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La periferia si ribella all’establishment e aiuta la reazione. Si ripete il duello tra città e campagna

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Si replica il duello tra città e campagna
di Siegmund Ginzberg, su La Repubblica, ripresi da eddyburg .
Piccoli centri e campagne paiono risultare più fragili e indifesi delle città di fronte al vento di Vandea che soffia in tutto il mondo. la Repubblica, 18 aprile 2017 (c.m.c.)

Come per la Brexit. Come per l’elezione di Trump. Come potrebbe succedere tra pochi giorni in Francia se vincesse Marine Le Pen. Erdogan ha vinto grazie al voto delle “campagne”, della periferia. Era temuto, atteso, scontato. È la ricorrente vendetta dei “dimenticati”, dai tempi della Vandea francese all’ascesa di Hitler nelle piccole città prima che a Berlino.

Ma la grande novità è che questo vento di Vandea che soffia in tutto il mondo ha avuto una battuta di arresto. È stato frenato dalle città. Erdogan è stato a sorpresa tradito dalla “sua” Istanbul, da Smirne, persino da Ankara. Le tre città più popolose e dinamiche, che gli devono lavori pubblici e prosperità, gli hanno detto no. Tanto che la sua vittoria al referendum sembra quasi una sconfitta.

Una vittoria sul filo dell’uno per cento o giù di lì è già qualcosa di arrischiato e discutibile in una democrazia normale e consolidata. Che un margine così ridotto porti ad uscire o meno dall’Unione europea suscita perplessità. E ancora più il fatto che possa diventare presidente degli Stati Uniti un candidato che ha avuto 3 milioni e mezzo meno (sì in meno, non in più) della sua concorrente. Dipende dalle regole. Se le regole non vanno si possono cambiare, e comunque mai a partita in corso. A nessuno passerebbe per la mente di contestare il referendum britannico o le presidenziali Usa. Al contrario, un margine così ridotto diventa un problema in una democrazia così e così, in un Paese come la Turchia dove fino al 1945 si votava per un solo partito, e dove per decenni si sono periodicamente alternati elezioni più o meno libere e colpi di Stato militari.

E questo indipendentemente dai sospetti e dalle accuse di brogli. Le schede immediatamente e ufficialmente contestate sono un numero pari a quelle che avrebbero potuto decidere in senso esattamente opposto la consultazione. Quelle “irregolari”, perché prive del timbro di convalida, sarebbero addirittura un terzo del totale. E quanto alla segretezza lasciava a desiderare. Siamo impressionati dagli arresti, dai licenziamenti degli oppositori. Si sa molto meno di quanto siano diventati sistematici il controllo, la sorveglianza e la delazione di massa.

Già parecchio prima del fallito golpe del luglio scorso Erdogan aveva ufficialmente invitato i sindaci dei centri minori ad istituire la sorveglianza capillare dei concittadini, su quel che fanno ma anche su quel che dicono e pensano. Bastano una battuta o un “mi piace” azzardato a una vignetta o un giudizio su Facebook per essere convocati al commissariato a spiegare l’ “insulto” al Presidente, il vilipendio della nazione turca, oppure il sostegno al “terrorismo”. Figuriamoci le conseguenze che si possono temere, specie in un piccolo centro di provincia, se si viene additati come malvotanti.

Il referendum di domenica avrebbe dovuto confermare il cumulo di tutti i poteri nelle mani del presidente della Repubblica, cioè di Erdogan: fondere presidenza e governo, consentirgli di nominare i giudici, renderlo immune a qualsiasi persecuzione giudiziaria, qualsiasi forma di impeachment o rimozione, e soprattutto togliere ogni limite alla durata del mandato. Erdogan ci teneva. È stata la sua ossessione da almeno un decennio a questa parte, forse addirittura sin da quando nel 2002 da sindaco di Istanbul era stato eletto capo del governo, certo da quando, scaduti i mandati, nel 2014 aveva dovuto accontentarsi di fare il Presidente della Repubblica, carica allora alquanto simbolica.

Era stato fermato una prima volta nel 2014, quando le urne gli avevano negato la maggioranza parlamentare. Ci aveva riprovato l’anno dopo, nel 2015, recuperando, grazie al voto nelle “campagne” una maggioranza sufficiente a formare il governo, ma non quella necessaria a far passare modifiche costituzionali. Aveva bisogno di una maggioranza di 2/3 per cambiare direttamente la Costituzione, di una maggioranza di almeno 2/5 per poter fare un referendum sulla Costituzione. Non era riuscito ad ottenere alle urne né l’una né l’altra. Per riuscire ad indire almeno il referendum ha dovuto liberarsi dei deputati curdi, togliendogli l’immunità parlamentare e mandandone decine a processo come sostenitori del “terrorismo” curdo.

