prob. per il clima insalubre e l’aria malsana attribuiti, sin dall’età classica, alla Sardegna] 1. a. In passato, luogo nelle vicinanze di una città dove si depositavano le carogne e i rifiuti della macellazione. b. Attualmente, la zona del reparto sanitario del macello o macello contumaciale destinato alla distribuzione o alla trasformazione delle carni infette che non possono essere usate per l’alimentazione.» Così è.
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* L’articolo ddi Nicolò Migheli viene pubblicato anche sui siti di FondazioneSardinia, Vitobiolchini, Tramasdeamistade, Madrigopolis, Sportello Formaparis, Tottusinpari e sui blog EnricoLobina e RobertoSerra, SardegnaSoprattutto.

Tra storia e mito, il romanzo come opportunità

stendardo di LepantoLa Relazione è stata elaborata per l’iniziativa “Alla ricerca della storia perduta”. La storia vera di Diego Henares de Astorga di Nicolò Migheli Hombres Y Dinero di Pietro Maurandi Le Carte del re di Pietro Picciau sono i tre romanzi che hanno animato il II° secondo appuntamento organizzato dalla Delegazione e dal FAI Giovani di Cagliari con la Presidenza regionale FAI lunedì 2 marzo 2015 alla Fondazione Banco di Sardegna via S. Salvatore da Horta, Cagliari.

di Nicolò Migheli

Nell’incontro precedente “Alla ricerca della storia perduta”, Vindice Lecis sosteneva che spesso il romanzo storico si nutre di dettagli, di particolari che a volte vengono trascurati dagli storici di professione. Nel caso del mio romanzo cinquecentesco è stato così, però solo in parte. Proprio in questi giorni si celebra il centenario della costituzione della brigata Sassari, un reparto militare composto interamente da sardi che si sacrificò sui fronti della Prima Guerra Mondiale.

L’epica della Brigata ha avuto due ragioni, la prima trasformare lo stigma lombrosiano sui sardi da “etnia delinquente” in “etnia combattente”; la seconda come catalizzatore del nostro riconoscimento in nazione, diventando una delle ragioni principali delle rivendicazioni autonomistiche. Grande storia e storia locale che si intrecciano creando mito in cui riconoscersi. Prima della Brigata, un altro reparto ha segnato l’immaginario dei sardi, il tercio de Cerdeña. Secondo la tradizione unità militare composta interamente da sardi, con quattrocento archibugieri imbarcati nell’ammiraglia Real di don Juan de Austria, avrebbe guadagnato la vittoria contro Alì- Paschà a Lepanto nel 1571 determinando l’esito dello scontro. Battaglia a cui partecipò anche Cervantes riportandone un braccio dilaniato da una proiettile turco.

L’aver contribuito ad un evento epico per le sorti della cristianità nel Mediterraneo, l’aver bloccato il pericolo ottomano, fu motivo di orgoglio per le èlite sarde; quel fatto d’arme sconfessava ai loro occhi la loro marginalità percepita, e quella della Sardegna. I fatti sono riportati da Salvador Vidal nel 1636 in Annales Sardinae, riprendendo la cronica dello spagnolo Jeronimo de Costial, il quale riferì che nell’ottobre del 1571 la flotta spagnola di rientro da Lepanto fece tappa a Cagliari , e che un corteo di soldati sardi e di popolo, portò in trionfo nella chiesa di San Domenico la bandiera del tercio, deponendola nella cappella di Nostra Signora del Rosario. Stendardo oggi conservato nella sagrestia di quella chiesa.

Peccato che non sia una bandiera con le insegne di Filippo II, croce borgognona rossa in campo giallo, bensì uno stendardo con le barre catalane. – Visto che siamo ospiti di una fondazione bancaria, faccio appello affinché il Banco di Sardegna stanzi un finanziamento per il restauro di quelle insegne, oggi sono in condizioni pietose, esposte alla luce stanno per scomparire i colori ed il tessuto si sta stramando -

Il mito del primo tercio, percorse la storia sarda, ne parlarono lo stesso Lussu ed altri. Qualche anno fa Gian Paolo Tore dopo lunghe ricerche negli archivi di Madrid e Barcellona, pubblicò con il Cnr uno studio accurato sulle vicende di quel reparto che ebbe vita brevissima: dal 1565 al 1568. La ricerca rivelò che il tercio de Cerdeña, composto esclusivamente da soldati nativi di Spagna, aveva combattuto in Corsica, Malta e Fiandre e che poi era stato sciolto per ignominia dopo il saccheggio ed incendio di Jemmingen nei Paesi Bassi, villaggio forse protestante, ma facente parte dei domini di Filippo II.

Il duca d’Alba, comandante dell’esercito imperiale, si vide costretto a punire il reparto e chi si era macchiato del delitto. Se sardi hanno combattuto a Lepanto, non potevano essere certo inquadrati in quel tercio. Vi fu un secondo tercio de Cerdeña, reclutato negli anni Trenta del Seicento dal marchese di Sedilo che operò in Fiandre, quello sì totalmente composto da sardi. L’unico contatto, oltre alla denominazione, tra il primo tercio e la nostra isola, è il suo acquartieramento nel’inverno del 1565 in Stampace. La permanenza non fu facile. I soldati spagnoli si rifiutarono di onorare i contratti di affitto delle case, pretesero sconti nell’acquisto dei viveri, spesso non pagandoli. Si ebbero scontri continui con gli stampacini che non faticarono molto a tenere alta la loro fama di essere “cucurus cotus”, teste calde incline alla rissa.

Il Cinquecento sardo non ha prodotto solo il mito del tercio, è anche fonte di uno stigma negativo diventato presto autostigma. È il noto “pocos locos y mal unidos”. Attribuito a Carlo V, in realtà forse scritto in una lettera ad un amico spagnolo dal vescovo di Cagliari Parraguez de Castellejo. Il prelato per ragioni politiche venne denunciato all’Inquisizione come protestante. Accusa da cui venne scagionato. Parraguez de Castellejo se mai scrisse quelle parole, si riferiva ai nobili di Cagliari, tutti di origine spagnola, non certo ai sardi naturals che ai suoi occhi, come a quelli di qualsiasi aristocratico del tempo, non contavano nulla. Potenza però delle parole, se ancora oggi in molti le vogliono come tratto caratteristico dell’essere sardi. In realtà noi non siamo né locos, né mal unidos, più di altri. Tutti i fenomeni di solidarietà reciproca e le iniziative comunitarie del nostro tempo lo dimostrano.

Scrivere romanzi storici è imbattersi nel mito, è far dialogare personaggi reali con quelli di finzione, con il risultato che anche chi è vissuto allora diventa personaggio da romanzo, e quello creato dallo scrittore personaggio “storico”. Entrambi protagonisti di vicende coeve. Nel caso del Cinquecento poi, la ricchezza di documentazione, gli studi fatti da storici di professione, permettono di calarsi anche nel loro pensiero; capirne la quotidianità, le relazioni, il loro porsi davanti al mondo. In fin dei conti erano moderni, non molto lontani da come siamo noi. Il romanzo permette di sfatare il luogo comune della marginalità della Sardegna allora facente parte dell’impero più grande del mondo, dove non tramontava mai il sole. Il racconto permette di capire che si era centrali, terra di confine nella faglia tra cristianesimo ed islam. Tema tragicamente d’attualità se, proprio oggi, Domenico Quirico sulla Stampa scrive dell’Isis intitolando l’articolo sul ritorno della Storia nel Mediterraneo.

La Sardegna di quegli anni era dentro il pensiero europeo, anche nella nostra terra vi era un piccolo movimento protestante, filiazione degli Alumbrados valenziani, bruciato dall’Inquisizione di Diego Calvo. Allo stesso tempo la tragica vicenda di Sigismondo Arquer rivela il suo legame con i circoli luterani di Basilea. Il filo rosso delle vicende di Diego Henares de Astorga è racconto di allora che serve all’oggi. Serve a capire ad esempio la multiculturalità, lo scontro tra classi, le forme del potere e del clientelismo. Temi del Cinquecento e temi di oggi. Se le vicende sono inserite in un romanzo d’avventura, un feuilleton scritto oggi, vi è anche la presunzione dell’autore che ricerche di carattere specialistico diventino accessibili anche al grande pubblico. In fin dei conti un tentativo di costruire un’epica per una terra che se n’è privata, una piccola pietra nell’edificio di un immaginario collettivo.

