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Requiem
In ricordo di Giorgio Melis
di Gianni Loy
Prima di celebrare il sacramento, secondo l’insegnamento dei troppi preti che hanno avuto a che fare con la mia vita, devo confessare il mio peccato: l’unico, il solo peccato che offende veramente la divinità, quale che sia il nome con il quale si manifesta.
Neppure una telefonata gli ho fatto! Attendendo, perché questa era l’ineludibile verità del vento di primavera, che il destino si compisse. Raccattando le ultime informazioni sulla sua salute negli sms di una comune amica. Riflettendo sulle sensazioni che ti rimarranno dopo, quando verrà meno ogni usata, amante compagnia.
Tra le tristi incombenze dei giornalisti, vi è anche quella di dover essere sempre preparati alla morte altrui. Così come le vergini sagge, che prudentemente conservano l’alimento per le loro lampade, essi custodiscono, nei coccodrilli, le virtù degli uomini e delle donne di cui potrebbero esser chiamati a render conto all’improvviso.
Confesso che ho peccato! Per penitenza (don Baracca, il più abbordabile tra i miei confessori, si sarebbe accontentato di tre Avemaria) mi ero proposto di tacere, di astenermi da qualsiasi commento sulla morte di Giorgio.
Me lo ero proposto non solo per quel sentimento che ti viene da dentro, cercando di dare forma al caos, ma anche per un ragionamento più meditato, appreso da un grande maestro del Diritto del lavoro, che suggeriva cautela nelle recensioni di autori famosi. Perché, diceva, recensire l’opera di un grande maestro è un po’ come volersi porre, il più delle volte immeritatamente, al suo livello. Un peccato di superbia, insomma. - segue -