Pensava a questo punto che la strada fosse spianata. Prevedeva un margine di 60 per cento o oltre. Si deve accontentare di un vantaggio in pochi decimali. Dal suo punto di vista è una sconfitta. Tanto che ha dovuto affrettarsi a dichiarare, contrariamente al suo stile, che il risultato «è una vittoria per tutti, sia quelli che hanno votato sì sia quelli che hanno votato no». In teoria, con le modifiche costituzionali a cui il referendum dà ora il via libera, Erdogan potrebbe restare ininterrottamente al potere fino al 2029. Si tratta di un problema che si era posto ad altri leader di democrazie “per modo di dire”, che ad un certo punto si erano dati regole simili a quella di democrazie consolidate come gli Stati Uniti, dove vige il limite di due mandati. Putin l’aveva risolto, come è noto, inventando l’alternanza tra presidenza e capo del governo, che ha dato vita alla staffetta con Medvedev.

La cosa che impressiona è che persino in Cina ora Xi Jingping muoia dalla voglia di estendere i suoi mandati oltre quelli regolamentari al punto di voler cambiare le regole al prossimo Congresso del Pcc. I suoi due predecessori non avevano osato e si erano lasciati regolarmente sostituire alla scadenza. Mao non ne aveva bisogno. Era presidente a vita. Deng non aveva incarichi di Stato ufficiali: gli bastava e avanzava essere il presidente della Commissione militare del partito, cioè il capo delle Forze armate. In Cina peraltro non hanno mai avuto problemi di elezioni o referendum: semplicemente da quando le loro campagne avevano preso le città, «con la canna del fucile» come soleva dire il vecchio Mao, non si vota più, e se si votasse probabilmente i risultati sarebbero plebiscitari a favore di chi è già al potere.
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eddyburg
SOCIETÀ E POLITICA »TEMI E PRINCIPI» POLITICA
Il campo conteso da globalisti e sovranisti
di LORIS CARUSO E ALFIO MASTROPAOLO su il manifesto, ripreso da eddyburg
«La resistenza è spesso molecolare, disordinata, a volte apolitica: è disagio sociale, protesta locale, aggregazioni di corto raggio e breve durata, disordine d’ogni sorta. Eppure, vi sono segnali che lasciano margini di speranza». il manifesto, 18 aprile 2017 (c.m.c.)

L’elezione di Donald Trump potrebbe costituire l’avvio di una profonda ristrutturazione degli schieramenti in campo: di quelli politici e di quelli dei loro supporters, che agiscono al di fuori della sfera politico-elettorale, ma che con i partiti in senso proprio hanno legami strettissimi: marciano divisi, per colpire uniti. Da un lato c’è uno schieramento che potremmo chiamare «globalista». Per esso la consegna del pianeta al mercato è giusta e inevitabile. In linea di massima questo è lo schieramento che al momento prevale alla guida delle democrazie sviluppate. Salvo aver alfine trovato un rivale assai temibile.

È ancora un’ipotesi: grazie a Trump di schieramenti se ne potrebbe costituire un altro, che potremmo denominare «sovranista», la cui struttura portante sarebbe fatta di quei partiti che ordinariamente vengono classificati come populisti. Secondo questo secondo schieramento il rimedio ai danni prodotti dai globalisti non consiste nel sottrarre spazi al mercato, ma nel restringere il mercato entro i confini nazionali, dandogli lì piena libertà di manovra. L’altra caratteristica dello schieramento sovranista sta nella sua capacità di strumentalizzare le sofferenze e le paure di una parte delle vittime dei globalisti, da esse traendo parte non secondaria del suo seguito elettorale.

Tra i due rivali, uno ben solido, l’altro in via di consolidamento, c’è più accordo che contrasto. Wall street non ha manifestato sofferenza dopo la vittoria di Trump. La Brexit non ha prodotto effetti sconvolgenti, e la borsa di Londra se la cava egregiamente. Se così fosse, sarebbe un’invenzione straordinaria: il capitalismo fa opposizione al capitalismo. Evviva il capitalismo! Divergono sui mezzi: l’uno considera lo Stato un ingombro, l’altro uno strumento. Forse è un conflitto ciclico nella storia del capitalismo. Quello che è verosimile è che i sovranisti non riusciranno a sfuggire dal labirinto di vincoli in cui i globalisti hanno cacciato le società occidentali e proveranno a mascherare il loro fallimento con un po’ di misure illiberali, antidemocratiche, razziste. Trump ha già cominciato. Anzi, ha fatto di meglio. Ha ripreso a bombardare, con tanto di motivazioni umanitarie. Non senza ottenere il plauso dei globalisti-liberali.