Per fare ciò occorre anche demitizzare, dando ai fatti lettura positiva senza indulgere nella vanagloria, evitando comunque di accarezzare quei sentimenti di impotenza e di risentimento che sono da sempre così popolari tra di noi. Se il romanzo può essere utile, ben venga. È chiaro che sono di parte, ma è quel che penso indipendentemente dall’essere anche l’autore di La storia vera di Diego Henares de Astorga.

D’altronde il tempo degli intellettuali organici non è ancora tramontato sul Mar di Sardegna. Per fortuna.
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Sardegna-bomeluzo22
* L’articolo di Nicolò Migheli viene pubblicato anche sui siti di FondazioneSardinia, Vitobiolchini, Tramasdeamistade, Madrigopolis, Sportello Formaparis, Tottusinpari e sui blog EnricoLobina e RobertoSerra, SardegnaSoprattutto.
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Così Incolti e così Infelici

Fatti non foste...
di Nicolò Migheli

Vi era un tempo in cui l’operaio e il pastore si sacrificavano per avere un figlio dottore. Era un investimento per il futuro. Un’epoca dove le istituzioni pubbliche investivano in istruzione e cultura. Si era consci che per la crescita sociale ed economica di una comunità istruzione e cultura erano strategici. In Sardegna avvenne nel dopoguerra, vincere l’analfabetismo di massa era uno degli obiettivi principali. Non a caso ricordiamo quel periodo come uno dei più dinamici, pieno di tensioni democratiche e civili.

Un’isola che abbandonava i posti di bassa classifica dell’istruzione per diventare un luogo che cercava il proprio riscatto. Quell’abbozzo di società industriale era caratterizzato dalla presenza delle agenzie di senso. Partiti, sindacati, Chiesa, famiglia e scuola non si limitavano ad indicare una palingenesi ed un futuro possibile, l’accento che veniva dato era quello di sconfiggere l’ignoranza, considerata una delle prime cause della povertà.

Poi qualcosa si è rotto. Sono scomparsi i corpi intermedi, la Chiesa fatica sempre di più in un contesto secolarizzato, la scuola non garantisce più la mobilità sociale. Quella finestra di opportunità si è chiusa, di conseguenza anche il titolo di studio ha perso di importanza. Quasi che la società contemporanea non abbia più bisogno di persone colte. Competenze sufficienti per accedere al web, per il resto nulla.

Un processo aiutato se non favorito, dalle politiche pubbliche sull’istruzione. Negli ultimi quindici anni i tagli progressivi hanno ridotto gli investimenti, lasciando la scuola alla buona volontà e motivazione degli insegnanti, i veri eroi di questo tempo. Cresce l’abbandono scolastico, i dati Invalsi sulle performance dei nostri studenti sono impietosi. Quanto questi risultati siano dovuti al fatto che i nostri ragazzi sentano la scuola lontana, dove la Sardegna è solo un inciso e non se ne studi né la storia né la lingua? Quanto questo influisca nella formazione dell’autostima?

L’Università non va meglio. Le controriforme stanno finendo con il rafforzare le sedi del nord d’Italia a discapito del sud e delle isole. L’economicismo che domina queste operazioni sembra nascondere un progetto neo oligarchico. Chi avrà i mezzi potrà frequentare le università più prestigiose, possibilmente quelle internazionali, gli altri faranno quel che potranno, se vorranno.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha richiamato l’Italia perché il numero delle vaccinazioni obbligatorie dei bambini sta scendendo sotto il livello di guardia. Uno dei primi effetti del taglio all’istruzione si potrebbe dire. Genitori vittime di della disinformazione dominante nel web? O solo mancanti di cultura scientifica? Qualsiasi sia la risposta significa abbandonarsi all’irrazionale. Di morbillo si muore.

Giulio Tremonti, un economista, ebbe a dire che con la cultura non si mangia, benché i dati internazionali dimostrino che ogni euro investito in cultura ne generi altri cinque nell’indotto. Produrre individui incolti ha il suo peso sociale. Significa progettare una società priva di senso civico, popolata da persone impossibilitate a capire un testo, dipendenti dagli altri.

Individui insicuri, incapaci di capire il proprio tempo, generatori di una società infelice

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L’articolo di Nicolò Migheli è stato anche pubblicato su L’Unione Sarda del 6 febbraio 2015 e su Sardegnasoprattutto/ 6 febbraio 2015/ Culture
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Dacci oggi il nostro rancore quotidiano

Goya particolare sonno ragione
di Nicolò Migheli *

Greta e Vanessa sono tornate a casa in lacrime. La magistratura scoprirà se è stata solo incoscienza o se alle due giovani cooperanti è stata tesa una trappola. Se è stato pagato un riscatto non lo si saprà mai. Stato e servizi proteggono bene questi segreti. È bastato però l’annuncio della liberazione perché i professionisti della paura e del risentimento si lanciassero in una campagna forsennata contro le due ragazze e contro chi ha agito per la loro liberazione.

In questo si sono distinti Libero, Salvini e il presidente della regione Veneto, il quale vorrebbe obbligare le due cooperanti a rendere, non si sa come, la cifra eventualmente pagata. Agli occhi di Zaia, le parole dei predoni del deserto hanno più autorevolezza di qualsiasi dichiarazione che venga dalle istituzioni. Così sono gli uomini di Stato di questa becera destra. Avrebbero preferito che le due giovani fossero state decapitate in Siria e il video postato nel web? Ogni soluzione possibile avrebbe innescato il rancore e l’odio. Coperti da tanta autorevolezza i lupi da tastiera si sono scatenati. Commenti che è impossibile riportare per decenza. Una deriva che non risparmia neanche i luoghi della cosiddetta borghesia riflessiva.

Mi è capitato di sentire in un caffè à la page i discorsi di un gruppo di persone – cachemire e filo di perle, borse di nota marca francese – ammicare a supposte virilità orientali e augurare infibulazioni per le due povere vittime. No, non basta invocare l’eterna crisi, la folla solitaria, la scomparsa dei corpi intermedi che riuscivano a canalizzare la rabbia verso un progetto, la crisi della politica. Non spiega il fenomeno neanche il fatto che l’Italia sia un luogo dove la maggior parte degli abitanti non legge neanche un libro all’anno, o che nelle classifiche europee risulti la più ignorante insieme alla Polonia.

C’è qualcosa di più profondo. Una crisi che è sempre più culturale ma che investe la psicologia di massa. Un Paese che è diventato il luogo di elezione di Gustave Le Bon il fondatore della Psicologia delle folle e padre della manipolazione del pubblico. Vent’anni di predicazioni orrende hanno avuto il potere di liberare i verminai dell’anima e dare loro legittimità. Era stato così, si potrebbe dire, quando durante la guerra in Iraq vennero liberate le due Simona e Giuliana Sgrena, in quest’ultimo caso anche con la morte dell’agente dei servizi Calipari.

È stato così, solo che ora le reazioni sono più virulente e toccano fasce di popolazione che allora ne erano state indenni. Da crassi e cinici, a poveri e risentiti con le indignazioni a comando. Je souis Charlie e affermare nel contempo che se la sono andata a cercare. Una incoerenza che dimostra fragilità emotive, sottomissione alle tendenze virali omologanti, un sentirsi parte del peggio piacendosi. Impossibilitati ad una riflessione razionale ed autonoma. Nessuno che si sia chiesto, cosa avrei fatto se quelle due ragazze fossero state mie figlie o sorelle? Tutti preda dell’economicismo dominante, vittime dei conti della serva che riducono prestazioni sanitarie, istruzione pubblica, salvo poi a lamentarsene quando tocca pagare.

Un Paese privo ormai di qualsiasi empatia, disposto a trovare responsabilità in chiunque fuorché in se stesso. Ecco cosa siamo diventati. Ha vinto il forza leghismo, come diceva il povero Edmondo Berselli. Ha vinto non come condizione politica, ma come condizione culturale. Anche in Sardegna, anche qui. Se è vero che vi siano movimenti che si candidano ad essere i terminali di Salvini nell’isola. Tutti pronti a raccogliere i peggiori istinti che agitano le coscienze impaurite di molti sardi. Greta e Vanessa sono solo l’ultimo tassello di un percorso culturale di lunga durata.

L’anomia spinta e il cinismo diffuso non aspettano altro, pregano che ogni giorno venga dato loro un rancore quotidiano, così ci si sente nel mondo. Odio dunque sono. La politica che rimesta nel letame raccoglie consensi. Tempi orrendi. Si spera sempre che giunti al fondo del pozzo non ci venga detto di scavare ancora. L’ottimismo della ragione ora non consola il pessimismo delle emozioni.
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* Dacci oggi il nostro rancore quotidiano [di Nicolò Migheli]
By sardegnasoprattutto / 17 gennaio 2015/ Culture/
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GLI EDITORIALI PIU’ RECENTI
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La probabile scelta della Sardegna come sito e deposito nazionale della scorie nucleari pone inquietanti e drammatici interrogativi e problemi
La nostra Isola, per decenni è stata utilizzata come stazione di servizio per industrie nere e inquinanti che hanno devastato il territorio, inquinato l’ambiente e sconvolto antropologicamente la popolazione sarda. Senza peraltro apprezzabili “ritorni” dal punto di vista occupazionale ed economico, perché “Issos si pigant su ranu e a nois lassant sa palla”.
Ancora oggi è base e servitù militare per operazioni che niente hanno a che spartire con gli interessi e i bisogni dei Sardi: anzi, la loro presenza – che sequestra cospicue porzioni del nostro territorio, sottraendolo a usi civili e produttivi – inquina e minaccia la nostra vita e la nostra salute.
Aggiungere alla Sardegna una ulteriore servitù con il deposito di scorie nucleari sarebbe un colpo definitivo e in ogni caso mortale alla possibilità che l’Isola imbocchi la rotta della prosperità e del benessere attraverso uno sviluppo ecocompatibile, endogeno e identitario, che rompa finalmente con la spirale del sottosviluppo e del malessere.
Per questo invito gli intellettuali, gli scrittori, i giornalisti, gli artisti sardi liberi, perché si oppongano a questo disegno insano e ingiusto del Governo italiano, mobilitandosi e partecipando attivamente alle iniziative del Comitato no scorie e a tutte le lotte in grado di bloccarlo.

Francesco Casula
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La luna
DISCORSO DELLA LUNA
di Antonio Dessì
Va bene. Sono laico (anche ateo, ma questo non c’entra: dipende soprattutto dal fatto che una volta morto non vorrei più rotture di palle in qualsivoglia Altromondo). Valuto la Chiesa cattolica secondo parametri storici e ne conosco i tanti errori, alcuni perduranti. Sono pacifista e nonviolento (questa seconda qualità l’ho acquisita, spero, definitivamente, anche se talvolta mi si mette fin troppo alla prova). JesuisCharlie quel tanto che basta per non apprezzare che Giuliano Ferrara apra dibattiti sull’Islam nella prima pagina di un quotidiano isolano. Ma quando Papa Bergoglio dice che se a uno gli cercano la madre è istintivo che reagisca quantomeno tirando un cazzotto in faccia a chi gliel’ha cercata, rilevo che ha tradotto perfettamente un tipico modo di pensare sardo. Forse glielo ha suggerito proprio la Madonna di Bonaria, patrona della Sardegna e madrina onomastica della capitale argentina. E mi è più simpatico lui dei saccentoni e dei teologi mediatici vari che stanno imperversando in queste ore. Almeno, che bisogna dichiarare guerra all’Islam, chiudere le moschee in Italia, cacciare gli immigrati dal Paese, lasciare che due imprudenti ragazze restino prigioniere di qualche predone fanatico, lui non lo ha detto e non lo pensa.
Anzi, mi è venuto da immaginare Papa Francesco affacciarsi alla finestra dell’Angelus e parafrasare il “Discorso della Luna” di Papa Giovanni XXIII: “Questa sera, quando tornate a casa vostra, date un cazzotto a Salvini. Ditegli che è il cazzotto del Papa!”.
Sulle restanti questioni politiche lascio il commento alle vignette. Parce sepultis.
Ad amiche e amici buon pomeriggio e fin d’ora buon week end.
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Papa Francesco Vauro

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Prima e dopo Parigi. Siamo tutti chiamati in causa. Che fare?
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di Vanni Tola

L’indignazione per gli atti terroristici compiuti a Parigi dall’estremismo islamico pone una serie di problemi e, tra questi la paura e la rabbia. Richiamano interrogativi inquietanti sul che fare da domani in poi per contrastare la violenza indiscriminata di coloro che, in nome di Dio, predicano e praticano l’eliminazione fisica di chi non la pensa come loro, degli infedeli. Ma è soprattutto la sfera privata di ciascuno di noi a essere chiamata in causa. Non basta indignarsi occorre agire, fare qualcosa, dare il nostro contributo di individui liberi, che vivono in regimi democratici, di componenti di Stati che direttamente o indirettamente hanno comunque grosse responsabilità nell’aver contribuito a generare le condizioni di ingiustizia, di diseguaglianza, di sottosviluppo economico e culturale che caratterizzano il nostro mondo. Torniamo alla sfera privata, personale. Che possiamo fare, qual è il nostro livello di conoscenza della realtà? Che cosa sappiamo dell’Iran e dell’Iraq? Quanti nomi di stati africani siamo in grado di ricordare senza l’aiuto di internet? A poche miglia dalle coste della Sicilia, in Libia, si sta materializzando uno stato islamico, un califfato, alle porte di casa nostra. Ma cos’è uno stato islamico? Esistono luoghi nei quali gli estremisti e integralisti mussulmani compiono azioni raccapriccianti e disumane. Anche l’occidente civilizzato ne ha compiute. Potremmo parlare a lungo dei bombardamenti al napalm in Vietnam, delle stragi in Palestina, dei bombardamenti in varie parti del mondo per “importare la democrazia”. Rimaniamo sull’attualità. Esistono luoghi geografici di quello che – in termini di comunicazione – McLuan definiva “villaggio globale”, del quale non sapremo indicare l’ubicazione neppure con una cartina geografica sotto il naso. Dov’è Maiduguri, capitale dello Stato di Borno? E Potiskum, principale centro economico dello Stato di Yobe, nella parte nord orientale della Nigeria? Cos’è Boko Haram, un profumo orientale, un piatto esotico o un gruppo fondamentalista sunnita che pratica il terrorismo per realizzare lo stato islamico in Africa con una strategia della tensione straordinariamente sanguinaria. Maiduguri e Posiskum sono le città nelle quali alcune giovanissime ragazze sono state costrette a diventare lo strumento di attentati tra la folla. Ragazze alle quali è stato collocato, sotto i vestiti, dell’esplosivo che doveva esplodere attivato da un telecomando. Bambina ridotte a brandelli umani insieme a tanti altri ignari passanti. Sono i luoghi nei quali oltre duecento studentesse vengono rapite in una scuola, colpevoli soltanto di frequentare appunto una scuola. Ragazze adolescenti costrette alla conversione all’Islam davanti ad una telecamera e destinate a essere vendute o donate ai miliziani combattenti come schiave sessuali o, peggio ancora, a essere utilizzate come “pacco bomba “ vivente per gli attentati. Sono ormai numerosi questi episodi, in Nigeria, quindi lontano dalle nostre case, secondo il nostro comune modo di intendere le vicende che non ci coinvolgono direttamente. Ma dopo le vicende di Parigi la prospettiva è cambiata. Nessuno potrà darci la certezza che episodi analoghi non possano accadere anche a casa nostra. Allora che possiamo fare? Non la guerra all’Islam predicata dalla “beata” Oriana Fallaci e prontamente sostenuta da inutili idioti di casa nostra. I nostri riferimenti ideologici, i nostri obiettivi devono essere l’istruzione, il confronto, l’integrazione, l’accoglienza, la lotta alla miseria e alle disuguaglianze che contrappongono a un mondo benestante e sprecone di beni e risorse l’indigenza di miliardi di persone. E quando parlo di istruzione, non mi riferisco soltanto all’istruzione degli altri, al diritto all’istruzione delle donne mussulmane. Parlo anche di noi, del nostro sistema di istruzione che attualmente non trasmette ai giovani le necessarie conoscenze per comprendere e interpretare l’attuale realtà geo-politica. Non sappiamo niente dell’Islam e della religione mussulmana, conosciamo poco delle vicende storiche che hanno condotto all’attuale divisione del mondo, ai conflitti in atto, alle contrapposizioni tra culture apparentemente diverse e lontane che magari hanno anche molti punti di vista comuni. Mandiamo le nostre truppe (e le nostre armi) in luoghi dei quali la maggior parti dei cittadini non conoscono neppure l’esistenza. “Siamo tutti Charlie”, bene. Ma non è soltanto una questione di vignette satiriche, non si tratta soltanto di difendere il sacrosanto diritto alla libertà di espressione e quindi anche di fare satira. Si tratta di cominciare a pensare a un nuovo mondo da costruire intorno ai valori del confronto, della tolleranza, della giustizia e della pace. Un compito immensamente difficile, certamente lungo e faticoso. Una scommessa affascinante per le giovani generazioni.