C’è forse qualche somiglianza con i contrasti che divisero negli anni 20-30 dello scorso secolo i fascisti da una parte dei liberali. Poi, allora, le cose evolvettero. I liberali presero le distanze, rinunciarono al liberismo, inventarono il New Deal, si appropriarono dell’interventismo statale fascista, ma lo rinnovarono radicalmente in senso democratico. Le analogie sono intriganti, ma non sono mai perfette e non vanno esagerate. Non sappiamo nemmeno come il contrasto tra globalisti e sovranisti evolverà. Potrebbe anche evolversi positivamente. I globalisti potrebbero, almeno alcuni, scoprire di aver esagerato e che l’involuzione autoritaria è troppo rischiosa. Vedremo. Come tutte le trasformazioni, anche questa è incerta.

Anche perché le resistenze non mancano. Negli anni 20-30 c’erano grandi partiti socialisti e comunisti, a volte brutalmente repressi, ma che rappresentavano un principio di resistenza. Oggi c’è resistenza, ma ha altre forme, giacché quei partiti hanno deciso di confondersi nello schieramento globalista. La resistenza attuale è spesso molecolare, disordinata, a volte apolitica: è disagio sociale, protesta locale, aggregazioni di corto raggio e breve durata, disordine d’ogni sorta.

Tra le forme più paradossali c’è persino il voto per i partiti populisti: che se per alcuni implica adesione, per altri è un voto di «odio». Li si vota perché non c’è di meglio, perché è il voto che reca più disturbo.

La resistenza dispersa non è una condizione inedita. Prima che nascessero i grandi partiti di massa, gli strati popolari erano classificati come classes dangereuses: erano le folle del 1789 del 1848, che i partiti socialisti promossero a classes laborieuses, dotate di un’identità e una soggettività collettiva, protagoniste di grandi cambiamenti.

È immaginabile un riorientamento analogo delle resistenze che caoticamente si manifestano di questi tempi? Non è facile. Una cosa era contrastare lo Stato e le imprese, un’altra rovesciare il mercato globale, gli evanescenti labirinti della governance sovranazionale e i bit della speculazione finanziaria. Eppure, vi sono segnali che lasciano margini di speranza. Il nemico è possente, globalista o sovranista che sia. Ma è possente perché i suoi avversari sono deboli. Ma fino a un certo punto.

Le grandi mobilitazioni sociali di carattere «universalistico» apparse dal 2011 non sono un incidente. Sono manifestazioni di una rivolta collettiva che ha indossato prima le vesti degli Indignados spagnoli e greci, di Occupy, di Gezi Park, della francese Nuit Debout e che poi ha avuto qualche non secondario sbocco elettorale. La rivolta movimentista e l’esodo elettorale dai partiti tradizionali sono a volte riusciti a intrecciare protesta politica e protesta sociale. Tra le vittime del nuovo ordine (o disordine) e le oligarchie cova un conflitto che evoca le grandi retoriche rivoluzionarie: la virtù contro la corruzione, il basso contro l’alto, i produttori contro i parassiti, il «popolo» contro la «corte» (oggi la «casta»). Va da sé che è tutt’altro modo di interpretare il conflitto «basso contro alto» rispetto a quello dei populisti-sovranisti. Nessuno che abbia seguito agisce oggi al di fuori di questa frattura.

Negli Usa la campagna di Sanders è stata fatta in gran parte da attivisti di Occupy, così come la campagna pro-Corbyn nel Labour. Podemos non sarebbe nato senza gli Indignados. Syriza ha vinto le elezioni dopo un lungo ciclo di mobilitazione sociale. Il governo più progressista d’Europa, quello portoghese, è una coalizione tra il partito socialista e partiti della sinistra radicale, resa possibile da un intenso ciclo di mobilitazione anti-austerity. In Francia Mélenchon cresce nei sondaggi anche sull’onda della Nuit Debout. Altre nuove forze di sinistra avanzano in Olanda e in Belgio. La resistenza molecolare prova a coagularsi. Non ci sono quindi alibi per la sinistra italiana: non è vero che nella crisi cresce solo la destra.

Forse il problema italiano è che questo spazio è stato occupato dai grillini, o è stato loro consegnato. Oppure che l’equivoco del Pd si è dissolto solo di recente.

Ma bisogna anche imparare dagli altri. Le nuove forze di sinistra, dove conquistano consensi importanti, non sono stanchi mosaici di ceti politici di lungo corso. Spiazzano, disorientano, agiscono come outsiders, quasi come alieni. Inventano nuove forme organizzative. E soprattutto ci credono, e spiegano a coloro cui si rivolgono che le attuali ingiustizie non solo non hanno niente di naturale e di obbligato, ma sono pure superabili. Purché lo si voglia.

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Establishment