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Il colossoUnion sacrèe coi governi che attaccano i diritti?
democraziaoggidi Andrea Pubusa, su Democraziaoggi

A Parigi domenica si sono riuniti quasi tutti i capi di governo responsabili dell’impoverimento generale dei popoli europei e insieme della insostenibile situazione delle masse del Medio Oriente e dell’Africa. Hanno capeggiato una grande manifestazione a difesa dei valori democratici dell’Occidente, mentre nei loro paesi e nell’UE, sotto la spinta del capitale finanziario, aggrediscono i diritti sociali, frutto delle Costituzioni nate dalla Resistenza al nazifascismo e delle lotte dei decenni successivi. Particolarmente visibile questo attacco sul fronte delle diseguagluanze, che prima si tendeva se non a colmare, almeno a temperare e da due decenni a questa parte hanno ripreso a crescere creando una forbice fra ricchi e poveri che ci riporta indietro più d’un secolo. Il punto di sfondamento è individuabile nel lavoro, il cui oggetto è ormai ridotto a mera merce, cancellando la soggettività, l’umanità di chi la produce, e dunque privando i lavoratori di qualsiasi diritto, anche di quello primario ad un salario che garantisca una vita libera e dignitosa, come dice la nostra Costituzione. Capeggiano questi signori la grande manifestazione in difesa delle libertà, ma disconosconoi la piena soggettività del lavoratore e riducono la massa a mera destinataria non solo dei poteri di governo, ma anche dell’informazione che dicono di voler difendere. Questa torna ad essere formalmente libera, ma nella sostanza è in mano a grandi potentati economici che formano un’opinione che distorce la realtà. Le leggi elettorali truffaldine, che limitano la rappresentanza fino a cancellarla, sono il risvolto di questa realtà a-democartica, dai Comuni al Parlamento. Capeggiano la manifestazione oceanica, ma calpestano la democrazia svuotandola di contenuto.
Quanto è accaduto in Afghanistan, in Irak e poi in Libia è il risvolto internazionale di questa politica. Invasioni violente, con massacri di massa, ammantate dalla missione impossibile di esportare la democrazia, in realtà espressione di una volontà aggressiva volta a far fuori governi, di cui spiace non tanto il carattere autocratico quanto la pretesa di gestione autonoma delle proprie risorse. Non è un caso che “il soccorso democratico” a suon di bombe è disposto solo in paesi ricchi di petrolio o in posizione strategica per il passaggio delle fonti energetiche. Le altre emergenze umanitarie sono dimenticate.
I capi di governo di Parigi sono dunque la faccia principale della dissoluzione dei valori democratici ch’essi hanno imposto a livello interno e internazionale.
La ricomposizione non può dunque passare cementando una union sacrée fra masse e questi capi di governo, così come non può nell’altro versante formarsi attorno a capi integralisti e fascistoidi, che sono specularmente l’altra faccia della medaglia. E’ nella convergenza fra la lotta per i diritti dei popoli europei e quella dei paesi dell’altra sponda mediterranea che può poggiare una ripresa di valori democratici e di civiltà. Ma chi organizza questo progetto? La scomparsa della sinistra in Europa, e, per quanto ci riguarda, in Italia, rende difficile persino pensare ad una lotta di questa portata. Ma da qui bisogna ripartire. Qualche indicazione positiva viene da Syriza in Grecia. Ma in giro di Tsipras non se ne vedono altri. C’è molto da lavorare.
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- Qualche spiegazione per la scelta dell’illustrazione nella pagina fb di Tonino Dessì, che ringraziamo per la riflessione e la ricerca che ci offre.
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ape su sardegnaDistrazioni di massa
di Omar Onnis, su SardegnaMondo

I fatti di Parigi del 7 gennaio scorso hanno scosso l’opinione pubblica anche in Sardegna, com’è inevitabile. Ed anche in Sardegna si è scatenato il delirio anti-islamico e anti-immigrazione. L’episodio sconcertante dell’assessore alla cultura di Bonorva, che lancia proclami di odio via FB, è solo un sintomo. È il sintomo della pessima selezione della nostra classe politica (caso mai avessimo bisogno di conferme) ed anche della facilità con cui è possibile manipolare la percezione delle cose e la stessa emotività di grandi masse di cittadini.

Davanti a fatti così tragici e così simbolici assumere un atteggiamento distaccato è difficile per chiunque. Nondimeno è indispensabile cercare di dipanare la matassa complessa del nostro presente per non farsene soffocare. E che il rischio sia di soffocare è evidente. Soprattutto in un luogo impoverito e indebolito come la Sardegna di oggi.

Nel nostro caso, infatti, la funzione distraente delle narrazioni tendenziose ha una forza e una portata amplificate. L’analfabetismo funzionale di massa, le aspettative decrescenti, la rabbia diffusa sono un materiale facilmente malleabile nelle mani di chi dispone di conoscenze, risorse e obiettivi solidi da perseguire. Sappiamo come va, è già successo. Ci hanno fatto accettare fatti, scelte, condizioni che nessuno, nel pieno possesso delle proprie facoltà, accetterebbe mai. Ma manipolare delle masse è più facile che persuadere una persona singola. Soprattutto quando mancano i riferimenti culturali, quando le formazioni intermedie non solo non fanno da filtro e da aggregatrici di interessi e obiettivi, ma sono sostanzialmente al servizio della nostra sottomissione.

Mentre molti sardi si lasciano trascinare nella ventata d’odio contro i musulmani o contro gli immigrati in generale, i sindacati rilanciano l’idea della chimica verde nel nord dell’isola e delle coltivazioni estensive di canne nel sud. La classe politica amplifica il ricatto occupazionale e, anziché mettersi di buona lena a cercare soluzioni, si mette a disposizione di avventurieri e affaristi per assecondarne i piani. La scuola muore, l’università è in declino (e non certo per colpa dello stato patrigno, o almeno non solo), l’emigrazione riprende a ritmi crescenti, l’inquinamento non diminuisce affatto, l’agricoltura è allo sbando, il mondo della cultura è completamente abbandonato a se stesso. Ammetto che a volte la reazione a tante lamentele si riduce a una domanda: ma voi chi avete votato fin qui? Ma chiaramente non la si può fare così semplice.

Occorre tenere ben desta l’attenzione sulle questioni cruciali, senza farsi distrarre dalle ombre proiettate per confondere le menti. Davanti all’intolleranza e alla violenza, servono maggiore inclusività e compresione. Non integrazionismo a tutti i costi, ma capacità di rispettare gli altri per quello che sono, fintanto che rimangono nei limiti della legalità e della convivenza pacifica al cui rispetto siamo tenuti tutti. Per combattere l’impoverimento culturale, la debolezza economica, la disoccupazione, non servono fughe in avanti fantasiose, ma proposte concrete, investimenti pubblici mirati e ben pianificati, servono maggior istruzione, maggiore conoscenza strutturata, maggior senso di responsabilità verso la sfera pubblica. Prima di tutto da parte della classe politica.

Chi grida contro i musulmani e nel mentre fa spartizioni di sottogoverno, o fa accordi con il Qatar, è un nemico molto più pericoloso di qualsiasi immigrato. In questa fase risultano dunque ancor più inutili, se non strumentali allo status quo, i discorsi di tipo etnocentrico, discriminatorio, nostalgico.

Non è l’immigrazione a costituire un rischio, specie in una terra lanciata verso un futuro prossimo di spopolamento. Non è nemmeno l’islam, in Sardegna largamente minoritario. Evocare a questo proposito la minaccia araba e saracena dei secoli passati è una sciocchezza dovuta non solo al razzismo ma anche all’ignoranza. Se è per quello, ci sono stati nella nostra storia momenti difficili in cui con l’islam i Sardi avevano raggiunto una tregua (e forse anche una alleanza), per esempio tra VIII e IX secolo. Sappiamo bene che qualsiasi problema creato nel corso del tempo dalle scorribande dei mori (spesso guidate da sardi, per altro) è niente in confronto ai guasti prodotti dalle classi dominanti di turno, compresa quella attuale.

La desertificazione culturale e l’ostinazione con cui la si persegue a livello politico non aiutano certo. Non è la cultura, a minacciarci, né la nostra né quella altrui. Caso mai la stupidità. Mi turba molto che in questi giorni in Sardegna vengano evocati maestri di pensiero equivoci come Oriana Fallaci o impresentabili cone Matteo Salvini. Abbiamo bisogno di questo? Di questo deve animarsi il nostro dibattito pubblico? Ricordiamoci che noi, prima di essere partecipi di un discorso razzista e di sopraffazione, ne siamo vittime. Questo dovrebbe esserci chiaro e dovrebbe anche insegnarci qualcosa.

Non c’è una sola ragione al mondo per cui la Sardegna debba essere una terra povera, spopolata e marginale. Se questa è la sua condizione, le cause sono storiche e storicamente determinabili. Se è vero che non esiste alcuna tara congenita, a spiegazione di questo stato di cose, non c’è però neanche una generica minaccia esterna ai nostri danni. Se pensassimo un po’ meno ai falsi bersagli additati da mass media e da gruppi di potere interessati e ci facessimo un bell’esame di coscienza quanto a ricerca di assistenzialismo, o di favori, quanto a noncuranza verso i nostri beni comuni, quanto a ignoranza di noi stessi, forse le cose per noi cambierebbero in meglio, senza bisogno di scomodare l’immigrazione, o l’islam, né Dio o chi per lui.

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shoah museo BerlinoL’importanza della luce quando siamo al buio
sedia-van-gogh4di Vanni Tola

“Se questo è un uomo”, già, se questo è un uomo. Come avrebbe commentato la strage di Parigi lo scrittore Primo Levi? Quali considerazioni avrebbe sviluppato sugli uomini che, in nome di Dio, hanno realizzato una strage di esseri umani per vendicare le offese al loro Profeta, realizzate con vignette satiriche? Se questo è un uomo. Come avrebbe descritto Primo Levi la barbarie di quei combattenti che, in nome della grandezza del loro Dio, hanno ripetutamente violato l’innocenza e l’integrità fisica di una bambina collocandole addosso un ordigno esplosivo per poi mandarla tra persone, anche esse innocenti, e farla esplodere come un pacco bomba, usando un telecomando? Che avranno pensato mentre, lontani dalla scena dell’attentato, la osservavano camminare verso i “nemici”? Che cosa le avranno raccontato per convincerla o indurla a recitare fino in fondo il terribile compito che le era stato assegnato? Che sensazioni avranno provato un attimo prima di attivare il comando elettronico che l’avrebbe ridotta in mille pezzi insieme a tante altre persone? E dopo, dopo, che sensazioni avranno provato? Si saranno sentiti eroi appagati per il loro eroico gesto o si saranno sentiti oppressi dal dubbio di aver compiuto una azione vigliacca quanto inutile e crudele? Non lo sapremo mai Primo Levi non c’è più. Nel cielo volano uccelli scuri, avvoltoi rapaci pronti a raccogliere brandelli di corpi innocenti per dare fiato ai loro propositi di guerre contro i diversi, guerre di “religione”, “guerre di civiltà”. Noi, i buoni, contro gli islamici, i cattivi. Niente di buono all’orizzonte. Dice una diciottenne Pakistana, il premio Nobel per la pace Malala Yousafzai, essa stessa vittima di un vile attentato degli estremisti islamici.
“Tutti ci rendiamo conto dell’importanza della luce quando ci troviamo al buio e tutti ci rendiamo conto dell’importanza della voce quando c`e il silenzio. Non odio neppure il Taliban che mi ha sparato. Anche se avessi una pistola in mano ed egli mi stesse davanti e stesse per spararmi, io non sparerei. Questa è la compassione che ho appreso da Mohamed, il profeta misericordioso, da Gesù Cristo e dal Buddha. Questo è il lascito che ho ricevuto da Martin Luther King, Nelson Mandela e Muhammed Ali Jinnah. Questa è la filosofia della non-violenza che ho appreso da Gandhi, Bacha Khan e Madre Teresa. E questo è il perdono che la mia anima mi dice: siate in pace e amatevi l’un l’altro. Un bambino, un maestro, una penna e un libro possono fare la differenza e cambiare il mondo. L’istruzione è la sola soluzione ai mali del mondo. L’istruzione potrà salvare il mondo. I libri e le matite sono la nostra arma più formidabile, quella che potrà farci vincere la miseria e conquistare la pace”.
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“In Europa, per non dire dell’Italia, in questo momento c’è una deficienza paurosa di personale politico in grado di affrontare il problema. Qui non c’è un’Europa in guerra, ci sono conflitti da disinnescare anche con le armi dell’intelligenza. E con la consapevolezza che si tratta di un processo lungo, difficile, faticoso. Ma non c’è alternativa, altrimenti si va dritti verso quello scontro di civiltà a cui puntano proprio i terroristi” (Massimo Cacciari)
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L’ambiguità delle piazze francesi
di Rossana Rossanda, su Sbilanciamoci.it

Non si possono portare avanti due politiche opposte – l’accarezzare vecchie e ingiustificabili tendenze coloniali e la difesa dei valori repubblicani – come ha fatto il governo socialista francese, nel tentativo di mettere in campo un diversivo allo scontento popolare in tema di diritti dei lavoratori e di politica economica

Le sole parole equilibrate nel diluvio di dichiarazioni di orrore e di angoscia anche della stampa italiana per l’assassinio dei disegnatori e del direttore di “Charlie Hebdo” le ha scritte Massimo Cacciari, riportando la questione alla sua dimensione temporale e politica. La grande emozione e protesta che ha subito riempito in modo spontaneo le piazze francesi non è mancata infatti di qualche ambiguità. Si è potuto manifestare legittimamente, e quasi accogliendo l’invito del presidente Holland, il rifiuto del fondamentalismo e la difesa della repubblica e il “no” ai problemi posti dalla grande immigrazione musulmana in Europa.
Facilitata in Francia dal troppo coltivato richiamo alla colonizzazione francese in Africa del Nord e nel Medio Oriente. Da molti decenni si è dimenticato che un accordo fra un alto funzionario inglese, Sykes, e uno francese, Picot, disegnò la spartizione dell’impero ottomano fra Francia e Gran Bretagna. La Gran Bretagna poi ha prevalso e ancora più recentemente hanno prevalso le politiche degli Stati Uniti. Ma le recenti scelte di Holland di intervento nel corno d’Africa e nell’Africa centrale hanno, senza volerlo, ripristinato l’immagine di una gloria coloniale che dà fiato a Marine Le Pen. Ugualmente le parole del presidente Holland subito dopo l’attentato, richiamando tutto il paese all’unità contro il terrorismo, sono parse legittimare la richiesta del Fronte nazionale di partecipare alla grande manifestazione ufficiale antifondamentalista di domenica prossima, che lo ha messo non poco in imbarazzo davanti allo slancio con il quale Marine Le Pen ha annunciato la sua partecipazione. Non si possono infatti portare avanti due politiche opposte – l’accarezzare vecchie e ingiustificabili tendenze coloniali e la difesa dei valori repubblicani – come ha fatto il governo socialista, nel tentativo di mettere in campo un diversivo allo scontento popolare in tema di diritti dei lavoratori e di politica economica.
Lo slogan “Je suis Charlie” manifestava efficacemente un appoggio a un giornale niente affatto di grandissima diffusione, che in generale non fa complimenti al Fronte Nazionale. Si può del resto discutere di un tema già volgarizzato in Italia come l’immunità politica della satira, oggi difesa apparentemente da tutti. Le famose vignette danesi contro Maometto sono state amplificate da Charlie Hebdo in un’accentuazione dell’ateismo fin troppo augurabile ma da non identificare col disprezzo di tutti i credenti: “Nel cesso tutte le religioni”, aveva scritto e pubblicato in prima pagina quel giornale. Alla incapacità della sinistra di portare argomenti laici alla ribalta dell’opinione pubblica, e di rispondere al richiamo oggi esercitato specie da alcuni monoteismi e dal buddismo, sia pure assai diversi, ha corrisposto l’indulgenza a forme facili di caricatura, che sicuramente hanno offeso i milioni di musulmani in Europa. Basti pensare a quale accoglienza avrebbero avuto se quelle vignette si fossero nominativamente applicate a Gesù Cristo. Non penso che sia utile lasciare ai caricaturisti un compito che per loro natura, volendo irridere a tutte le fedi, non possono esercitare: è come se gettassero un fiammifero in un barile di benzina. È proprio la debolezza della sinistra del dopo il 1989 a produrre questa rinascita in forza delle religioni.
Per quanto riguarda quella musulmana, come non chiedersi perché il suo fondamentalismo – che pareva essere escluso da una organizzazione non piramidale delle sue chiese – sia scoppiato in queste forme mortifere, particolarmente oggi. Maometto esiste dal Settimo secolo e da allora in poi l’atteggiamento dell’impero ottomano, per esempio nei confronti degli ebrei, è stato di gran lunga più tollerante e tendente all’assimilazione di quello della chiesa cattolica, che ha voluto le crociate e lo ha investito di maledizioni e improperi, senza che questi portassero a nessuna Jihad, anzi, il famoso “feroce Saladino” era un interessante pacifista. L’estremismo dell’ammazzare tutti i non fedeli al profeta appartiene ai nostri giorni, ed è molto più serio cercarne le origini nelle forme coloniali e non coloniali adottate dall’Occidente che in un passo o l’altro del Corano.
Un fenomeno non meno importante riguarda il fascino che forme estreme di milizia, che arrivano fino al mettere in conto la propria morte per “martirio”, abbiano sui giovanissimi occidentali che raggiungono la Siria o altri luoghi dove possono arruolarsi con i maestri del fondamentalismo. La tanto conclamata fine delle ideologie sembra aver lasciato in piedi soltanto l’assolutismo di alcune minoranze musulmane, come appunto la Jihad e in modo particolare il recente Daesh, cioè lo Stato islamico rappresentato dal cosiddetto Califfato di al Baghdadi.
Da noi già appare la voglia di condannare i rappers che sembrano ispirarsene: errore dal quale bisognerà guardarsi. Insomma, il fascino dell’islamismo radicale corrisponde alla stupidità con la quale la cultura predominante in Occidente sembra trattare il bisogno di un “senso” non riducibile ai soldi che gli aspetti ideologici della globalizzazione hanno tentato di offuscare dalle parti nostre. Grande problema del nostro tempo che è inutile esorcizzare.
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- www.sbilanciamoci.it

- Leggi i commenti; qui ne riportiamo solo uno (di Salvatore Annunziata)
Io vivo in Francia e mi occupo di disagio giovanile ad Avignone. L’articolo di Rossana Rossanda lo considero come il frutto di una persona colta, molto sensibile che legge quanto sta accadendo in Francia da mercoledi scorso con lenti inadeguate. In effetti è verissimo che chi ha decimato la redazione di Charlie Hebdo (che qui è vissuto come il residuo più autentico del maggio ’68) e assalito il supermarcato kascher è il frutto del passato coloniale della Francia e del fatto che la Francia, in quanto sistema paese, non ha acora fatto i conti col proprio passato di potenza coloniale. Potremmo dire che la Francia rapresenta, dal almeno due secoli e forse più, il paradosso già incarnato dalla civilissima ed europeissima Atene di Pericle, vale a dire paladina delle libertà e della democrazia per quelli civilizzati e l’esclusione, la schiavitù, la carità, la messa sotto curatela per quanti (e quante) considerati barbari (i popoli colonizzati) o inferiori (le donne e i minori). Allo stesso tempo però mi sembra che la Rossanda dimentichi un piccolo particolare e cioè che qui in Francia la gente “normale”, come me e qualche milione di persone, rischia di ritrovarsi stretta tra dei fascisti barbuti che non mangiano prodotti derivati da carne di maiale, che abbinano ostracismo verso la musica ma utilizzano internet e i GPS e che si dicono veri seguaci del Profeta e degli altri fascisti per lo più bianchi, che loro invece lo mangiano e lo amano il maiale (al punto di portare in piazza delle teste – vere o finte poco importa – alle manifestazioni), che negano la shoah, che gridano “la France aux français”, che si battono contro l’islamisazione dell’Europa. In breve, se vogliamo utilizzare come paragone quello che è successo nelle terre della morta Federazione Yugoslavia, potremmo dire che qui rischaimo di ritrovarci circondati tra Ustacha e Cetnici.
La grossa sfida che ci attende tutti e tutte, non solo in Francia ma in tutti i paesi europei, è di dare nuova linfa alla democrazia, all’accolgienza, al rispetto dell’alterità propria e altrui. Insomma, ci tocca fare la messa a punto del nostro referenziale culturale avendo come bussola non delle ideologie scollegate dalla vita, dalla storia di ognuno di noi, bensi la dichiarazione universale dei diritti umani secondo cui, art.1, ogni essere umano nasce uguale in diginità e diritti. Ecco i valori che dobbiano, con qualunque mezzo coerente a quest’obiettivo, promuovere e difendere
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Strage Charlie Hebdo, Cacciari: “Politica di accoglienza o avremo il conflitto in Europa”
di Rodolfo Sala su Repubblica.it
MILANO – “I fatti orrendi di Parigi dovrebbero imporre a tutti noi di ragionare alla grande, ma in questo clima sono in pochi a ragionare, soprattutto in Italia. Il livello del dibattito è deprimente”. Lo dice il filosofo Massimo Cacciari.

E quale sarebbe, professore, la prima riflessione da fare?
“Negli ultimi venti-trent’anni abbiamo vissuto tutti nell’illusione che la storia potesse in qualche modo cancellare la propria dimensione tragica. Che la nostra Penisola potesse restare fuori dalle trasformazioni epocali che hanno rivoluzionato la geopolitica e prodotto una serie di conflitti (Afghanistan, Iraq, la questione irrisolta dei rapporti tra Israele e palestinesi) che anche per colpa dell’Occidente restano pesantemente irrisolti”.

Risultato?
“Vedo un rischio terribile e concreto. Il rischio di una guerra civile in Europa. Mi spiego: dobbiamo tenere presente che nel 2050 la metà della popolazione del nostro continente sarà di origine extracomunitaria, quindi è impensabile ritenerci in guerra, noi europei, con l’altra parte, con il mondo islamico. Per questo dico che bisogna ragionare alla grande. Il problema è con chi”.

A che cosa allude?
“In Europa, per non dire dell’Italia, in questo momento c’è una deficienza paurosa di personale politico in grado di affrontare il problema. Qui non c’è un’Europa in guerra, ci sono conflitti da disinnescare anche con le armi dell’intelligenza. E con la consapevolezza che si tratta di un processo lungo, difficile, faticoso. Ma non c’è alternativa, altrimenti si va dritti verso quello scontro di civiltà a cui puntano proprio i terroristi”.

Le armi dell’intelligenza, lei dice…
“Certo. Se durante il secondo conflitto mondiale ci fosse stato solo il generale Patton, e non anche la lungimiranza di leader come Churchill e Roosevelt, avrebbe vinto Hitler. Affontare il problema solo dal lato della semplice repressione non basta, non può bastare. Anche se questi islamisti hanno compiuto un indiscutibile salto di qualità”.

In che senso?
“Non siamo in presenza del kamikaze solitario, della bomba anonima. Le azioni come quella di Parigi sono programmate con una logica militare che punta, voglio ripeterlo, allo scontro di civiltà”.

Quindi?
“Fino a quando la nostra democrazia non dimostrerà di essere accogliente, e continuerà con le disuguaglianze, questo tipo di terrorismo troverà sempre terreno favorevole. Sullo scenario europeo, ora si pensa di far fuori la Grecia, mentre si allargano i confini dell’Unione alla Lituania: è pazzesco”.

Ma i toni salgono, Salvini dice che siamo in guerra…
“Una battuta che si commenta da sé, sotto il profilo culturale. Sarebbe un errore madornale additare nell’Islam il nemico, il modo per moltiplicare gli jihadisti”.

Aggiunge che il Papa non deve dialogare con l’Islam…
“Figuriamoci che cosa importa al Pontefice delle parole di Salvini. Che insieme alla Le Pen sta facendo di tutto per ostacolare il dialogo. Se si votasse domani la Lega e il Front national prenderebbero una valanga di voti. Sarebbe pericolosissimo, allora sì che saremmo in guerra. Certo, poi occorre realismo “.

E cioè?
“Riconoscere che fino a quando non sarà abbattuto lo Stato islamico dobbiamo aspettarci il peggio. Ma lo si abbatte solo se non si invoca il conflitto di civiltà. Purtroppo quando la storia appare tragica si fa molto fatica a ragionare. È del tutto logico, e porta anche voti: ma è anche pericolosissimo. Bisognerebbe fare un grande sforzo a partire da noi italiani, non credo sia inutile. In fin dei conti, con la storia che abbiamo, dovremmo essere vaccinati. Anche se adesso non pare così”.

Da Repubblica.it

Il conflitto di civiltà è dentro di noi

nastro lutto
di Nicolò Migheli *

La strage dei giornalisti e dipendenti di Charlie Hebdo ci interroga tutti e non solo sul supposto conflitto di civiltà tra l’Occidente e l’Islam. Di quella sparatoria non si conoscono ancora le ragioni profonde, forse non basta il colonialismo occidentale, il Medio Oriente è in fiamme dallo sterminio degli armeni del 1915, non basta la radicalizzazione di certo Islam politico e la spinta messianica che lo attraversa.

Non bastano perché, questa volta, come nel 1939 sono in gioco i nostri valori, il desiderio di vedere realizzata una società includente con pari diritti per tutti, libertà politiche e di fede garantite. Non basta perché l’attacco al Charlie è la cifra di una società che da sempre pencola tra oscurantismo e laicità. Tra libertà ed integralismo. I cittadini europei considerano chiuse le guerre di religione con la pace di Vestfalia del 1648, anche se la guerra jugoslava degli anni Novanta ha avuto anche aspetti di scontro tra cattolici e ortodossi, tra cristiani e mussulmani. La nostra laicità è figlia della riforma protestante e della rivoluzione francese.

Una libertà difficile, per dirla con Emanuel Lévinas. Uno scontro mai sopito tra diritti ed obblighi, tra la libertà di critica e di satira e rispetto per le fedi altrui. Basti ricordare il pregiudizio antiebraico, o quello reciproco tra cristiani di diversa confessione. L’illuminismo ha portato con sé la critica feconda sia dell’autorità religiosa che di quella monarchica. La caduta del principio di autorità ha permesso confutazioni prima impensabili. La secolarizzazione ha fatto il resto, nessuno può sottrarsi al diritto di critica e allo sberleffo altrui.

Oggi non è che con l’Islam europeo il panorama sia cambiato. No, si ripropone solo in maniera più virulenta. La modernità e le integrazioni labili favoriscono sensibilità che rivelano debolezze reciproche. Sono deboli gli occidentali impauriti da una diversità che non riconoscono ad altri, lo sono gli altri per i medesimi motivi. Uno scontro che in fin dei conti ha come oggetto quello che siamo, le nostre identità le appartenenze di gruppo e quello che vorremmo essere. Tante sono le domande che ci si pongono.

Si può irridere tutto, senza curarsi che quella parola o quel disegno provochino sofferenze in altri, in ciò che loro credono, del proprio stile di vita? Siamo sufficientemente liberi e nello stesso tempo accorti nell’accettare tutto, o c’è qualcosa che può fare scattare in noi una reazione forte ed inconsulta? La società americana aveva trovato la risposta con il politicamente corretto, una formula che garantisca la libertà di pensiero ma allo stesso tempo sia rispettosa delle diversità culturali e religiose. Non sempre però ci si riesce, il permanere del razzismo negli Usa è misura di come sia difficile contemplare entrambi gli atteggiamenti. In Europa dopo il 7 di gennaio parigino siamo di nuovo in mezzo al guado, dobbiamo trovare nuove modalità di confronto che contemplino la libertà di critica e sberleffo e allo stesso tempo non mortifichino ed offendano le credenze altrui.

È la sfida dei nostri tempi. Diritti, libertà e democrazia non sono acquisiti per sempre, sono conquista quotidiana difficile, ancor di più in tempi di confronti che diventano sempre più militari. Lo sottolinea Sandro Magister nel suo blog riportando un intervento del presidente egiziano Abdel Fattah El Sissi, tenuto il 3 di gennaio nella università di Al Azar, il “Vaticano sunnita”, davanti ai massimi esponenti di quella confessione: «Il mondo musulmano non può più essere percepito come “fonte di ansia, pericolo, morte e distruzione per il resto dell’umanità”. E le guide religiose dell’islam devono “uscire da loro stesse” e favorire una “rivoluzione religiosa” per sradicare il fanatismo e rimpiazzarlo con una “visione più illuminata del mondo”. Se non lo faranno, si assumeranno “davanti a Dio” la responsabilità per aver portato la comunità musulmana su cammini di rovina»

Noi non possiamo immaginare il nostro rapporto con l’Islam in termini di scontro violento, ma anche loro debbono smettere di desiderare che il resto del mondo si uniformi alle loro credenze. Lo diceva El Sissi nel discorso citato. Una mia amica mi raccontava di un ricercatore afghano che l’anno scorso frequentò un master di dottorato a Sassari. Alla sua domanda su come l’esperienza sassarese avesse influito su di lui, Abdullah rispose: “Non si può attraversare due volte lo stesso fiume, perché sei cambiato nel viaggio e perché l’acqua non è più la stessa”.

In questi anni abbiamo attraversato fiumi, la nostra società europea non è più la stessa dei nostri genitori e padri. Siamo già cambiati, il conflitto dentro di noi è quello antico con modalità nuove. Anche questa volta ce la faremo.

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* Da Sardegnasoprattutto
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La mattanza di Parigi: sacrosanta la condanna, e poi?

Andrea Pubusa **

Di fronte agli assassinii di Parigi viene anzitutto alla mente la viltà dei massacratori: una cosa è un’azione di guerra fra soggetti in guerra, altra la mattanza di persone inermi, colte alla sprovvista nella loro quotidianità. E non ci sono parole per la condanna. Non c’è causa che giustifichi queste azioni. Ma su questo molto si legge sulla stampa di tutte le tendenze, tanto si vede in TV. E poco o niente c’è da aggiungere.
Viene invece alla memoria la campagna scellerata, dopo l’attacco alle Torri gemelle, di George W. Bush e di Dick Cheney, col consenso di tutti i governi occidentali, che ha portato in breve tempo alla invasione dell’Irak. Giuliano Ferrara in un fondo dell’Unione sarda la assume a modello del trattamento ordinario verso gli islamici. Ma oggi chiunque abbia un barlume di ragionevolezza e di onestà intellettuale dovrebbe ammettere che si trattò di un madornale errore, di un’azione ingiustificata e, in fondo, suicida.
Saddam non era certo uno stinco di santo né un campione di democrazia, era tuttavia un laico che aveva, se non creato, ereditato e mantenuto un equilibrio fra le diverse componenti religiose, tant’è che il vice-presidente Tariq Aziz, venuto anche in visita in Italia e in Vaticano, era un cattolico-copto. D’altronde la dimensione non confessionale del partito Baath, di cui Saddam era in qualche modo erede, è sottolineata proprio dalla disomogeneità religiosa dei tre fondatori: alawita al-Arsūzī, cristiano ortodosso ʿAflaq e musulmano sunnita al-Bīṭār così come Akram el-Hurānī che più tardi raggiungerà il gruppo e sarà il promotore dell’aggiunta dell’aggettivo “socialista”. Saddam era, dunque, un esponente di quella generazione di politici del Baath, partito panarabo e con dimensione sovranazionale (Siria, Irak, Giordania), che, nel nome del nazionalismo arabo, hanno creato forse gli unici governi laici possibili a quelle latitudini e in quei contesti. Lo stesso dicasi per Gheddafi in Libia e Mubarak in Egitto. Certamente si tratta di regimi assai lontani dal modello angossassone o da quello europeo continentale d’occidente nato dalla Resistenza al nazifascismo, e sono sistemi distanti anche dalla prospettiva originaria del nazionalismo panarabo, ma è il sistema meno dannoso in quei contesti. Contrariamente a quanto dice Giuliano Ferrara e chi la pensa come lui, il moto pacifista e antiinvasione che si sviluppò allora e che aveva in prima fila Papa Wojtyla e tutto il mondo cattolico non era mosso da una subalternità al mondo arabo, ma, esattamente all’opposto, mirava ad un confronto e ad un rapporto fondato sull’interesse reciproco. E anzitutto quel movimento partiva da una verità evidente fin d’allora, e cioé che Saddam non c’entrava nell’attacco alle Torri e che a tutto pensava fuorché a mettersi in guerra con gli States. Saddam tutto era fuorché ingenuo e ben sapeva che da uno scontro militare con gli USA non poteva uscirne vincitore nè vivo.
L’attacco all’Irak e la destabilizzazione della Libia e del mondo arabo non hanno dato un plus di democrazia, com’era facilmente prevedibile, ma hanno aperto le porte ad un estremismo di cui i fatti di Parigi sono l’espressione più barbara e tragica. In Egitto si è evitato il peggio perché c’è un esercito forte, che ha ripreso in mano la situazione in sostanziale continuità col regime precedente.
Pertanto, la condanna per il massacro di Parigi è ovvia e istintiva, ma occorre la politica. E certo le posizioni estremiste alla Giuliano Ferrara non possono portare a nulla di buono come è insufficiente un approccio semplicemente repressivo. Il bandolo della matassa sta nella soluzione dei temi destabilizzanti del mondo arabo, a partire dalla questione palestinese che eliminerebbe un fattore di instabilità e di scontro permanente. Da lì poi occorrerebbe ripartire per una ricomposizione, puntando sui paesi di quell’area che hanno mantenuto una loro stabilità interna, a prescindere dal loro tasso democratico certo molto vicino allo zero. E’ un’opera immane. Gli equilibri per quanto insoddisfacenti una volta spezzati sono di ardua ricomposizione. L’unica cosa certa in tutto questo è che dalla violenza nasce violenza in una spirale senza fine e senza limite, e che la ricomposizione richiede fermezza, ma anche rispetto. Parigi, dopo la naturale condanna dell’eccidio, richiede sopratutto iniziativa politica e intelligenza, molta intelligenza.
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** democraziaoggida Democraziaoggi
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per Charlie 1
«Chiunque ha il diritto alla libertà di opinione ed espressione; questo diritto include libertà a sostenere personali opinioni senza interferenze ed a cercare, ricevere, ed insegnare informazioni e idee attraverso qualsiasi mezzo informativo indipendentemente dal fatto che esso attraversi le frontiere» »
( Dichiarazione universale dei diritti umani )

Renzi consegnerà i ceti deboli all’estrema destra

Celerini Scelba
di Nicolò Migheli *

La storia non è mai stata maestra di nessuno. Tanto meno per questi giovani rottamatori che hanno scalato il PD come se fosse una qualsiasi azienda quotata in borsa, e di storia a scuola ne hanno studiato poca. Tutti i giorni ci dimostrano la non conoscenza dei fatti. Non sanno ad esempio che lo Statuto dei lavoratori venne scritto e portato in parlamento dal Partito Socialista Italiano, partito di sinistra fino a prova contraria.

Ieri i celerini del ministro di polizia Alfano -prossimo ad entrare nel PD – hanno manganellato duramente gli operai ternani che manifestavano per la chiusura di una delle più antiche fabbriche d’Italia. Dopo gli insulti che l’on. Picierno ha rivolto a Susanna Camusso, lo scrittore Giulio Cavalli ha definito la politica di Renzi come neopaninara. Cambiano gli oggetti caratterizzanti. Ieri piumini e scarpe da barca di note marche, oggi aggeggi telematici di moda. Il mutamento antropologico dell’ex partito della sinistra è compiuto.

Lo descrive molto bene Luciano Gallino sulla Repubblica dove contrappone la Leopolda a Piazza San Giovanni. I giovani di ceto medio alto che si beano delle parole antisciopero del finanziere di riferimento Serra e il popolo sempre più precario e disperato delle fabbriche chiuse, dei contratti di un giorno. Renzi annuncia che vuole la “disintermediazione di un corpo intermedio”, tradotta in parole povere la distruzione dei sindacati. È vero che in questi anni i sindacati confederali hanno fatto molti errori, ma se dovessero sparire ogni lavoratore si troverà a contrattare individualmente la propria posizione. È quel che accade già oggi a milioni di precari.

Invece però di agire perché questa stortura venga eliminata, ci si augura che così sia per tutti. Renzi annuncia che l’epoca del posto fisso è finita, lo dice con un sorriso compiaciuto, senza rendersi conto che un politico di sinistra non può dire cose che portano con sé carichi di angosce profonde senza proporre soluzioni. Un mio caro amico mi chiama e mi confessa di essere disorientato. “Come è – si chiede- che le uniche cose di sinistra ormai le dicano Le Pen in Francia e la Lega e i Fratelli d’Italia qui da noi? Non è che mi sia spostato a destra a mia insaputa?”

Oggi una gran parte di elettori che si definiscono di sinistra non trovano più rappresentanza politica. Una realtà che si annuncia molto pericolosa per l’Italia. Abbandonare i ceti deboli, i colpiti dalla globalizzazione, significa in realtà ridurli a neo servi della gleba. Qualcosa di più: un regime schiavista senza diritto di vitto e alloggio. In politica non esistono vuoti, qualcuno li riempirà. È stato così nel 1919 con la nascita del fascismo. È così in Francia con Le Pen che dà risposte ai ceti popolari abbandonati dalla sinistra tradizionale.

Alain Soral uno dei pensatori di punta della destra francese teorizza il movimento lepenista come “Sinistra del lavoro e destra dei valori.” Il loro programma è improntato alla difesa dello stato sociale, dell’intervento pubblico in economia, del posto fisso. Tutti temi cari alla sinistra di un tempo. Il tutto però accompagnato ad una visione di destra nei valori, unita alla retorica della politica sprecona. Il ritorno di Dio, Patria e Famiglia, da cui sono esclusi i migranti.

Le Monde diplomatique, già un anno fa la definiva una “confusione rosso-bruna” visto che l’FN può contare sull’ingresso nelle sue file di ex militanti del Front de gauche. “Confusione” che ricorda cose tragiche, politiche nazional-socialiste. Non solo la Francia, tutta l’Europa è percorsa da movimenti simili. In Italia la Lega di Salvini, superando il recinto padano si offre come rappresentante del disagio e delle paure dei non garantiti, di chi perde lavoro e status. La Lega non è sola, sente la concorrenza di Fratelli d’Italia e dei partitini di estrema destra come Fronte Nazionale.

Il PD vuole essere l’autore di un simile smottamento? Vuole ancora rincorrere politiche di austerità che si tradurranno in una crisi fortissima della coesione sociale? Non credo, anche perché in quel partito esistono ancora persone con il senso della storia e delle conseguenze del proprio agire. Quanto contino oggi non si sa. Certo però che passare da Gramsci – a proposito chi era costui?- al finanziere Serra un certo effetto lo fa. Alla fine ci si potrebbe chiedere: l’unico leader di sinistra rimasto a Roma è papa Francesco?
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* anche su Sardegnasoprattutto

E lo sventurato rise

Fernand Leger Il circodi Nicolò Migheli*

Passato il tempo dei cachinni e dei sarcasmi restano l’amaro e lo sconcerto. Come è stato possibile che Ugo Cappellacci presidente dei Sardi si sia lasciato trattare in quel modo e ne abbia riso. E con lui, gli altri che sabato primo di febbraio, erano alla fiera di Cagliari? Ritornano alla mente le memorie di Ivan Sanchin, proiezionista di Stalin, che racconta dei terribili dopocena del dittatore, quando questi si dilettava ad insultare con barzellette oltraggiose i suoi collaboratori. L’offeso era quello che rideva di più, nel terrore di ritrovarsi l’indomani mattina gli agenti della NKVD davanti alla porta di casa.
Molotov, ministro degli esteri, nel 1948 non seppe votare contro l’arresto della moglie Polina, che rivide solo nel 1953 dopo la morte di Stalin. Che il modello di esercizio del potere dell’ex cavaliere fosse la satrapia asiatica era già noto, come note sono le sue frequentazioni ed amicizie con i dittatori ex sovietici. Dobbiamo però ringraziarlo Berlusconi, perché con quell’epiteto escrementizio ha rivelato l’idea che lui ha dei suoi fedeli e per esteso, visto che l’insulto era rivolto al nostro presidente, anche dei Sardi. Un popolo, per lui, degno solo di essere ammesso alle briciole dei suoi banchetti. Un popolo di veline, camerieri e boys da campi da golf. - segue -

Cappellacci si trivelli il suo giardino

NicolaMighelidi Nicolò Migheli
Cappellacci si trivelli il suo giardino [di Nicolò Migheli]
by sardegnasoprattutto
Questa volta scrivo per ragioni personali. Spero che non sia troppo tardi e che tra un mese in Regione una nuova maggioranza blocchi questi assalti indiscriminati che si stanno portando ai nostri luoghi. La giunta Cappellacci e i suoi uffici autorizzano la Exergia Toscana s.r.l. a procedere nelle esplorazioni geotermiche nel territorio del Montiferru. Nessuna Valutazione di Impatto Ambientale, come richiesto dalle comunità locali. – segue -